UBI SOLITUDINEM FACIUNT, PACEM APPELLANT

(17/02/2021) Una lettera che riflette lo scoraggiamento di chi resiste in montagna. Ci vuole tanta determinazione per farlo perché si ha a che fare con una corsa ad ostacoli: sempre nuove angherie burocratiche, controlli, certificazioni, messe a norma. E poi, naturalmente, il lupo che cinge d’assedio le borgate e le famiglie che vivono isolate come quella di Annai. Fa parte di questo suo scoraggiamento l’atteggiamento che vede nel conflitto intorno al lupo – che da sociale diventa anche politico ( è fisiologico ed è un bene per la democrazia) – qualcosa che passa sulla testa dei montanari. Non siamo d’accordo ma rispettiamo il pensiero, sempre sincero, di Anna.

di Anna Arneodo

Bounjourn!

Scrivo per dovere di coscienza, scrivo a nome di tutti i tanti o pochi montanari veri, che in
questi giorni nessuno ascolta o interpella.
Noi pochi rimasti, cresciuti quassù e rimasti per scelta, siamo come gli sherpa nepalesi,
che nessuno ricorda: i meriti della conquista delle vette sono sempre degli alpinisti vestiti
di abiti ed attrezzature tecniche, sponsorizzati da potenti multinazionali. Siamo come gli
Indiani d’ America, di cui tutti si vantano di ammirare la saggezza e la civiltà, ma che
vanno appena bene a fare animazione da circo con Buffalo Bill, o a ispirare vestiti di
carnevale…
D’altronde già Tacito diceva – riferito al popolo vincitore, a cui egli stesso apparteneva –
“ubi solitudinem faciunt pacem appellant” ( dove fanno il deserto lo chiamano pace)

Al di là delle esternazioni politiche di questi giorni (Parco, parchi, SIC, Regione…),
attacchi, risposte, giochi di rimpallo di responsabilità, accuse, minacce…, tutto passa sulla
carta – o sul web-, ma la montagna rimane come prima: della montagna e della sua gente
non importa niente a nessuno. In tutto questo gran vociare, in questo gran polverone
mediatico, i montanari sono fuori, i giocatori sono sempre gli stessi, la partita tornerà a
vantaggio dei medesimi . Tra di loro né il lupo vero, né i montanari.
Anche il lupo è solo uno strumento nelle mani di qualcuno senza scrupoli, che comunque
ne ricava un buon tornaconto.

Quando senti un pastore – e pastore vero si è soltanto per passione, non per fame di
contributi -, quando lo senti dire “ Il lupo mi ha tolto la voglia di vivere”, allora ti chiedi se in coscienza questa assurda speculazione sia giusta, se qualcuno abbia ancora una coscienza!
O se davvero molti vogliano che la montagna raggiunga la pace.
E’ ora che noi che siamo e ci sentiamo montanari diventiamo protagonisti delle scelte che
vengono fatte su questa nostra terra. E’ ora che torniamo a farci sentire, a pretendere di
essere interpellati ed ascoltati, come stanno facendo i nostri vicini dell’Ossola e di altre
valli delle Alpi. E’ ora che non siano solo più i Parchi ed i politici a parlare per noi.
Chiediamo di avere voce, perché siamo noi montanari ad abitare questa nostra montagna
: non i lupi, i caprioli, i cervi, gli stambecchi… Senza montanari la montagna è morta.

P. s. Ho appena saputo ieri , dal commercialista che mi cura le pratiche agricole, che nel
2020 l’indennità compensativa spettante a chi in montagna pratica l’attività di coltivatore
diretto è stata dimezzata. Anche in questo caso nessuno ha fatto rumore, ha protestato troppo: ma, anche qui, dove sono le associazioni di categoria, dove i sindacati agricoli,
dove i politici, gli Assessori alla Montagna e all’Agricoltura della Regione Piemonte, i nostri
rappresentanti che in qualche modo abbiamo eletto?
Tutti sanno che l’indennità compensativa dovrebbe compensare il maggior carico di lavoro,
le ore in più di fatica necessarie per coltivare o allevare in montagna, per praticare questa
nostra agricoltura “ardita ed eroica”. Ora la presenza persecutoria del lupo ci richiede
ancora più ore ed ore per mettere i recinti elettrici , i dissuasori luminosi ed acustici, per
vigilare di continuo a difesa del predatore, addestrare e mantenere i cani da guardiania,
spostare il gregge, correre dietro alle pratiche di segnalazione e rimborso dopo ogni
attacco, burocrazia aggiuntiva….E ci dimezzano l’ indennità compensativa? Ma il lupo si è
mangiato anche il buon senso?

Altra amara barzelletta: nel 2019 gli allevatori per potere usufruire dei rimborsi in caso di
attacco di lupo dovevano pagare una assicurazione al COSMAN (Consorzio smaltimento
animali). La Regione Piemonte garantiva la copertura del 50%, l’ altro 50% era a carico di
chi possedeva gli animali. A maggio 2019 noi abbiamo pagato il nostro 50%, a dicembre il
COSMAN ci ha richiesto il 50% di competenza della Regione, sostenendo :“La Regione
Piemonte non ha i soldi, quando li avrà ve li restituirà!”. Al che io ho risposto:” Anch’io non
ho i soldi!”. Tuttora il COSMAN continua a chiedermi la quota che la Regione non ha
pagato, minacciando di inviarmi la cartella esattoriale. Ma morosa è la Regione
Piemonte,non sono io!
D’ora in poi – se mi succederà qualche disgrazia – imbandirò direttamente il banchetto ai
lupi: intanto alla sera ululano a 50 metri sopra la stalla!
Questi sono i veri problemi di chi in montagna abita e si cura del suo paese, non le farfalle
del bosso o i cuccioli di lupi e di vipere: noi per primi amiamo e rispettiamo la natura che ci
circonda, ma prima viene l’ uomo.
(Ho riportato alcuni esempi accaduti a me soltanto per essere sicura di non incorrere nella
violazione della “privacy” di nessuno, ma la situazione è simile per tutti.)

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Lupo: la responsabilità è dei territori

Mariano Allocco torna sul tema del lupo, tornato incandescente in Piemonte con le dure critiche avanzate da Mauro Deidier, presidente del Parco Alpi Cozia, nei confronti del progetto WolfAlps. Lo fa chiarendo che non è il gioco solo la “questione lupo”, ma il governo del territorio che i forti centri del potere ambientalista intendono espropriare alle comunità locali ma anche alle regioni. E’ in gioco la libertà e la democrazia (messe in discussione da nuovi poteri feudali). Per la montagna, come dice giustamente Allocco, libertà e democrazia non sono lussi ma beni essenziali. Senza non c’è possibilità di vita in montagna. WolfAlps, progetto monstre, forte di un budget di 20 milioni, ponendosi a capo di decine di enti, forte di una dotazione quali illimitata per le azioni di propaganda, grazie alle sue risorse ha intrapreso un percorso di vera e propria istituzionalizzazione che mira a formalizzarlo quale Autority inter-regionale del lupo, in grado di dettare legge sui territori. Un processo che non ha trovato sinora resistenza a causa della debolezza degli enti locali e della colpevole ignavia delle istituzioni e della politica.

La convention finale di WolAlps

di Mariano Allocco

Intervento pubblicato il 17/02/2021 su l’Adige, quotidiano di Trento

In Italia una frattura sempre più profonda separa il mondo urbano dal mondo rurale. Pianura e Alpi stanno allontanandosi, oltre Confine questa linea non è così marcata, Perché? Qual è la differenza tra i due versanti?  Se tracciassimo una sezione perpendicolare alle Alpi vedremo che il pendio in pochi chilometri in Italia precipita in pianura, sul versante estero invece non c’è separazione netta tra Grande Pianura e Montagna.

Al di là dello spartiacque le città sono lontane e le Alpi se la prendono comoda nel lasciare posto alla pianura.

La spiegazione per me va ricercata proprio nella diversa distribuzione delle curve di livello. In Italia al confine tra Pianura Padana e arpie netto è lungo di esso, specialmente ad ovest, come una città diffusa che fa da confine tra due mondi che stanno perdendo dì di vista.

Mentre sulle Alpi si sta affermando un deserto verde,  in basso c’è una Pianura sempre più antropizzata, con un tasso di inquinamento tra i peggiori in Europa, con aree metropolitane che sono motore di sviluppo industriale e un’agricoltura intensiva sempre meno sostenibile.

Al piano una società postmoderna, in crisi strutturale, aggravata da un virus, vede nelle Alpi sempre più verdi un alibi, senza sapere che forse l’anello debole sta in basso.

Sul versante estero invece il declino e graduale, le città sono lontane. Ecco perché non c’è una frattura geografica, ambientale, storica e sociale che troviamo in italia.

Aggiungiamo poi che lo spartiacque alpino non ha mai separato le gente montanare che sui due versanti vivono allo stesso modo l’immanenza del territorio , la stagionalità, i problemi logistici e tutto quanto riguarda la vita.

Un approccio maturato è vissuto nei secoli che porta le popolazioni alpine a difendere quanto di sacro e di indispensabile è necessario per vivere quassù: libertà e democrazia. Il rapporto tra questi due mondi andrebbe ricondotto in un confronto tra pari, per arrivare assieme ad un “patto di sindacato” indispensabile tra monte e piano, tra Città e Contado.

Ho vissuto i due mondi, conosco la povertà che ha portato la desertificazione Alpina nel dopoguerra, ma era una povertà dignitosa che aveva una via di fuga. nella Pianura, nelle periferie metropolitane la povertà emergente ora si trova in un “cul de sac” di disperazione, Questa è la “miseria” che sulle Alpi non c’è mai stata.

Cosa si aspetta a unire idee energie per pensare assieme un avvenire possibile? Un confronto si impone e potrebbe iniziare affrontando un argomento per me paradigmatico di questa situazione: la “questione lupo”.

Prima una fauna per lo più aliena ha messo in ginocchio l’agricoltura sulle Alpi, ora il lupo mette in forse l’allevamento, per quanto riguarda la sicurezza è solo questione di tempo. Una questione che fino ad ora è stata cavalcata dai Parchi mentre le regioni non sono riusciti a darsi una comune strategia condivisa.

All’estero la “questione lupo” è in mano alle istituzioni e viene gestita anche con abbattimenti, nel 2019 in Francia sono stati uccisi 97 lupi, in Svizzera 4 solo nei Grigioni. In Italia Invece della questione se ne occupano i Parchi con in testa il parco Alpi Marittime. Perché da noi Enti strumentali escono dai loro confini con progetti Life che invadono competenze che dovrebbero riguardare istituzioni democraticamente elette?

Quando con il progetto Wolfalps coordinato dal parco Alpi Marittime premiato con milionate di euro si dà come “obiettivo finale quello di implementare coordinare le azioni di conservazione del lupo nelle aree di competenza e oltre nell’ecosistema alpino, da ovest a est per supportare Il processo di ricolonizzazione Alpina naturale del lupo” esonda dai suoi confini geografici e dalla sua “mission”.

Il lupo per la Città è diventato un totem che rappresenta la libertà, per Il Contado hanno posto è una limitazione della libertà, valore non sindacabile. Sono le istituzioni democraticamente elette che hanno mandato per definizione delle strategie di sviluppo e di governo del territorio a dover indicare ai parchi, enti strumentali delle regioni, linee guida e strategie conseguenti. Sono le regioni alpine tutte e non altri che hanno mandato per decidere come e se occuparsi della “conservazione del lupo nelle aree di competenza e oltre nell’ecosistema alpino, da ovest a est” delle Alpi”. Sono le regioni e non altri a definire obiettivi e limiti dei Parchi.

Il governo del territorio prevede un’organizzazione in cui le parti in causa sono ben definite e le regole del gioco rispondono alla democrazia, i progetti Wolfalps con i milioni di euro a disposizione e le tensioni conseguenti, sono una nota stonata che va ricondotta in un disegno di insieme condiviso. Qui non si tratta solamente della “questione lupo”, qui in gioco c’è il governo del territorio, questione che, Costituzione alla mano, compete alle istituzioni democraticamente elette e non ad altri.

UBI SOLITUDINEM FACIUNT, PACEM APPELLANT

(17/02/2021) Una lettera che riflette lo scoraggiamento di chi resiste in montagna. Ci vuole tanta determinazione per farlo perché si ha a che fare con una corsa ad ostacoli: sempre nuove angherie burocratiche, controlli, certificazioni, messe a norma. E poi, naturalmente, il lupo che cinge d’assedio le borgate e le famiglie che vivono isolate come…

Pastori. Non ha molto senso parlarne bene a Natale ma poi stare dalla parte dei lupi per tutto il resto dell’anno

di Robi Ronza (26/12/2012) Come ogni anno a Natale tornano fra l’altro alla ribalta i pastori, primi destinatari dell’annuncio della nascita del Salvatore e primi ad essersi recati ad adorarlo. L’Epifania (= manifestazione) cui vennero invitati precede di molti giorni quella dei Magi. Credo che ad esempio Lorenzo Lotto nella sua famosa «Adorazione dei pastori», esposta…

Contenere il lupo si può (le norme vigenti)

Tra le tattiche del partito del lupo, vi è anche la bufala dell’intoccabilità della loro “gallina dalle uova d’oro”. Sono stati abili (e disonesti) a celare i dati reali sulla consistenza della specie, a fare in modo che gli allevatori si scoraggiassero e non denunciassero più le predazioni. Sono stati abili a convincere le regioni…

Pastori. Non ha molto senso parlarne bene a Natale ma poi stare dalla parte dei lupi per tutto il resto dell’anno

di Robi Ronza

(26/12/2012) Come ogni anno a Natale tornano fra l’altro alla ribalta i pastori, primi destinatari dell’annuncio della nascita del Salvatore e primi ad essersi recati ad adorarlo. L’Epifania (= manifestazione) cui vennero invitati precede di molti giorni quella dei Magi. Credo che ad esempio Lorenzo Lotto nella sua famosa «Adorazione dei pastori», esposta a Brescia nella Pinacoteca Tosio Martinengo, per questo li dipinga  in abiti da gentiluomini, https://it.wikipedia.org/wiki/Adorazione_dei_pastori_(Lotto). In quanto invitati dal Re dei Re a riconoscere e ad adorare Gesù Bambino prima dei Re Magi, secondo le regole cerimoniali dell’epoca del Lotto erano ipso facto divenuti dei nobili di rango superiore a quello di quei pur illustri e aristocratici sapienti. D’altra parte elementi simbolici tratti dal mondo pastorale caratterizzano la fede cristiana sin dalle origini. Gesù stesso è il Buon Pastore, i Vangeli tramandano molte sue parole e riferimenti alla vita e ai doveri degli allevatori di pecore, e fino ad oggi i vescovi sono indicati come pastori dei fedeli, tanto che il bastone pastorale è il segno della loro carica. A tanto rilievo storico e simbolico non corrisponde però oggi alcuna consapevolezza diffusa della realtà attuale dei pastori, della loro importanza per la cura del territorio e dei loro problemi. Sono anzi tra le prime vittime di quell’ambientalismo estremista che — nato e cresciuto non a caso in ambienti urbani dove non si ha più alcuna reale esperienza della natura – nella sua venerazione neo-totemica per il lupo li vede anzi come grandi nemici dell’ambiente.

Diversamente da quanto oggi troppi credono, i pastori, e gli allevatori in genere di ovini al pascolo, non soltanto esistono tuttora ma non sono affatto i proverbiali …ultimi dei Moicani. Sia in Piemonte che in Lombardia, due regioni il cui nome fa innanzitutto venire alla memoria paesaggi di fabbriche e di palazzi direzionali sedi di banche e di società di terziario avanzato, la pastorizia è consistente; e cresce il numero dei giovani che vi si dedicano. È di questi giorni l’uscita di un  libro fotografico, Remènch / Transumanza in Lombardia di Carlo Meazza con testi di Marta Morazzoni, Anna Carissoni, Giovanni Mocchi, Lucia Maggiolo, che con immagini magistrali illustra l’ambiente e la vita oggi dei pastori transumanti lombardi. Pubblicato dalla Pubblinova Edizioni Negri, un editore indipendente specializzato, Remènch (= vivere vagando), è ormai reperibile anche sui circuiti commerciali telematici, e si può acquistare via Internet pure tramite i siti della Hoepli, della Ghedini, della Feltrinelli e di altre grandi librerie. Il libro, frutto di un lavoro durato diversi anni, dà con grande efficacia una testimonianza di prima mano sul persistere della pastorizia anche nel mondo in cui viviamo e del suo significato.  Non entra nel merito del problema della compatibilità tra la pastorizia e la presenza incontrollata del lupo sulle montagne europee – su cui mi soffermo qui — ma non è questo il suo tema.

Di nuovo diversamente da quanto oggi troppi credono, la pastorizia dei grandi greggi non è un’attività marginale, tanto più che implica investimenti che non sono da poco. Il pastore proprietario è un imprenditore con capitali investiti e spese di personale. Alla pastorizia dei grandi greggi si aggiunge poi quella dei piccoli greggi non transumanti che integrano il reddito o di agricoltori di montagna in attività o anche di gente di montagna in pensione che dalla cura qualche decina di ovini trae un vantaggio non solo economico ma anche (e forse soprattutto) fisico e psicologico. Nella fase attuale del ritorno del lupo sulle montagne italiane, in cui si tratta ancora di individui isolati o di piccoli branchi, sono questi piccoli greggi i principali obiettivi delle predazioni dei lupi. In Francia invece si registrano già attacchi di grossi branchi di lupi a grandi greggi. Fino a qualche anno fa in Italia gli attacchi avvenivano nei pascoli alti, ma adesso già si registrano attacchi notturni dentro i paesi con pecore e capre sbranate da lupi penetrati in recinti posti nei pressi delle abitazioni. Nella sua edizione del 4 dicembre scorso il quotidiano torinese La Stampa, nelle sue pagine di cronaca del Verbano-Cusio-Ossola, dà notizia di una pecora sbranata da un lupo dentro il villaggio di Re, alle porte dell’omonimo grande santuario. Nel Verbano-Cusio-Ossola un episodio analogo si era già verificato in precedenza a Calasca-Castiglione, un comune della valle che porta a Macugnaga, il noto centro turistico ai piedi del Monte Rosa.

Fra i grandi quotidiani a diffusione nazionale La Stampa è l’unico che sul problema posto dal dilagare del lupo dà voce non soltanto alle tesi dell’ambientalismo estremista. Lo scorso 26 ottobre vi ha dedicato un’intera pagina del suo «Primo piano». “Il lupo che attacca il gregge fa il suo mestiere di predatore, ma sull’altro fronte di questo duello vecchio come il mondo”, si legge nell’articolo di apertura della pagina, “ci sono i pastori, che si ritrovano a contare le vittime degli assalti alle loro pecore (…). Il lupo è una specie protetta dal 1971, quando era in estinzione, ma da allora è tornato a diffondersi (…)”. Sulle montagne italiane se ne contano attualmente circa 2 mila secondo le stime più benevole, e stanno crescendo del 20 percento all’anno.

Sia in Svizzera che in Francia si stanno già prendendo iniziative per tenerne sotto controllo il numero, mentre in Italia il lupo continua a essere ufficialmente intoccabile, il che finisce per indurre al bracconaggio, fenomeno mai lodevole ma che, così stando le cose, diviene talvolta inevitabile. In un’intervista con cui si conclude la pagina de La Stampa di cui si diceva, Reinhold Messner afferma tra l’altro che “è una questione di convivenza, quindi di trovare un equilibrio. Accade anche in natura. Bisogna fare pace tra contadini e animalisti. Sa, chi protegge ad ogni costo il lupo è di solito un cittadino che non l’ha mai visto in azione (…). Bisogna trovare un punto di equilibrio: non si tratta di uccidere tutti i lupi, conclude il famoso alpinista e ambientalista sud-tirolese, “ma è impensabile che i contadini debbano andarsene. Lasciare le malghe significa anche interrompere la transumanza, che fa parte sia della cultura alpina che della nostra economia”. Speriamo che venga ascoltato.

Lupo: la responsabilità è dei territori

Mariano Allocco torna sul tema del lupo, tornato incandescente in Piemonte con le dure critiche avanzate da Mauro Deidier, presidente del Parco Alpi Cozia, nei confronti del progetto WolfAlps. Lo fa chiarendo che non è il gioco solo la “questione lupo”, ma il governo del territorio che i forti centri del potere ambientalista intendono espropriare…

Loup e vourp (lupi e volpi) (il colpo alla nuca alla montagna)

Anna Arneodo gestisce con i figli una piccola azienda agricola con coltivazioni e pecore, unici abitanti  di una piccola borgata a 1200 m.  Nel febbraio 2017 scriveva su Ruralpini un duro j’accuse (“Ci uccidete senza sporcarvi le mani” qui) rivolto all’ipocrisia della società urbana che ha innalzato il lupo a bandiera della natura. Parole che hanno…

Emergenza lupo: finalmente decolla un’iniziativa politica

In pochi giorni si sono registrati diverse iniziative politiche contro la politica lupista che mette in ginocchio gli allevamenti estensivi, la montagna le aree interne. Dopo la lettera durissima contro una politica regionale appiattita su WolfAlps, redatta da comuni e unioni dei comuni della provincia di Torino e della val Maira (qui) è arrivata la…

Contenere il lupo si può (le norme vigenti)



Tra le tattiche del partito del lupo, vi è anche la bufala dell’intoccabilità della loro “gallina dalle uova d’oro”. Sono stati abili (e disonesti) a celare i dati reali sulla consistenza della specie, a fare in modo che gli allevatori si scoraggiassero e non denunciassero più le predazioni. Sono stati abili a convincere le regioni e i politici che “la UE non consente di abbattere i lupi”. Ma la verità è un’altra. La Francia preleva ogni anno il 20% della popolazione lupina. Senza infrangere la direttiva Habitat. Le regioni hanno il diritto/dovere di monitorare e controllare la fauna dannosa (ancorché iper-protetta), anche il lupo e l’orso. Nei modi previsti dalle normative. Vediamole e facciamo chiarezza.

di Michele Corti

Il regime di super protezione del lupo è previsto dalla direttiva Cee Habitat (del Consiglio n. 43 del 1992 (conservazione degli habitat naturali e seminaturali e della flora e della fauna selvatiche). L’art. 12 della direttiva europea stabilisce il regime di rigida tutela della specie con il divieto di qualsiasi forma di cattura e di uccisione deliberata nell’ambiente naturale. Mentre in alcuni paesi con abbondanza di lupi veniva consentita la caccia (Grecia, Spagna), agli altri, anche in presenza di uno status di conservazione insoddisfacente, veniva lasciata la possibilità di derogare all’art. 12.



L’art 16 della direttiva stabilisce che, ai fini della prevenzione di danni gravi all’allevamento, alla fauna, nell’interesse della sanità e sicurezza pubblica è prevista la possibilità di deroga ai divieti di abbattimento e cattura del lupo. In Italia il DPR 357 del 1997, che recepisce la direttiva Habitat, prevede l’attuazione della deroga  dietro autorizzazione del Ministero, sentito il parere dell’Infs (oggi Ispra) a condizione che non esistano altre condizioni praticabili e che la deroga non pregiudichi lo stato di conservazione sufficiente delle popolazioni di lupo. Di seguito il testo dell’art. con l’elenco dei motivi che fanno scattare la deroga.

DPR 357 art. 11 c. 1

1. Il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio, sentiti per quanto di competenza il Ministero per le politiche agricole e l’Istituto nazionale per la fauna selvatica, può autorizzare le deroghe alle disposizioni previste agli articoli 8, 9 e 10, comma 3, lettere a) e b), a condizione che non esista un’altra soluzione valida e che la deroga non pregiudichi il mantenimento, in uno stato di conservazione soddisfacente, delle popolazioni della specie interessata nella sua area di distribuzione naturale, per le seguenti finalità:
a) per proteggere la fauna e la flora selvatiche e conservare gli habitat naturali; b) per prevenire danni gravi, specificatamente alle colture, all’allevamento, ai boschi, al patrimonio ittico, alle acque ed alla proprietà;
c) nell’interesse della sanità e della sicurezza pubblica o per altri motivi imperativi di rilevante interesse pubblico, inclusi motivi di natura sociale o economica, o tali da comportare conseguenze positive di primaria importanza per l’ambiente;
d) per finalità didattiche e di ricerca, di ripopolamento e di reintroduzione di tali specie e per operazioni necessarie a tal fine, compresa la riproduzione artificiale delle piante;
e) per consentire, in condizioni rigorosamente controllate, su base selettiva e in misura limitata, la cattura o la detenzione di un numero limitato di taluni esemplari delle specie di cui all’allegato D 
[quello in cui sono inserite le specie super-protette].

Nel nostro ordinamento il controllo della fauna selvatica è materia (come altre non espressamente poste in capo allo stato centrale) riservata alle regioni (art 117 della costituzione). I soggetti che attuano il “controllo della fauna selvatica” sono dunque le regioni. Anche nel caso dell’orso e del lupo perché se così non fosse si cadrebbe nell’incostituzionalità. Il Ministero si è riservata oltre alla concessione dell’autorizzazione la definizione di linee guida sentito l’Infs, il Ministero dell’Agricoltura e la Conferenza stato regioni

DPR 357/97, art. 7, comma 1.

1. Il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio, con proprio decreto, sentiti il Ministero delle politiche agricole e forestali e l’Istituto nazionale per la fauna selvatica, per quanto di competenza, e la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, definisce le linee guida per il monitoraggio, per i prelievi e per le deroghe relativi alle specie faunistiche e vegetali protette ai sensi del presente regolamento.

Attualmente le linee guida non esistono perché il vecchio Piano lupo è del 2002 e, finite le proroghe, è scaduto nel 2015. Dopodiché è iniziata la farsa all’italiana. Le versioni sono cambiate: inizialmente orano previsti degli abbattimenti con il contagocce (che erano condizionati a tanti e tali paletti da rappresentare una vera e propria presa per i fondelli), poi la demagogia  animal-ambientalista prese il sopravvento e le regioni fecero dietro-front spaventate dagli animalisti. L’alfiere di questa ritirata fu Chiamparino.



La bozza del ministro Galletti (scritta da Boitani) venne archiviata. Si susseguirono ulteriori giravolte delle regioni (anche a seguito delle elezioni regionali che determinavano cambi di maggioranza). Gli abbattimenti furono sostituiti dalla “prevenzione mirata” (uno slogan). Ma oggi le cose sono ancora cambiate. Da parte di alcune regioni si è tornato a chiedere la possibilità di abbattimenti (alla quale non hanno mai rinunciato solo la Toscana e Bolzano, tutti gli altri si solo lasciati andare a giri di valzer). Oggi la fine ingloriosa del ministero Conte bis ha fatto uscire di scena Costa, il principale fautore, al di là del limite di ogni pudore, della linea pro-animalista.  Nel frattempo è partito il censimento dei lupi, premessa a un Piano lupo che vorrebbe presentarsi meno barzelletta delle bozze precedenti. Peccato che il censimento sia stato affidato, a WolfAlps che si avvale di volontari reclutati in larga prevalenza tra le file delle associazioni animal-ambientaliste. Volontari, si badi bene,  “formati” con un brevissimo corso online. Un modo per evitare di vedere e di contare i lupi.

Le precedenti stime (si parlava di 1000 lupi in tutta Italia, dimenticando forse di aggiungere uno zero) erano così ridicole che oggi costringono il partito del lupo a fornire cifre stabilite prima a tavolino, compatibili con una crescita naturale, per quanto forte (i migliaia di contatori dei lupi sono solo folklore).
In Piemonte i lupi, erano stimati in numero di circa 200 (monitoraggio 2017/2018); poi WolfAlps, nell’interregno tra la fine del vecchio e la ripartenza del nuovo progetto, è rimasto senza soldi (poverini, dopo aver speso tutti quei milioni) e non ha fatto più nulla sino a questo inverno.

Si sa già (anche se le operazioni sono in corso) che il lupi in Piemonte saranno più di 500. Un numero ancora ridicolo con 50 morti stecchiti sulle strade e delle densità che lo stesso WolfAlps ammette molto aumentate. Anni fa parlavano di un branco ogni 100, poi di 2 e, oggi, nelle zone più favorevoli, sino a 4. Pensare che, escludendo il cemento, i laghi, i ghiacciai, le risaie ci siano 10 lupi ogni 100 kmq oggi appare molto realistico. Significa 2000 lupi in Piemonte.

La stessa cosa avverrà a livello nazionale. Da 2000-2500 porteranno il dato nazionale a 4000-5000. In realtà è molto probabile che in Italia ci siano più di 10 mila lupi. Un fatto che, se venisse alla luce, scardinerebbe tutta la meravigliosa costruzione (meravigliosa si intende per chi incassa milionate di progetti su progetti in un sistema di controllati controllori) del “lupo a eterno rischio di estinzione”, che farebbe vacillare la stessa collocazione in allegato D del lupo (già vacillante per il dilagare del lupo in Germania). Quindi i lupi non saranno visti (basta mandare degli inesperti, oltretutto di parte, interessati a non vederli).
Dal momento che l’esperta scientifica di WolfAlps, la Marucco, fissava, in base alla capacità portante del territorio, l’obiettivo di 300 lupi per tutto il Piemonte come condizione di un buon popolamento, oggi, con oltre 500 lupi dichiarati nessuno può negare che ci sia una “soddisfacente condizione di conservazione” (considerato anche il trend di aumento). I furbi cercheranno di “spalmare” i lupi su tutte le Alpi facendo media con la Lombardia e il Friuli che ancora si salvano. Con l’obiettivo di stoppare anche il Piemonte (se quest’ultimo non si sveglia per tempo).



Una volta che i danni reali emergessero e che un monitoraggio mirato consentisse (la regione ha il diritto/dovere di farlo in prima persona) di mettere in relazione la presenza accertata di determinati di branchi e di danni gravi e ripetuti, cosa può impedire alla regione Piemonte (ma il discorso vale anche per le altre) di chiedere, ovviamente avendo predisposto dei protocolli, l’autorizzazione a un piano di abbattimento?  Mancano le linee-guida! Ma quanti anni è che mancano e quando arriveranno? In assenza di linee guida vale comunque quanto stabilisce la direttiva Habitat e il DPR di recepimento. Ovvero: verificato che lo stato di conservazione è buono, che i danni sono rilevanti, che non ci sono mezzi alternativi per evitarli, l’Ispra non può non dare parere positivo agli abbattimenti e il Ministero non può non concedere l’autorizzazione. Sarà un iter complicato. Pazienza. Se ci saranno meline si denunceranno nelle sedi opportune.


 
Nel 2010 fu l’assessore piemontese all’agricoltura, il pd Taricco, fu il primo a chiedere l’autorizzazione agli abbattimenti (c’era la campagna elettorale per le regionali alle orte), nel 2011 fu il turno del suo successore leghista, Sacchetto. Le richieste erano accompagnate dai monitoraggi del Progetto lupo che indicavano in un centinaio (un numero che oggi fa sorridere) i lupi allora presenti e da considerazioni sulla gravità dei danni. La base di dati era debole ma il Ministero riscontrò la richiesta, considerandola ammissibile, girò il parere all’Ispra che lo ri-girò al comitato scientifico dei lupologi e delle associazioni ambientaliste. Le motivazioni per il diniego furono: 1) non sappiamo quanti lupi ci sono in Italia e quanti vengono bracconati, quindi non conoscendo lo stato della popolazione non si può azzardare alcun abbattimento; 2) si urterebbe la sensibilità dell’opinione pubblica. La seconda motivazione, sollevata in modo non pertinente dalle associazioni all’interno del Comitato scientifico, non aveva alcun valore perché la direttiva Habitat indica precise condizioni per l’attivazione della deroga. Essa fa riferimento alla gravità di danni procurati dal lupo e non tiene conto del tasso di animal-ambientalismo della popolazione del paese membro. Anche la prima era, a ben guardare, pretestuosa perché il Piemonte era, all’epoca, l’unica regione con un monitoraggio (sia pure fatto per minimizzare il numero dei lupi dal Progetto lupo, l’antenato di WolfAlps).
Ma oggi, con un numero di lupi “ufficiali” che eccede largamente quello indicato per una “buona conservazione” il Ministero potrebbe ancora opporre dinieghi?



E’ bene precisare, ad uso di coloro che ritengono che le regioni orfinarie non possono attivare propr che il vecchio Piano lupo (2002) non poteva non prender atto che:

Possibilità di deroga al regime generale di protezione del lupo è prevista sia dalla normativa nazionale (art. 19 della L. 157/92, art. 11 del DPR 357/97) sia internazionalmente (art. 9 della Convenzione di berna, art 11 della Direttiva Habitat). Il controllo selettivo del lupo è quindi già oggi teoricamente possibile seppure con un iter autorizzativo complesso (parere dell’ Istituto nazionale per la fauna selvatica, delibera della giunta regionale, autorizzazione del Ministero dell’ambiente, obbligo di trasmissioni di periodiche relazioni alla Commissione europea).

Agli estensori del Piano lupo andrebbe ricordato che le normative non prevedono possibilità “teoriche” altrimenti perderebbe di valore il significato della norma stessa. Evidentemente chi scriveva lo faceva con un retropensiero: “tanto siamo noi a dare un parere”.  A proposito delle relazioni (biennali) da inviare alla Commissione europea (quelle che invia la Francia che non è mai stata stoppata nell’applicazione della sua politica arrivata a un prelievom del 20% della popolazione stimata) è curioso ricordare che, nel 2011, quando l’assessore Sacchetto chiese l’autorizzazione ad abbattimenti selettivi (del tutto legittimamente) si scatenò la canea degli ambientalisti che urlava che non si poteva toccare il lupo.



Il geometra Canavese, già allora “uomo forte” del Parco Alpi Marittime si inventò un “nulla osta” della Commisisone europea. Non avendo letto i testi legislativi operava di accesa fantasia immaginando un’Europa da incubo in cui l’onnipotente Commissione (già che ci siamo chiamiamola Grande Fratello) va ad autorizzare singoli atti amministrativi di dettaglio.

Abbiamo quindi chiarito, diradando la cortina fumogena che l’animal- ambientalismo ha creato in materia di lupo, animale sacro e intoccabile, che diecvi anni fa come oggi, una giunta regionale ha il diritto/dovere di predisporre una delibera che preveda un piano di abbattimenti selettivi del lupo. Il resto è fuffa. Ma oggi “ufficialmente” ci sono in Piemonte cinque volte i lupi che c’erano quando Sacchetto inviò la sua richiesta.
Alla fine, se si tolgono l’autorizzazione Ministeriale e le Linee guida, che comunque non possono ribaltare la normativa nazionale e comunitaria, il controllo del lupo rientra nella previsione del’art. 19, comma 2 della Legge 157 del 1992 (Norme a protezione della fauna selvatica omeoterna e per il prelievo venatorio):

Le regioni, per la migliore gestione del patrimonio zootecnico, per la tutela del suolo, per motivi sanitari, per la selezione biologica, per la tutela del patrimonio storico-artistico, per la tutela delle produzioni zoo-agro-forestali ed ittiche, provvedono al controllo delle specie di fauna selvatica anche nelle zone vietate alla caccia. Tale controllo, esercitato selettivamente, viene praticato di norma mediante l’utilizzo di metodi ecologici su parere dell’Istituto nazionale per la fauna selvatica. Qualora l’Istituto verifichi l’inefficacia dei predetti metodi, le regioni possono autorizzare piani di abbattimento. Tali piani devono essere attuati dalle guardie venatorie dipendenti dalle amministrazioni provinciali.



Il già citato DPR 357/97 chiarisce anche che compete alle regioni (e non a enti inventati come WolfAlps) il monitoraggio del lupo.

DPR 357/97, art. 7, comma 1

Le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, sulla base delle linee guida di cui al comma precedente, disciplinano l’adozione delle misure idonee a garantire la salvaguardia e il monitoraggio dello stato di conservazione delle specie e degli habitat di interesse comunitario, con particolare attenzione a quelli prioritari, dandone comunicazione ai Ministeri di cui al comma 1.


Leggi per abbattere i lupi?

Nonostante la disperazione degli ambiental-animalisti le regioni a statuto speciale possono emanare leggi con oggetto specifico il controllo dell’orso e del lupo (sentenza della Corte costituzionale n. 215, 2019). Questa sentenza si basa sui poteri statutari di regioni e provincie autonome ma non esclude che le regioni a statuto ordinario possano emanare provvedimenti in materia. Il Piano lupo già citato indicava nella DGR (delibera della giunta regionale) lo strumento per attivare la richiesta di autorizzazione del controllo e poi metterlo in pratica. Se è vero che nell’ambito delle misure per il controllo della fauna selvatica le regioni operano normalmente con delibere delle giunte regionali e relativi regolamenti va rilevato che esistono casi di regioni che, per alcune specie di particolare importanza, hanno adottato delle Leggi regionali.  La Regione Lombardia, stante la gravità del problema del contenimento del cinghiale ha emanato la LR 19/2017 con regolamento di gestione.

Il pessimo precedente del Pacobace (attenzione alle trappole che il partito dell’orso dentro le regioni tenta di tendere anche con il lupo)

Nel caso dell’orso bruno sulle Alpi centro-orientali, le regioni, invece, hanno abdicato alle loro prerogative sottoscrivendo a scatola chiusa un Protocollo, il Pacobace, già elaborato dagli “esperti” dal Parco Adamello Brenta (che con Life Ursus ha svolto un ruolo analogo del Parco Alpi Marittime con WolfAlps).  Il Pacobace, un protocollo molto garantista per l’orso, venne adottato dalla Provincia di Trento e poi, dalle succubi (grazie ai maneggi di funzionari e politici animalisti) regioni Veneto e Lombardia. Nato nell’ambito di un parco e dei rapporti con i parchi di altre regioni, il pacobace e tutta la partita della gestione dell’orso sono rimaste in capo ai servizi parchi delle regioni, sottratte alla “naturale” competenza delle direzioni agricoltura che in tutte le regioni hanno competenza sul controllo della fauna selvatica stante la rilevanza del dei danni da essa provocata alle produzioni agricole e agli allevamenti. Orso e lupo non sono eccezioni ma in Veneto, Lombardia e Piemonte i grandi carnivori sono stati “sequestrati” dalle strutture che hanno competenza sulle materia aree protette e biodiversità in modo da garantire la sicura tutela da parte di dirigenti e funzionari di fede animal-ambientalista e sottrarre la gestione iperprotettiva di queste specie alle pressioni esercitate dalle componenti agricole e allevatoriali.  Le Provincia di Trento è un caso a sé perché i carnivori sono competenza del servizio foreste e fauna che opera attraverso il corpo forestali provinciali.

Come è facile rilevare le attribuzioni alle componenti ambientaliste delle amministrazioni regionali (e ai Parchi) sono frutto di discrezionalità politica, del grande attivismo delle lobby animal-ambientaliste cui fa riscontro la scarsa incisività delle organizzazioni agricole e la disorganizzazione delle categorie (pastori, allevatori di montagna, alpeggiatori) più direttamente colpite dalla reintroduzione dei grandi carnivori. 



Il lupo è presente in tutte le regioni (tranne le isole finché non ci racconteranno che possono attraversare il mare a nuoto). La gravità del problema e l’attenzione prestata ad esso sono però molto difformi da regione a regione. Regioni come la Toscana e il Piemonte hanno popolazioni enormi di lupi e impatti molto gravi sulle attività pastorali. In Toscana molti allevatori ovini da latte hanno abbandonato l’allevamento al pascolo per optare per quello stallino, abbandonando la pecora sarda e adottando la lacaune, una “macchina da latte” frutto di selezione genomica. In Piemonte le conseguenze non sono di minore portata: chiusura di piccoli allevamenti, abbandono di alpeggi meno difendibili, passaggio all’allevamento intensivo (con l’abbandono della pecora langarola autoctona). Anche in Veneto la recente espansione del lupo ha impattato pesantemente su una montagna ancora popolata e con buoni patrimoni zootecnici, dove è diffuso (Lessinia, Asiago, Bellunese) l’allevamento della vacca da latte. In Toscana, Piemonte, Veneto vi sono state vivaci proteste degli allevatori contro la perdurante politica di intoccabilità del lupo. Anche l’allarme sociale è in crescita per la sempre più frequente presenza dei lupi ai margini e sin dentro i centri abitati e per le predazioni di animali domestici (anche d’affezione) sin nelle pertinenze delle abitazioni.

Nel quadro di un accordo in sede di conferenza stato regioni o anche di un accordo tra regioni alpine, giustificato sulla carta (ma è un pericolo) dalla diversità diversità della realtà appenninica, (che anche i lupisti più fanatici riconoscono satura di lupi) e quella alpina , le regioni che non avvertono ancora la gravità del problema finirebbero per essere ancora troppo condizionate dalla pressione animal-ambientalista non controbilanciata, come in una regione come il Piemonte dalle pressioni dalle componenti agricole e valligiane.  Inutile sperare di trovare un accordo soddisfacente con l’insieme delle regioni (anche se limitato all’arco alpino).



Le norme vigenti, lo ribadiamo per l’ennesima volta, mettono a capo della singola regione la responsabilità del controllo della fauna, lupo compreso e sottrarvisi per le altre regioni significa lasciar passare anni. Che ai politici possa essere gradita una soluzione alla “così fa tutte”, per diluire la propria responsabilità e sottrarsi alle ire animaliste è comprensibile ma è perdente.

Significa consentire un deterioramento della situazione che può portare a conseguenze irreversibili. Le regioni hanno il dovere e non solo il diritto di riprendere in mano la situazione. Sono esse, anche su questo punto e d’uopo ribadire, che hanno la responsabilità del monitoraggio (che hanno colpevolmente lasciato a WolfAlps). WolfAlps non ha nessuna intenzione di produrre un monitoraggio utile a supportare l’attuazione di un piano di controllo.

Le regioni non solo devono attuare un monitoraggio che consenta di valutare la presenza dei branchi sui territori in tempo reale (oggi passano gli anni in attesa degli esami del Dna) ma devono attuare anche il monitoraggio dei danni reali e delle modalità di attacco (oggi per la maggior parte non denunciati per la macchinosità delle procedure, i ritardi degli indennizzi, le indebite dissuasioni operate da chi deve effettuare gli accertamenti delle predazioni). Significa tenere nota della reiterazione degli attacchi sui medesimi greggi/mandrie e nei medesimi areali dei branchi. Tenere nota degli attacchi in presenza di dispositivi di difesa passiva. Solo elaborando una messe dati sarà possibile inchiodare il Ministero, l’Ispra, i lupologi. Tutto ciò WolfAlps non ha interesse a farlo e non l’ha previsto.

Si tratta di attuare protocolli attuati normalmente in Francia dai prefetti. Le moderne tecnologie aiutano enormemente ad acquisire e gestire i dati georeferenziati e a costruire utili mappe ed elaborazioni geostatistiche (anche se la semplice sovrapposizione di presenza di branchi e predazioni) risulterebbe già molto informativa.



Tutto ciò in Italia non si fa perché la parte animal-ambientalista, i parchi, i dirigenti regionali di fede animal-ambientalista vi si oppongono. Senza dati le richieste di autorizzazione al controllo numerico cadrebbero nel vuoto.

Ulteriore elemento di analisi necessario per l’attuazione delle deroghe al regime di super-protezione del predatore è la dimostrazione dell’impossibilità di attuazione in determinati ambiti geografici delle misure di difesa passiva. Anche da questo punto di vista la Francia offer esempi utili. Un decreto del 5 aprile 2019 ha definito l’area (su base comunale) dove la protezione è difficoltosa (sia per motivi topografici che per i sistemi e le strutture di pascolo). In queste aree il controllo può essere effettuato anche se gli allevatori non adottano le misure “passive” (cani, recinti, custodia). (qui il decreto)  Le regioni (ci si rivolge a Piemonte e Veneto) non devono perdere tempo. I monitoraggi previsti da WolfAlps sono inutili dal punto di vista di un percorso di definizione di un protocollo regionale di controllo e gestione di Canis lupus. Il nodo indennizzi e denuncie deve essere sciolto in modo drastico (il Piemonte si sta muovendo), servono strumenti e metodi (non previsti da WolfAlps) per relazionare posizionamento branchi e attacchi e per quantificare i danni (diretti e indiretti). L’elaborazione di rutti questi dati potrà consentire di redigere piani annuali di controllo per provincia e sottoporli per tempo al Ministero. In casi di diniego, in presenza di tutti i requisiti previsti per l’attivazione della deroga da parte della Direttiva Habitat, la regione dovrà essere pronta a impugnare l’atto di diniego e trascinare il Ministero, se necessario, sino alla Corte di giustizia europea.

Un parco contro WolfAlps

Mauro Deidier, neo presidente del parco delle Alpi Cozie, in provincia di Torino, parco partner di Wolf Alps, ha scritto alla “centrale” di Wolf Alps (e del lupismo), il parco delle Alpi Marittime, per manifestare la sua contrarietà al progetto.  Nella circostanziata e densa lettera di cinque pagine, egli rileva come, non solo Wolf Alps…

Aria fresca in Valtellina (agroalimentare)

  Nell’estate 2019, due giovani di Sondrio, che stavano ancora scrivendo la tesi in economia del management, hanno lanciato una start-up di e-commerce alimentare che ha avuto successo. Pensata inzialmente con raggio provinciale, al massimo regionale, oggi Pascol.it consegna in tutta italia carne fresca entro tre giorni. Il consumatore sceglie la razza (entro un ampia gamma) e l’allevatore.…

Piemonte: il lupo è (sempre più) un problema sociale e politico

Alcuni comuni e unioni montane delle provincie di Torino e Cuneo  chiamano in causa la regione Piemonte in tema di lupo per la sua inerzia e l’appiattimento sulle posizioni delle lobby animal-ambientaliste. Il vice presidente Carosso risponde sostenendo che in Italia il lupo è gestito (!?) bene e lo sarà in modo ottimale dopo che…

Loup e vourp (lupi e volpi) (il colpo alla nuca alla montagna)


Anna Arneodo gestisce con i figli una piccola azienda agricola con coltivazioni e pecore, unici abitanti  di una piccola borgata a 1200 m.  Nel febbraio 2017 scriveva su Ruralpini un duro j’accuse (“Ci uccidete senza sporcarvi le mani” qui) rivolto all’ipocrisia della società urbana che ha innalzato il lupo a bandiera della natura. Parole che hanno fatto breccia (24 mila condivisioni su facebook,  un’intervista sul Corrierone e articoli su vari media). Parole amare, difficili da contraddire. A quattro anni di distanza, il lupo – in quest’inverno nevoso – è ormai una presenza fissa sotto la casa di Anna. Ululati serali e resti di ungulati sbranati. All’amarezza fa posto lo scoraggiamento.  E’ quello che vuole il partito del lupo e del rewilding, il partito che vuole cancellare l’identità delle genti alpine, la loro cultura (come tutte e le culture). Per questo bisogna sostenere i pastori, gli allevatori, i contadini, coloro che resistono e continuano a vivere e a fare cultura “lassù”. A presidiare valori che sono di tutti.
  

di Anna Arneodo

(08/02/2021)  La montagna e i lupi: ci ripenso, in questa lunga storia, che mi scoraggia sempre di più. La diaspora, l’emorragia continua di gente dalla montagna verso la pianura prima, poi verso la città è una storia pesante, che ha segnato tutto il ‘900. Io sono nata e cresciuta in questo mondo, un po’ di tristezza, forse di rassegnazione, ma ancora carico di ricordi vivi, caldi; un clima pure interrotto di tanto in tanto da qualche sprazzo di energia, di ripresa di vita. Sulla montagna c’erano ancora vecchi, c’erano ancora testimoni vivi; e qualche giovane credeva di poter riprendere, di ripartire.


Rua di Martin Soubiran
C’era ancora nelle nostre valli una lingua nostra provenzale parlata da tutti, c’ era ancora la fierezza di una identità etnica alpina,c’erano ancora piccole scuole pluriclassi sparse qua e là nelle borgate, stalle, attività artigianali, qualche osteria, le chiese piene alla messa della domenica (che era il vero punto sociale di incontro!) …: sognavamo!Poi l’ inverno del 1972, con due-tre metri di neve nelle valli: le borgate più alte, che fino ad allora avevano resistito, si sono tutte svuotate dalla disperazione, la gente è scappata. Allora quasi in nessun comune c’era un servizio di sgombero neve, la gente si aggiustava come poteva, spalando a mano o con i primitivi spartineve trainati da asini e muli, dove si poteva. Poi quell’anno non si era più potuto. Nella borgata di fronte a noi un uomo era morto per una crisi di asma: non era stato possibile scenderlo a valle, a una quota più bassa. Sarebbe stato sufficiente, ma la strada era chiusa. La neve arrivava ai balconi del primo piano, ai tetti dei casolari più bassi. Avevamo dovuto spalare i tetti, molte case già un po’ trascurate erano rovinate, i travi non più sani sotto il peso della neve avevano ceduto.
Dopo quell’inverno molti se ne erano andati dalle borgate più isolate; senza troppi lamenti, rassegnati. Chi aveva potuto era sceso solamente alla “vilo”, nella frazione più a valle, dove c’era la chiesa, il negozio, la scuola. Sembrava che la comunità si fosse raccolta per darsi più forza, più coraggio. Ma era una illusione. Dopo poco i giovani avevano ripreso ad andarsene, i vecchi a morire, la nostra lingua era sempre meno parlata…
In campo politico erano nate – nel 1972 – le Comunità Montane, i politici dicevano che lo spopolamento si era fermato: sì, perché le Comunità Montane – la zona montana sulla carta – arrivavano a 6 km da Cuneo; dalle alte valli, dai valloni laterali più disagiati, la gente scendeva ad abitare nei paesi di fondovalle, sulla carta era sempre montagna! Poi la frana -una valanga che sta travolgendo tutto – degli ultimi venti anni. Corrisponde stranamente all’era informatica, al lavoro intelligente del nuovo secolo e millennio. Eravamo rimasti ancora alcuni sparsi qua e là: embrioni di comunità; avevamo una lingua, una cultura, una storia che ci univa: e speravamo ancora ( era una illusione forse) di poter sopravvivere.
Ed ora il lupo; il lupo in tutta questa storia è forse una briciola, un caso fortuito, un segno del destino. La montagna e la sua cultura millenaria sarebbero stati ugualmente destinati a sparire. Forse è vero. Ma quando sei solo al pascolo e ti trovi le pecore sbranate dai lupi e tu non puoi fare niente (ti è vietato dalle scelte politiche ed economiche del tuo stato, che dovrebbe tutelare te come cittadino, prima dei lupi), quando esci alla sera e senti i lupi che ululano appena lì di fronte, allora veramente ti chiedi se abbia ancora senso resistere. Cammini nelle borgate vuote, abbandonate (non ci sono nemmeno più i vecchi ad abitare questa nostra montagna), tra prati che si coprono di rovi e di frassini. Poi passi al cimitero: ce ne sono più lì dentro che in tutte le borgate messe assieme; e li conosci tutti, li conoscevi…Matè, Chafrè, Tantin, Neto, Marièt, Leno dormono tutti in quell’ orto di croci.

Lou sementieri dal Frise: “Li conosco tutti…”L’ ultimo lupo i nostri vecchi lo avevano ucciso a inizio novecento: allora la montagna era piena di gente e si poteva farlo. Nelle nostre favole il lupo fa sempre la parte di un animale stupido: è molto più furba la volpe! Ma ora mi viene da credere che siamo molto più stupidi noi a voler resistere, a farci mangiare dai lupi. Le volpi sono diventate ecologiste.

Scappo dalla città …e vado a rompere i c.

La pandemia ha accentuato il fenomeno del “scappo dalla città”  ovvero del trasferimento di abitanti delle aree metropolitane verso quelle rimaste rurali (montagna, aree collinari interne). Non più solo pensionati ma persone di ogni età si insediano in condizioni a metà tra il turista e il residente. Il fenomeno “neo-rurale” ha molti risvolti, non tutti…

Danni da lupismo

la pericolosa fiera del lupo, tra simil-lupi e lupi esotici    A Grugliasco, periferia di Torino, in un bilocale di condominio, una donna di 74 anni è stata sbranata dai cinque cani lupo cecoslovacchi della figlia, di una linea francese sospetta di reibridazione con il lupo. La signora, nonostante la morte della madre, ha chiesto al…

Montagna accessibile (per contrastare l’abbandono)

In passato, la realizzazione di strade in alta montagna si è prestata a critiche: opere realizzate con caratteristiche non congrue con l’ambiente alpino e le reali necessità delle attività silvo-pastorali, interventi eseguiti laddove non vi era possibilità di recupero degli alpeggi. Oggi, però, la realizzazione di strade di accesso alle alpi pascolive che ne sono…

Emergenza lupo: finalmente decolla un’iniziativa politica



In pochi giorni si sono registrati diverse iniziative politiche contro la politica lupista che mette in ginocchio gli allevamenti estensivi, la montagna le aree interne. Dopo la lettera durissima contro una politica regionale appiattita su WolfAlps, redatta da comuni e unioni dei comuni della provincia di Torino e della val Maira (qui) è arrivata la circostanziata lettera di  Mauro Deidier, neo presidente del parco delle Alpi Cozie che contesta WolfAlps (qui). Infine è del 29 gennaio una lettera della commissione agricoltura del parlamento europeo che prende una chiara posizione a favore della revisione dello status di iper-protezione del lupo.

di Michele Corti

(03/02/2021) L’Eco delle prese di posizione del presidente del parco delle Alpi Cozie non si è ancora spento. Ieri l’Eco del Chisone titolava “Serve un piano di abbattimento”.  Parole che  Didier non ha neppure pronunciato. Tanto è vero che, nella sia densa lettera di 5 pagine sfiora solo il problema del “contenimento” (che la Direttiva Habitat prevede possa essere attuato mediante varie modalità). Deidier ha analizzato lo sperpero dei tanti milioni di cui dispone WolfAlps, ha preso in esame la gestione degli ibridi, il mancato supporto agli allevatori (che devono “convivere” con il lupo ma non hanno aiuti), le strategie di manipolazione dell’informazione attuate dai lupisti. Fa il gioco dei lupisti distrarre l’opinione pubblica da questi argomenti scabrosi e additare Deidier come quello che sogna cataste di lupi sparati.



Al gioco si è prestato l’Eco del Chisone che ha eccitato gli animi dei  lupisti da tastiera. Con la bava alla bocca hanno commentato sulla pagina facebook del giornale, ricoprendo Deidier di insulti (come dallo screenshot di seguito). Come si vede il “consiglio” rivolto al presidente del parco di “abbatersi da solo” era lì da 6 ore ed è rimasto ancora ore. No comment sulla gestione delle moderazioni da parte dell’Eco.



Intanto la lobby del lupo si è assicurata per altri anni le cospicue entrate garantite dal progetto Life WolfAlps. La Ue non solo l’ha rifinanziato per altri 5 anni ma ha aumentato il budget: da 8 a 12 milioni di euro. Giustamente Deidier rileva nella sua lettera che analizzando il dettaglio delle spese si ha la percezione che venga cercata ogni minima possibilità per riuscire ad investire le ingenti risorse disponibili. E volete che non si innervosiscano, desiderosi come sono di farsi finanziare WolfAlps a vita e garantire non solo a sé stessi ma ai figli e ai nipoti una posizione economica “confortevole”?




Tra gli scandalizzati dalla lettera di Deidier ci sono – era scontato –  il geom. Canavese, direttore del parco delle Alpe Marittime, capofila di WolfAlps, che difende la sua gallina dalle uova d’oro e i …. grillini che, proprio in val Susa, hanno tradito in modo clamoroso le comunità locali che si oppongono alla TAV. 
Al lupismo organizzato, oltre alla lettera di Deidier, darà sicuramente fastidio un’altra iniziativa. Ci riferiamo a una lettera della presidente della commissione agricoltura del parlamento europeo. Fornendo il parere della commissione agricoltura su due petizioni, la 1188/2017 sulla gestione dell’orso bruno in Romania e la 0074/2020 sullo status di protezione del lupo, a cura della camera di agricoltura del Tirolo, la commissione agricoltura fa affermazioni molto importanti sulle quali torneremo tra poco.

Notiamo, per inciso, che il partito del lupo, consapevole della forte capacità di resistenza degli allevatori dei paesi alpini di lingua tedesca (forti dell’appoggio di forti partiti locali  come la SVP, la CSU, il TV), ha lanciato per quell’area “ostica” l’ennesimo progetto Life pro lupo, cammuffandolo da “Protezione del bestiame”. Un progetto che ha preso avvio con viaggi premio per allevatori “virtuosi” (i krumiri della categoria) disposti a fare da testimonial per la convivenza. Altri 5 milioni di euro.

 

Tornando al contenuto della petizione tirolese esso è stato così sintetizzato nella risposta della commissione petizioni del parlamento europeo:

Secondo il firmatario, la rigorosa protezione del lupo ai sensi del diritto europeo non dovrebbe portare a compromettere la sicurezza pubblica e delle persone che vivono negli insediamenti rurali.
Il firmatario sostiene che nell’area alpina del Tirolo, densamente popolata, vale a dire utilizzata per scopi turistici, agricoli, forestali e venatori, dove l’agricoltura tradizionale alpina gioca un ruolo particolarmente importante, non c’è posto per un predatore come il lupo. In particolare, il firmatario ravvisa un grave rischio per i pascoli alpini che costituiscono un prezioso ed essenziale elemento del patrimonio culturale della regione.
Il firmatario chiede di riconsiderare la definizione scientifica dello status della popolazione del lupo al fine di una modifica delle relative previsioni della Direttiva Habitat e chiede anche che venga fornito un indennizzo economico adeguato ai danni causati sia con riferimento agli animali uccisi che allo sforzo supplementare necessario per proteggere gli animali da allevamento.
Il firmatario chiede alla Commissione europea quali piani d’azione strategici abbia sviluppato a fronte di una popolazione di lupi in crescita.
Le risposte fornite dalla commissione petizioni esprimono il punto di vista della commissione ambiente, cioè quello della lobby lupista. Un dato politico con il quale si deve fare i conti. La commissione (qui la lettera in inglese), infatti ha replicato che:

In Austria la conservazione del lupo non è soddisfaciente, ovvero non è ancora abbastanza imbottita di lupi secondo i desiderata della lobby (commento: per loro  la conservazione del lupo non è soddisfaciente sino a che tutti i paesi della Ue non siano imbottiti di lupi).la Direttiva Habitat consente il contenimento del lupo e non è necessario cambiare lo status della popolazione da super protetto a protetto (commento: fanno finta di ignorare che nel regime di super-protezione le azioni di contenimento sono quanto mai macchinose).gli stati dell’unione hanno la possibilità di risarcire al 100% i danni da lupo (commento: in realtà in Italia le regioni hanno sempre sostenuto che gli indennizzi ai danni immediati e collaterali si scontrano contro la norma che impedisce gli “aiuti di stato” e hanno, in effetti, applicato il de minimis, ovvero sono ricorsi alla degora che prevede un aiuto non superiore a 2500 euro in tre anni, ci si chiede se bara la Ue o barino le regioni italiane). è possibile convivere con i soliti mezzi passivi: i cani, le reti, la sorveglianza degli animali ecc. (commento: una risposta ideologica standard che rifiuta di prendere in considerazione la differenza di condizioni naturali e sociali che fa sì che in determinate situaizoni i mezzi di difesa passiva siano di impossibile attuazione e limitata efficacia).


Preso atto che la maggioranza delle istituzioni europee è allineata a una difesa ideologica del lupismo e non vuole prendere in considerazione nessuna proposta di aggiornamento dell’anacronistico status di super protezione del predatore, che ne favorisce l’espansione e l’aumento numerico. La corte di giustizia delle UE ha sentenziato non più tardi del giugno 2020 che la super-protezione del lupo si estende anche ai soggetti che entrano nei centri abitati. Un vero e proprio idolo intoccabile. Anche se il lupo entra in un ambito abitato non si può catturare a meno che non vi siano apposite deroghe previste dalle competenti autorità nazionali. In questa deriva va però osservato come, almeno la commissione agricoltura ha preso una posizione chiara.
Anche ad essa è stata sottoposta la petizione del Tirolo. Possiamo a questo punto affermare che, anche se agli effetti pratici nulla cambia, la petizione tirolese è servita a far esprimere la commissione agricoltura in senso favorevole alla revisione dell’iper protezione per una specie che è tornata ad essere molto diffusa e che dovrebbe essere gestita di conseguenza. Qui la lettera originale (in inglese).

Riportiamo alcuni stralci di una traduzione non ufficiale, limitatamente ai punti più interessanti.

Mentre il numero totale di lupi continua ad aumentare in tutta Europa, gli esperti hanno sottolineato la necessità di misure preventive che consentano la coesistenza di grandi carnivori e popolazioni rurali.
 (commento: finché si ascolteranno solo gli esperti di una delle parti in causa, che hanno forti interessi personali e ideologici nel raccontare le cose come a loro garba, sentiremo ancora questo mantra).Innanzitutto, i membri della commissione AGRI esprimono il loro pieno sostegno agli allevatori che hanno perso o che rischiano di perdere bestiame a causa degli attacchi dei grandi carnivori.La commissione agricoltura invita la Commissione [petizioni] a presentare un emendamento alla direttiva 92/43 / CEE sulla conservazione degli habitat naturali e della flora selvatica per spostare le specie di lupo e orso bruno dalla categoria delle “specie rigorosamente protette” a una regime che permette di regolare il numero di individui di queste specie. (commento: questa è l’affermazione veramente importante)Vorremmo sottolineare la necessità di una rivalutazione periodica delle popolazioni di carnivori e del loro stato di conservazione alla luce della Direttiva Habitat, visti i loro attuali tassi di crescita. Inoltre, nel caso dei lupi, data la loro mobilità, dovrebbe essere preso in considerazione anche lo stato di conservazione a livello dell’UE. (commento: anche questa asserzione è  interessante).Sebbene la Commissione [petizioni] abbia ragione nel sottolineare che l’attuazione delle eccezioni previste dall’articolo 16 della direttiva Habitat dipende dalle autorità nazionali, l’UE dovrebbe fornire orientamenti e supporto alle autorità nazionali e locali, soprattutto nei casi in cui le misure adottate sembrano essere insufficienti. In caso di perdite di bestiame, gli allevatori interessati dovrebbero poter ottenere il pieno risarcimento senza ostacoli burocratici. (commento: qui si domostra che la commissione agricoltura è a conoscenza della realtà e non respinge sprezzantemente le doglianze dei territori e della parte agricola. In Italia, il paese dell’Europa occidentale con più lupi le autorità nazionali non fanno nulla per non urtare gli animalisti).Dato che le grandi popolazioni di carnivori si stanno espandendo in tutta l’UE, riteniamo che questa materia meriti un monitoraggio e un’attenzione costanti (commento: giusto)
Il finanziamento dell’UE a sostegno di queste misure [cani, recinti ecc. ] dovrebbe essere notevolmente aumentato date le difficoltà di applicare queste misure in alcune regioni (in particolare montuose), come menzionato nella petizione [del tirolo] Inoltre, il finanziamento dovrebbe essere accompagnato da un’adeguata assistenza tecnica agli agricoltori nell’attuazione delle misure. In caso di perdite di bestiame, gli allevatori interessati dovrebbero poter ottenere il pieno risarcimento senza ostacoli burocratici. (commento: le nostre regioni italiane fanno a gare nell’inventare ostacoli burocratici per dissuadere gli allevatori dal denunciare le predazioni).

Come si vede la commissione agricoltura fa proprie molte delle obiezioni contro la politica ufficiale pro lupo della Ue e degli stati. Il dato politico è importante e va dato atto dell’impegno di europarlamentari italiani (l’on. veneta Mara Bizzotto) di essersi impegnati per questo risultato. Un dato tanto più importante in quanto la commissione ha assunto delle sollecitazioni che venivano dall’opposizione.



Quello che si sta configurando è un fronte di associazioni e comitati di pastori e allevatori, amministratori pubblici, politici, esponenti della cultura locale e delle minoranze linguistiche. Sinora scollegato, questo fronte, attraverso le diverse iniziative in corso sta finalmente coordinandosi con la prospettiva di superare la dimensione puramente spontanea e locale. Non c’è ancora molto tempo.

Si allarga alla Valsesia il movimento NO LUPI

“O noi o i lupi”. WolfAlps  –  sempre più autority del lupo istituzionalizzata – e la Regione Piemonte sono stati contestati anche in Valsesia (dopo la protesta in Ossola). Nessuna fiducia nell’opportunismo della politica e delle istituzioni. Va intensificata la protesta per rompere la cappa di piombo di censura e menzognadi Michele Corti Oggi 29.07.2010,…

Cosa penso della montagna (a 16 anni)

Ruralpini ha di recente raccolto le riflessioni di alcuni giovani in materia di montagna, del suo (e del loro) futuro. Anche un ragazzo di 16 anni, che frequenta un istituto tecnico agrario in provincia di Cuneo, Davide Garnero, ha voluto consegnarci il suo pensiero. Lo ha esposto originariamente attraverso un tema scolastico e la sua…

In Ossola tanti NO alla convivenza con i lupi

Gli allevatori: “o noi o i lupi”. La Regione Piemonte vicina agli allevatori (a parole), con WolfAlps nei fattiAmpio resoconto degli interventi del convegno di Villadossola di venerdì 27 giugnodi Michele Corti Riportiamo un ampio resoconto dei numerosi interventi al convegno sul tema della presenza del lupo tenutosi a Villadossola venerdì 27 giugno. Un materiale…

Un parco contro WolfAlps

Mauro Deidier, neo presidente del parco delle Alpi Cozie, in provincia di Torino, parco partner di Wolf Alps, ha scritto alla “centrale” di Wolf Alps (e del lupismo), il parco delle Alpi Marittime, per manifestare la sua contrarietà al progetto.  Nella circostanziata e densa lettera di cinque pagine, egli rileva come, non solo Wolf Alps operi in modo poco trasparente ma impieghi una quota sostanziosa della pioggia di milioni ricevuti per consulenze. Consulenze a favore della autoreferenziale cerchia lupista. Grave, poi,  per Deidier: l’assoluta volontà di manipolare l’informazione e la comunicazione verso il solo obiettivo di creare a tutti i costi consenso attorno al progetto al fine di proteggerlo da opinioni difformi. Sino a vantarsi di praticare con successo il lavaggio del cervello (parole loro) ai danni degli alunni della scuola dell’obbligo. scarica il PDF della lettera integrale di Mauro Deidier

di Michele Corti




(28/01/2021) Il Parco delle Alpi Cozie è fra i maggiori del Piemonte: 50 dipendenti articolati su cinque sedi, un bilancio da 6,2 milioni di  euro l’anno, 35mila ettari in gestione comprensivi di quattro parchi naturali, due Riserve e (dal 15 marzo 2019) 27 siti della rete natura 2000 (le valli Argentera e Thuras per esempio ne fanno parte).  Mauro Deidier (foto sotto) ha ricoperto in passato il ruolo di presidente del parco Orsiera Rocciavriè, l’area protetto più estesa del nuovo ente che ha accorpato parchi e riserve tra val di Susa e val Pellice.



Da poco tornato al vertice dell’ente, Deidier, si è reso subito conto del carattere “invasivo” di WolfAlps”. Al lupo sono ormai dedicate molte delle energie del parco e la maggior parte delle iniziative pubbliche divulgative. Considerato anche che gli allevatori – ai quali Deidier (a differenza della burocrazia verde del suo stesso parco), riconosce un ruolo insostituibile per il mantenimento degli equilibri ambientali della montagna – sono sempre più in sofferenza a causa del lupo, egli, dopo esserci documentato sulla gestione del progetto e su tutte le attività da esso finanziate, ha scritto una lunga lettera, contenente numerosi rilievi critici, alla “centrale” di WolfAlps, nella persona del geom. Canavese, direttore del parco delle Alpi Marittime (senza neppure un diploma universitario).
Un’iniziativa che assume un forte rilievo perché parte da un rappresentante di un ente, per di più partner di WolfAlps, a contestare. Qualcosa è cambiato da quando dovevamo accontentarci di citare il parco francese delle Cevennes (qui l’articolo di ruralpini del 2012) o il più grande parco nazionale olandese (qui l’articolo di ruralpini del 2019) come esempi di parchi che non si allineano alla politica di espansione a tutti i costi e ovunque del lupo.


Le aree protette organizzate nell’ambito del parco delle Alpi Cozie

Oltre a contestare diversi aspetti della gestione del progetto WolfAlps, Deidier chiarisce nella sua lettera (inviata per conoscenza ad amministratori locali ed esponenti politici e già in circolazione anche fuori delle provincie di Torino e di Cuneo e dello stesso Piemonte), che il parco delle Alpi Cozie non si impegnerà più in attività a favore di WolfAlps ad eccezione di un minimo compatibile con gli impegni sottoscritti dalla precedente amministrazione dell’ente.

Una posizione mantenuta con coerenza

È bene chiarire subito che Deidier non è un fulminato sulla via di Damasco ma, in tema di lupo e progetti pro lupo sostiene in modo chiaro e con coerenza queste posizioni da almeno 16 anni. Nel 2005 egli sosteneva che:
Mentre per l’agricoltura di montagna da anni non ci sono fondi, per studiare il lupo si sono spesi oltre 2 milioni di euro negli ultimi 5 anni fra progetti Interreg e “ricerche” varie… I possibili rimedi? Adottare stru­menti di difesa, ma anche prepa­rarci a cambiare le norme di pro­tezione assoluta del lupo. Nessu­na specie (tanto più se non è a rischio di estinzione) deve poter arrecare inestimabili danni al ter­ritorio in cui si diffonde (da Eco Mese – mensile dell’Eco del Chisone di Pinerolo), anno 2005.

Credo di non essere i solo a ricordare l’intervento di Deidier al convegno di Moretta (Cn) del 19 febbraio 2011: Pastorizia un mestiere multifunzionale da difendere nell’ambito del progetto Pro-past, attuato in una breve finesta durante la quale la Regione Piemonte, invece di finanziare ulteriori progetti proloup, aveva inteso sostenere un’iniziativa, rara aves, dalla parte del pastore. In molte altre occasioni pubbliche il presidente del Parco Orsiera Rocciavriè aveva ribadito i suoi propositi: prima gli allevatori.

Moretta (Cn): 19 febbraio 2011: Deidier parla al convegno Pro-past

Due milioni per il “Progetto lupo”  parevano tanti. Con il progetto WolfAlps I e WolfAlps II il lupismo organizzato e istituzionalizzato ha portato a casa 20 milioni di euro (8 con il primo 12 con il secondo, sempre in crescendo).
In più WolfAlps ha mobilitato risorse degli enti partecipanti. Per i parchi (sono cinque quelli che aderiscono oltre alla “centrale”) questo impegno ha largamente assorbito le energie degli enti compromettendo altre attività istituzionali. Non meraviglia quindi che sia sorta un’opposizione a WolfAlps anche da parte dei parchi. Scrive Deidier:
… nella sola prima fase del progetto Wolfalps il solo Parco Alpi Cozie, nel suo piccolo, aveva rendicontato il coinvolgimento nel progetto lupo a vario titolo, di 18 dipendenti su 50, una spesa di 150.000 euro in consulenze professionali esterne, 453 giornate di lavoro del personale dedicate al lupo, 6.500 euro di missioni per la partecipazione a 119 meeting e convegni sul lupo in italia ed all’estero, ecc.
Deidier, però, non si preoccupa solo del proprio parco, del proprio orticello ma contesta il modo come WolfAlps impiega le milionate di cui dispone:

Analizzando le 152 pagine di rendicontazione della sola prima fase del progetto lupo si evincono fra gli altri 2,6 milioni di euro di costi del personale dedicato, 131.000 euro spesi per meeting, hotel, benzina e pedaggi, 1.740.000 euro di consulenze e servizi commissionati all’esterno, 550.000 euro per espositori, fototrappole, videoproiettori ed altre attrezzature ed altri 350.000 euro per materiali vari di consumo: sinceramente tutto ciò mi pare davvero eccessivo e si parla solo della prima fase del progetto lupo; analizzando il dettaglio delle spese si ha la percezione che venga cercata ogni minima possibilità per riuscire ad investire le ingenti risorse disponibili.
Un gregge nel parco delle Alpi Cozie

Trionfalismo autocelebrativo, ma l’avversione contro WolfAlps, percepito come un centro di potere, cresce
Deidier, però, non si limita a contestare la generosa distribuzione di denaro che ha creato una comoda greppia per le truppe del lupismo militante, per i quadri dell’animal-ambientalismo in servizio permanente effettivo. Non ne fa solo una questione di soldi, pone anche un problema etico. Contesta il trionfalismo autocelebrativo di WolfAlps che finge di ignorare il dramma di centinaia, migliaia di persone, di piccole comunità, di famiglie che si devono misurare con scelte laceranti: cani o non cani, smettiamo o continuiamo, cambiamo sistema? C’è chi abbandona l’allevamento estensivo, cambia razza e si blinda in stalla alimentando gli animali a mangime (alla faccia del benessere animale e della sostenibilità), c’è chi si fa giustizia da solo. Dietro queste scelte quante discussioni tra genitori e figli, tra mogli e mariti, quanti litigi, quanti esaurimenti nervosi, quante malattie psicosomatiche. Solo oggi ho ascoltato un vocale di un pastore (inoltratomi da una comune conoscenza, ma il pastore lo conosco di persona): urlava di disperazione perché dove abita, e ha le capre, siamo circondati dai lupi ma dicono che non sono lupi. Non c’è lo spazio fisico per mantenere una muta di cani da guardiania in una borgata aggrappata alla montagna con le case addossate le una alle altre. Ma anche dove fa alpeggio non solo passano turisti ma vi sono baite abitate in estate dai proprietari. Situazioni senza via di uscita. Di qui tensioni, sofferenza. Spostandoci dall’Ossola alle valli di Cuneo parlo al telefono con un pastore: Quest’estate cinque attacchi, ho preso un cane del Caucaso ma i lupi sono 8-10, devo continuare a fare nuovi recinti alla sera altrimenti le pecore soffrono, avevo due recinti da seguire e non riuscivo ad allontanarmi prima delle dieci di sera. Con il lupo ho perso dieci anni di vita (non è una battuta).



Stride ascoltare le relazioni trionfanti della Marucco e dei suoi accoliti. Sono persone senza cuore, perché sanno bene ciò che patiscono i pastori per i loro lupi. L’interesse personale e l’ideologia impediscono però loro di farsi venire il minimo dubbio, si sentono in pace con la coscienza (lo era anche il dr. Mengele se è per questo). Il fine, per loro, giustifica i mezzi (a volte lo dicono anche). Tutto ciò ha una forte affinità con i comportamenti di chi, in nome della “razza”, della “classe” non esitava a liquidare milioni di vite umane e che non ha mai provato rimorsi per i crimini commessi. Oggi c’è il lupo quale quintessenza di una Natura che diventa un idolo al quale offrire sacrifici umani, in nome di un interesse superiore (ma, ovviamente, lo hanno deciso loro che è superiore, senza chiedere il parere di coloro che ne pagano le conseguenze).

Il geom. Giuseppe Canavese. Il direttore della “centrale del lupismo”, il Parco delle Alpi Marittime, già vice-direttore, svolgeva il ruolo di responsabile della propaganda  del parco

Deidier, nella sua lettera a Canavese scrive:

Mi è stata posta la domanda perchè, dopo 5 anni di azioni del progetto Wolfalps fase1 finalizzate alla tutela ed alla convivenza della cui efficacia vi ritenete soddisfatti, continui a sussistere e ad aumentare la forte avversione nei confronti del progetto e delle strategie poste in essere per il Lupo a tutti i livelli economici ed istituzionali( pastori nelle aree del progetto, sindaci, amministratori locali) . I messaggi celebrativi sul ritorno del predatore , con numerose iniziative intitolate non a caso “dalla parte del Lupo” ” viva il Lupo” ecc. che pullulano anche nell’ambito del progetto wolfalps sono inondate da elogi riconducibili ad una platea di persone alle quali non importa nulla dell’impatto sulle attività pastorali con insulti pesanti e continui anche solo se qualcuno si azzarda a mettere in forse tali celebrazioni per i danni che arreca in talune aree la presenza eccessiva del predatore.


I lupisti si vantano di lavare il cervello ai bambini e irridono  ai politici (fanno bene perché solo i politici ignavi che consentono loro di spadroneggiare)

L’arroganza degli esponenti di WolfAlps è quella di chi ritiene di avere la verità in tasca (loro si ritengono gli interpreti della Natura, superiori ai comuni mortali che operano sulla base di meschine e soggettive considerazioni umane).  L’arroganza di WolfAlps è quella di chi ritiene che la democrazia sia solo una fastidiosa formalità e che gli esperti dovrebbero decidere sempre al posto degli ignoranti. Peccato che gli esperti siano esperti solo nel loro ambito specialistico e per il resto dei “sapienti ignoranti” come diceva già negli anni ’30 del secolo scorso Ortega Y Gasset, più ignoranti spesso della gente del popolo con il suo “buon senso comune”. Peccato che questi “sapienti ignoranti”, basandosi solo su loro cnoscenze settoriali, specialistiche avulse da contesti di realtà più ampi, vogliano imporre la loro volontà. Perché chi studia il lupo deve imporre alla gente di smettere di vivere in un certo modo, smettere di andare nei boschi, smettere di vivere di allevamento, far accompagnare a scuola i bambini dai carabinieri (successo a Macugnaga sra succedendo in valle Antrona)?  Questo atteggiamento è ben rappresentato dalla relatrice (al convegno finale di Trento di WolfAlp) del gruppo di comunicazione dello stesso WolfAlps, Irene Borgna.




Deidier nella sua lettera espone il contenuto della relazione della Borgna:

Irene Borgna ha specificato che quando esce il pasticcio (ovvero articoli che mettono in discussione la funzione di tutela o che danno voce alla protesta degli allevatori ) il gruppo mette in campo immediatamente “uno squadrone super efficace della comunicazione e paff si rimedia subito“; spiega che nelle strategie di comunicazione sul lupo occorre al contempo ostentare un “candore di colomba” facendo percepire ai giornalisti oggettività e trasparenza ma nel contempo essere “astuti come serpenti” nel manipolare l’informazione segmentando il pubblico dei destinatari , citando poi come buone pratiche l’affermazione del guardiaparco Luca Giunti sulla necessità di “coccolarsi i giornalisti ed quando hai una buona notizia la diffondi e passa più facilmente”. Prosegue la relatrice del gruppo di comunicazione: “ci siamo dispersi nelle scuole con cani da guardiania o cani antiveleno ed abbiamo insegnato ai ragazzi ad avere le antenne dritte quando si parla del lupo segnalando ciò che va contro la conservazione” [la solita istigazione alla delazione di chi ha pruriti totalitari nota m.c.]. Spiega poi inoltre candidamente e testualmente la relatrice wolfalps che “mentre ai ragazzi della scuole dell’obbligo riusciamo agevolmente a fare il lavaggio del cervello, ci è più difficile raggiungere quelli delle superiori”; continua dicendo che “anche se gli allevatori sembravano i più difficili da maneggiare invece sta cambiando la loro posizione anche grazie alle campagne di comunicazione di wolfalps” [evidentemente si riferisce a quelli comprati con gadget vari, sacchi di crocchette almonature e viaggi premio nota m.c.]. Nel dibattito viene chiesto alla relatrice un parere sul ruolo degli amministratori pubblici e su chi ha responsabilità di gestione e afferma che “con chi ha responsabilità politiche la scena è desolante, peggio di così non si può” sghignazzando e ricevendo gli applausi della sala. In quella relazione si è perfino beccato degli insulti l’alpinista Messner reo di essersela presa con il lupo per avergli sbranato le sue care pecore, definito fra l’altro persona imborghesita e disinformata.






WolfAlps, però non fa che applicare le “Linee guida” della vera disinformazione “scientifica” che da, decenni, sono applicate dalle cricche animal-ambientaliste. Leggiamo cosa si scriveva nella relazione ufficiale del progetto Life Co-op, 2005 – Criteri di comunicazione per la conservazione dell’Orso Bruno sulle AlpiRapporto redatto nell’ambito dell’Azione A3 del progetto LIFE Co-op Natura LIFE2003NAT/CP/ IT/000003 (Criteri per la creazione di una meta popolazione alpina di orso bruno) http://www.pnab.it/Lifecoop/ azione_a3.htm (link rimosso). La lettura è interessante perché quello era un progetto tutto centrato sulla strategia di comunicazione

[…] è oltremodo importante stabilire un canale diretto di informazione con i mass media: un metodo efficace è sicuramente quello di avviare buone relazioni personali con alcuni giornalisti, favorevoli alla presenza dell’orso (giornalisti ‘amici dell’orso’), referenti locali in materia. Ciò è, infatti, di solito sufficiente ad evitare una ricerca autonoma di informazioni da parte dei mass media, con il pericolo che vengano utilizzate fonti poco competenti o attendibili. In caso di ‘crisi’ poi con l’intento di sgombrare il campo da falsità e esagerazioni, oppure distrarre l’attenzione dagli eventi negativi proponendo notizie positive sugli orsi, non attinenti agli eventi in corso. A seconda delle relazioni esistenti con gli organi di stampa, ciò può avvenire informando i mass media senza apparire in prima persona oppure organizzando conferenze e/o comunicati stampa. I giornalisti ‘amici dell’orso’ (si vedano le fasi di ‘preparazione dell’arrivo’ e di ‘routine’) sono essenziali per raggiungere tali obiettivi, sebbene spesso nei momenti di sovraesposizione le cronache vengano realizzate anche da altri, può essere consigliabile spiegare chiaramente gli avvenimenti. In relazione alla situazione in corso, potrebbe risultare utile organizzare un pronunciamento pubblico o un’intervista in favore dell’orso (magari mediante una conferenza stampa) da parte di un noto esperto o di una ‘celebrità’ nel campo della conservazione della natura: la sua opinione verrebbe infatti considerata molto più autorevole di quella degli esperti e dei tecnici locali e potrebbe avere un effetto tranquillizzante.

La manipolazione è non solo ammessa ma raccomandata

Ciò che osta alla accettazione sociale dell’orso, le opinioni difformi sono, per i guru del progetto Life di cui sopra, fondamentalmente solo “pregiudizi” e “ignoranza”. Ne discende la raccomandazione a promuovere una serie di azioni per attivare un flusso, up to bottom (cioè calato dall’alto), di “informazione diretta”, tesa a “fornire una rappresentazione oggettiva” (tutto quello che pensano i non entusiasti sostenitori della reiptroduzioni sono opinioni soggettive di nullo valore) e a “placare timori infondati” (tanto infondati che in Trentino diverse persone hanno risciato di perdere la vita in incontri con gli orsi e alcune sono rimaste invalide). Dal momento che si tratta di combattere dei pregiudizi infondati gli autori della citata “strategia” suggeriscono, senza pudore, anche tattiche di tipo “manipolatorio”. Nei confronti della stampa si suggerisce – con l’obiettivo di far si che i gestori dei Progetti orso (vale lo stesso per quelli sul lupo) divengano l’unica fonte di informazioni – un approccio che eviti da parte dei giornalisti “una ricerca autonoma di informazioni”. A casa mia si chiama totalitarismo e tutta questa “strategia” puzza lontano un miglio di quelle tecniche di disinformazione in cui eccellevano nazisti e comunisti staliniani.

La La solita tenera immagine del dolce lupetto (dal sito del Parco delle Alpi Cozie)

Deidier non è solo. Le istituzioni più vicine al territorio iniziano a reagire per difendere la montagna
Per quanto gli animal-ambientalisti farebbero a meno di enti elettivi dove il cittadino ignorante conta uno come gli esperti, per ora è previsto che alla guida di enti come i parchi ci siano persone espressione del territorio. Molti presidenti si lasciano guidare docilmente dai loro direttori (tutti legati al giro Federparchi/Legambiente), però non tutti.  Nelle aree calde, dove la presenza del lupo, promossa in ogni maniera da WolfAlps ha portato a un conflitto e a un allarme sociali fortissimi, anche i presidenti dei parchi si schierano con gli allevatori. Così in Ossola, dove la presidente delle aree protette, Vittoria Riboni, da tempo ha preso posizione a favore degli allevatori dichiarando, come Deidier che, per quanto dipende da lei, l’operatività del progetto sarà ridotta al minimo previsto dagli impegni sottoscritti. In Ossola anche il presidente della provincia del VCO, Arturo Lincio è sulle stese posizioni e ha inviato la lettera di Deidier a tutti i sindaci della provincia invitandoli a esprimere pareri, in particolare sul tema dell’ibridazione lupo-cane. Anche il Lessinia, dove è in corso un avvicendamento di presidenti del Parco è scontato che il nuovo presidente sarà dalla parte degli allevatori e contro il lupo. Per il semplice fatto che su 13 sindaci 13 sono schierati. Quantomeno a livello locale c’è una resipiscienza delle istituzioni. 

Purtroppo, almeno per ora, quando si sale al livello regionale (per non parlare di quelli ancora più lontani: Roma e Bruxelles) non c’è niente da fare: il peso delle lobby e della buroespertocrazia diventa sempre più forte quanto più ci si allontana  dai territori. Vi è comunqua un grande lavoro da fare per smuovere sindaci paurosi e opportunisti a schierarsi. La lettera di Deidier è una bella scossa che WolfAlps sarà costretto a incassare.  Ma ora servono altre iniziative dal basso. Serve che gli allevatorti, i pastori, gli abitanti delle borgate e contrade di montagna si attivino. Non serve lamentarsi, disperarsi, imprecare. Si deve pensare ad azioni politiche e legali efficaci.

Far chiudere gli allevamenti è uccidere la montagna

di Andrea Aimar(21.06.20) Lo scorso 1’giugno ha chiuso i battenti ad Acceglio, località Ponte Maira, alta Valle Maira l’ultimo allevamento di trote iridee e salmerini della valle.Dopo lunghe e attenti valutazioni è stata questa la decisione di Giovanna Pasero, 54 anni, titolare dell’Azienda, sul futuro del suo allevamento ittico inaugurato dal suocero Giacomo Marchetti nel lontano 1970.Un’attività…

È inutile portare in montagna i fallimenti della città

Al tempo del dopo contagio di Anna Arneodo Approfittando del clima del post contagio l’Uncem torna a proporre le sue ricette di montagna “da bere”. L’Uncem (Unione dei comuni e delle comunità montane) è in realtà un’agenzia di professionisti della politica e di tecnocrati, pronti a farsi promotori e mediatori di interessi rampanti. Articolazione della borghesia…

Ancora su IMU e fabbricati rurali

Si avvicina la scadenza della gabella che colpisce immobili (ex fabbricati rurali) che, nelle condizioni attuali, non possono fornire alcun reddito. Imponendo aliquote da seconde case, i comuni (e lo stato che ha stabilito le norme per l’imposizione) impediscono la conservazione e il recupero di un patrimonio che ha in molti casi un valore culturale…

Aria fresca in Valtellina (agroalimentare)


  Nell’estate 2019, due giovani di Sondrio, che stavano ancora scrivendo la tesi in economia del management, hanno lanciato una start-up di e-commerce alimentare che ha avuto successo. Pensata inzialmente con raggio provinciale, al massimo regionale, oggi Pascol.it
 consegna in tutta italia carne fresca entro tre giorni. Il consumatore sceglie la razza (entro un ampia gamma) e l’allevatore. Quest’ultimo riceve prezzi equi nettamente superiori a quelli offerti dai commercianti. Come si inserisce questa esperienza nel sistema agroalimentare valtellinese? Perché ha avuto successo? Quali conseguenze positive per il sistema pascolivo? 


di Michele Corti

(23/01/2021) L’iniziativa di due ventenni, Federico Romeri di Albosagga e Nicolò Lenoci di Sondrio non ha forse avuto l’attenzione che merita. Quindi ne parliamo volentieri oggi che è decollata e si sta consolidando.  Si pensa sempre che , anche in ambito agricolo e alimentare servano sempre consistenti capitali. In questo caso sono state più importanti le idee, un progetto, un modello imprenditoriale ben preciso. Quanti nella conformista Valtellina, dove i modelli di riferimento dell’agroalimentare sono le aziende industriali e la catena di ipermercati Iperal, avrebbero scommesso su due giovani che, aperta la partita Iva nel luglio 2019, hanno iniziato – mentre scrivevano la tesi –  a sperimentare commercializzando la carne di  un unico bovino ripartita in pacchi da 10 kg? Va detto che Federico era già in contatto con degli allevatori del suo paese perché la famiglia acquistava la mezzena direttamente dai produttori. Si trattava di rapporti personali da produttore a consumatore; per il resto i due giovani erano del tutto estranei alla realtà agricola e agroalimentare valtellinese. Una circostanza che li ha sottratti ai condizionamenti di un sistema che avrebbe, se coinvolto, messo “il cappello sopra” al progetto e lo avrebbe ricondotto nell’alveo  “istituzionale” facendogli perdere, spontaneità, e slancio. Al sistema non piace che qualcuno prenda iniziative che emancipino produttori e consumatori dalle filiere tradizionali, che si saltino consorzi, cooperative, associazioni, organizzazioni professionali, camera di commercio. Probabilmente la velocità di crescita ha impedito al sistema di mettere in tempo i bastoni tra le ruote.
Infatti la crescita della start-up è stata inarrestabile. Da un fornitore di Albosaggia (Attilio Gusmeroli) si è passati a 30 fornitori, ancora per la maggior parte valtellinesi ma in parte anche di altre provincie lombarde (Bergamo, Lecco, Brescia, Mantova). Inizialmente hanno venduto con il canale dei social (Facebook, Whatsapp, Instagram) poi hanno attrezzato un sito di e-commerce che , nel 2020 è arrivato alla versione “matura” che è online.  Nel frattempo i due si sono attrezzati con un furgone per le consegne in provincia che vengono effettuate in un giorno ma che rappresentano una quota minima del giro d’affari. La Valtellina non solo non ha aiutato la start-up ma l’ha anche osteggiata. I soci investitori sono stati il loro professore, il docente della Cattolica di Strategie di impresa Luigi Geppert, Olmo Falco, un giovane “imprenditore seriale” di Biella che sostiene start-up e una biologa di Lecco.



Quello che doveva essere un raggio di consegne locale e poi regionale si è allargato all’Italia intera dove le ordinazioni arrivano in confezioni sottovuoto mantenute refrigerate entro tre giorni. Dai pacchi di 10 kg Pascol è passata a box da 3, 4 e 10 kg e oggi si possono ordinare singoli tagli, carne per hamburger ecc.  Nel paniere è entrata anche la bresaola di carni a Km0 dello chef Masanti (il Cantinone di Madesimo), top di gamma della qualificata produzione artigianale dell’alta Valchiavenna (patria della bresaola, anche se poi è diventata un prodotto industriale “tipico” IGP della Valtellina come spieghiamo nell’approfondimento sotto). Senza conservanti, coloranti, antiossidanti, zuccheri aggiunti, a lunga stagionatura di almeno tre mesi. Il prezzo è nettamente inferiore a quello di altri canali commerciali.

Nel giugno 2010, a Sondrio, è stato aperto un punto vendita in galleria Campello nel centro cittadino. Pascol ha investito più sulle risorse umane e sul rapporto con gli allevatori che sulle strutture. Hanno escluso la gestione del magazzino. Sono gli stessi macellatori che confezionano il giorno stesso della sezionatura (dopo adeguata frollatura). La frollatura è un particolare chiave per mettere a disposizione del consumatore carne di ottime qualità sensoriali, specie se si tratta di carne di animali che hanno usufruito nella loro vita di un ciclo di pascolo. Sul piano dei collaboratori la start-up è già arrivata a dieci persone. mentre i veterinari che controllano gli allevamenti (e stilano un punteggio di benessere animale) non lavorano a tempo pieno, lo zootecnico della start-up lavora full-time per seguire gli allevamenti offrendo una consulenza a tutto campo. 



La regola più importante riguarda il pascolo. Deve essere praticato per almeno 91 giorni all’anno. Molti degli allevatori, però, quelli che allevano in modo estensivo animali da carne o incroci, mantengono al pascolo i loro animali sei mesi l’anno. Vi è poi il tassativo divieto di Ogm.  Non solo tra la start-up e i produttori c’è un rapporto personale e continuativo ma essa favorisce anche i contatti dei produttori tra loro, un altro approccio “eretico” perché il Sistema vuole che i produttori siano incapsulati nela loro realtà aziendale, divisi e diffidenti tra loro (ovviamente per poterli sottomettere meglio). Pur senza evolvere in una coop (no è questo lo spirito del modello) è possibile prevedere che gli allevatori che conferiscono le carni a Pascol potranno organizzarsi per acquisti collettivi di alimenti per il bestiame e altri prodotti.



Alfio Sassella all’alpe Cavisciöla in alta val Brembana con le sue solide vacche a duplice attitudine OB
Quanto ai prezzi, tenendo conto della qualità, sono assolutamente competitivi e consentono di mettere a disposizione del consumatore carne buona a prezzi accessibili. Questa, infatti, è stata la molla, la mission della start-up alle origini. Ma anche sul lato del produttore le note sono positive. Lo testimonia uno dei produttori che i lettori più assidui di ruralpini conosceranno già in veste di “ribelle del bitto”: Alfio Sassella. Alfio ci ha detto che, rispetto ai commercianti la vacca fine carriera di razza Bruna Originale gli viene pagata il doppio. Pare incredibile ma la OB fine carriera vale, se conferita a Pascol.  come una macchina da latte all’inizio carriera di razza Brown Swiss

Prima di concludere con qualche considerazione sulle opportunità che una simile filiera corta mette a disposizione degli allevatori/alpeggiatori valtellinesi, il lettore che non è assiduo di ruralpini può leggersi un approfondimento sul Sistema agroalimentare valtellinese, un sistema bloccato nella polarizzazione senza uscita tra modello egemone industrial-istituzionale (guidato da alcune grandi aziende, dalla GdO e dalle istituzioni) e alcune  esperienze eroiche e testimoniali, molto interessanti e affascinanti ma che stanno in piedi grazie a un investimento spropositato di risorse umane. Pascol, che si è inserito nel quadro in modo fulmineo e imprevedibile rappresenta forse un modello di emancipazione del piccolo produttore senza lacrime e sangue ma con immediati ed evidenti vantaggi economici. Va chiarito, in aggiunta a tutto quello che abbiamo riferito, che Pascol si impegna a ritirare tutta la produzione degli allevatori conferenti.  

Il sistema agroalimentare valtellineseProspettive
(premessa che i lettori assidui di ruralpini possono saltare, a meno che non vogliano farsi una rinfrescata)

Ruralpini si è occupato tante volte di agroalimentare valtellinese, rimediando anche diffide e querele (archiviate per diritto di informazione del consumatore). Ma valeva la pena fare i don Chichotte quando gli stessi operatori dell’agroalimentare locale restavano “allineati e coperti” e totalmente subalterni a un sistema dominato da grandi aziende che, dopo aver fatto fortuna con prodotti simil-tipici hanno ceduto la proprietà a multinazinali straniere? Emblematici sono i casi della bresaola Rigamonti che, sin dagli anni ’70, si accorse che si poteva produrre bresaola con economiche cosce congelate di zebù sudamericano. Va precisato che la carne zebuina ha caratteristiche biochimiche nettamente diverse da qualla bovima: non frolla. Alla fine, però, l’azienda Rigamonti è divenuta al 100% della JBS, la multinazionale brasiliana della carne al centro di gravi scandali, anche in materia di forestazione dell’Amazzonia (vai al nostro servizio su questi fatti).


Lo stesso modello è stato attuato dall’azienda leader del pizzocchero secco industriale: la Moro pasta (per il 20% della famiglia Moro per il resto di una multinazionale australiana della pasta Remo Macaroni Group). I pizzoccheri IGP “tipici” sono prodotti a Chiavenna (dove il pizzocchero tipico del territorio è un gnocchetto di farina bianca) con semolati di grano duro e un pizzico di farina di grano saraceno (più costosa). Per rendere l’aspetto del pizzocchero di grano duro simile a quello vero si aggiunge crusca di grano saraceno. Così la tagliatella si colora di grigio e presenta i tipici “frustolini” di crusca. La quantità di crusca nell’impasto è la stessa, ma quella di farina di saraceno è il 20% (in luogo dell’80% + 20% di zarina di grano tenero) del pizzocchero fresco. Un prodotto di scarto della lavorazione del decorticato, senza alcun valore (unica utilità è l’imbottitura dei cuscini per la cervicale), indigeribile, indecomponibile, che brucia male. Idea geniale che fa credere allo sprovveduto consumatore di gustarsi un piatto di pizzoccheri valtellinesi (vai al nostro servizio sull’ingiusta attribuzione, politica ovviamente, della IGP).
Potremmo parlare anche dell’omologazione dei formaggi tipici valtellinesi, del bitto dop senza latte di capra, con fermenti in bustina e prodotto con generose integrazioni di mangimi al pascolo, del casera dop senza sapore, prodotto con tecniche di coagulazione in continuo dal latte delle grande aziende di frisone dei fondovalle pianeggianti della bassa Valtellina e della bassa valle della Mera (Valchiavenna) con razioni con insilato di mais. A questo polo industrializzato si sono accodati tanti piccoli e medi artigiani agroalimentari che hanno preferito mettersi sulla scia e non differenziarsi. Lo hanno fatto perché, constatando che le ditte industriali godevano del favore delle istituzioni e della politica, hanno ritenuto prudente non esporsi, non criticare, non assumere iniziative autonome. Tutto ciò non ha certo favorito la qualità delle produzioni e non ha aiutato i produttori agricoli locali. Anche gli operatori meno grand, infatti, quando possibile, ricorrono alla materia prima estera (così per le confetture, i funghi e gli altri comparti dell’agroalimentare). Di valtellinese, di “sapore di montagna” per molti prodotti dell’agroalimentare della provincia di Sondrio ci sono solo le immagini e i claim per il marketing.

In questo quadro chi si è tirato fuori ha dovuto sviluppare virtù eroiche.  I ribelli del bitto hanno iniziato la loro guerra ventennale contro lo stravolgimento delle regole di produzione tradizionali dentro il Consorzio di tutela. Poi sono dovuti uscirne e hanno subito l’ostracismo delle istituzioni.  Solo la caparbietà di alcuni produttori storici (altri hanno disertato costretti dalle “pressioni” del sistema) e la generosità di imprenditori e professionisti che hanno finanziato la realizzazione di una struttura per la stagionatura e la commercializzazione, hanno salvato – con tanti problemi aperti – il bitto storico, oggi costretto a chiamarsi “storico ribelle”. Abbiamo parlato di queste vicende in decine di articoli. Chi fosse interessato con il motore di ricerca interno cerchi “ribelli del bitto”, “bitto storico”, “storico ribelle” (nella home page , nella colonna a destra in alto).

Non meno eroica e controcorrente è stata l’esperienza della comunità del grano saraceno di Teglio. La battaglia per salvare l’unica varietà autoctona italiana è risultata difficilissima. Tra l’altro si sono messi di mezzo i neorurali e i tecnocrati universitari che, in nome di astratte considerazioni sulle “prorietà nutraceutiche”, puntavano ad affiancare al grano saraceno il siberiano. Un’infestante combattuta da secoli dai coltivatori di Teglio perché conferisce alla farina un gusto amaro.  Non  volendo capire che il siberiano  viene ampiamente coltivato in Cina dove ne ricavano anche, disponendo di consolidate tecnologie ed economie di scala,  prodotti farmaceutici e nutraceutici. E questo quando la varietà locale di saraceno è stata selezionata per secoli per il buon aroma della farina. Negli ultimi tampi pare che queste ed altre problematiche si siano appianate e che ci sia una maggiore unità di intenti.
Quanto alla vitivinicoltura essa non conosce quella polarità così netta come gli altri settori. Almeno non nelle stesse forme. La cantina più grossa (Nino Negri) raccoglie le uve di tanti piccoli produttori contribuendo a conservare i vigneti, cantine storiche come Arturo Pellizzatti Perego hanno tenuto duro sullo stile tradizionale, mantenendo le grandi botti di legno (quando imperversavano le barriques). Pur in un contesto eroico, assumono comunque un valore che avvicina a quelle del grando saraceno di Teglio e del bitto ribelle, alcune esperienze di giovani vignaioli che hanno raccolto la sfida di recuperare vecchi vigneti. Tra queste  segnaliamo quella di Jonatan Fendoni, un giovane impegnato anche sul fronte del grano saraceno (sotto le sue etichette dai nomi eloquenti).



Prospettive

Osserviamo innanzitutto che, a differenza di tante altre realtà di e-commerce, Pascol si basa su un rapporto organico con i produttori. Una condizione resa possibile dall’aver puntato su un solo prodotto, la carne e dalla concentrazione dei fornitori in Valtellina. Uno degli aspetti interessanti del modello di e-commerce di Pascolo è che il consumatore ha la possibilità di scegliere la razza e l’allevatore. L’esempio sotto è quello delle prossime spedizioni. Saranno disponibili carni di animali di quattro differenti produttori.  Un modo per non mettere il produttore sullo sfondo. Pascol opera così come piattaforma che collega produttori e consumatori, il lato positivo e umano dell’economia delle piattaforme che, con big tech sta portandoci in tutt’altre direzioni. La conferma che l’economia digitale non è, inevitabilmente, un destino di sorveglianza, controllo e manipolazione.
Il siccesso dell’esperienza, ancora in crescita, di Pascol potrà stimolare analoghe iniziative anche relativamente ad altri prodotti dell’agricoltura valtellinese, gestite da Pascol o da altre start-up. Quindi determinate, forse, profondi cambiamenti nella struttura e nell’impianto istituzionale dell’agroalimentare valtellinese. Per questo diciamo “aria fresca”.
Dal punto di vista dell’incentivazione al mantenimento dei sistemi di pascolo, il poter disporre di un canale di vendita sicuro e remunerativo, che non opera sulla base dei tradizionali schemi commerciali, molto penalizzanti per i produttori,


Pascol sta dando una grossa mano a che come Alfio Sassella  con le sue Ob (ma anche i Murada di Albosaggia con le loro  pezzate rosse)  gesticono imprese agricole indirizzate prevalentemente alla produzione di latte, all’alpeggio, alla trasformazione casearia. Un fatto molto interessante dal punto di vista zootecnico è che la giusta remunerazione della carne di pascolo sta incentivando allevatori come Alfio a produrre torelli da ingrasso Ob.  Nei miei ricordi degli alpeggi della Valchiavenna degli anni ’70-’80 ci sono “fotografie” di gruppi di torelli numerosi. Era ancora in auge una pratica che si era sviluppata nei primi decenni del secolo passato e che contribuiva al reddito dell’alpeggio (insieme al burro). Venduto al commerciante il torello non compenserebbe i costi del finissaggio necessario nei mesi successivi all’alpeggio. Oggi  questa operazione torna economica perchè i canali come Pascol premiano l’animale che ha pascolato un’intera stagione d’alpeggio. A sua volta ciò è possibile perché il segmento più consapevole dei consumatori è disposto ad attribuire a qesta carne un valore. Unendo la possibilità di trarre un reddito integrativo non trascurabile dalla vendita delle vacche a fine carriera e dai torelli, il sistema “dei trogloditi” dell’alpeggio, come gli arroganti esponenti del Sistema definivano i ribelli del bitto. Questi ultmimi erano convinti (una retroguardia che era avanguardia) che i metodi tradizionali fossero quelli del futuro (oggi li definiamo “retroinnovazioni”).  Quanto alle razze da carne se sono monticate su pascoli che non presentano più le condizioni per poter mungere e trasformare il latte, possono anch’esse contribuire validamente al mantenimento dei pascoli alpini. Andrebbero prese quelle precauzioni (controlli frequenti dei capi, turnazione delle parcelle di pascolo se pur ampie) in grado di evitare un pascolamento e uno stazionamento eccessivo in alcuni settori a scapito di altri. Un buon piano di pascolo, forse più difficile con animali da carne che da latte) potrebbe rappresentare un ulteriore valore per Pascol e un importante ambito di consulenza per lo zootecnico della start up. 

 

Edilizia rurale: lo stato la vuole distruggere

Distruggere il patrimonio di edilizia rurale è un modo per cancellare una cultura, la memoria di un paesaggio umanizzato, per rendere impossibili “ritorni” e nuove piccole attività agricole e turistiche. Lo stato con l’Imu sui fabbricati non vuole solo fare cassa, vuole distruggere un pezzo importantissimo della cultura rurale (per non pagare una tassa pesante…

Lessinia: montagna da lupi?

Dal 2014, in Lessinia, il problema dei lupi e del loro impatto sulle attività umane è diventato oggetto di ampio e acceso dibattito fra montanari e cittadini. Questo articolo di Giuliano Menegazzi e Ugo Sauro fa descrive la prima fase seguita alla reintroduzione (coperta da una ridicola love story) del predatore nel parco dei Lessini.…

Mi piace stare qui, così

La rivoluzione della montagna (di una ragazza di 24 anni) Così. Così, come adesso, al tempo del contagio. L’assenza di frenesia nelle strade vuote e lugubri rispecchia in città la solitudine angosciata dei cubicoli (buoni per una vita “fuori”, di lavoro, week-end, svago consumista). Mentre nella montagna rurale il silenzio da il senso liberatorio di…

Piemonte: il lupo è (sempre più) un problema sociale e politico



Alcuni comuni e unioni montane delle provincie di Torino e Cuneo  chiamano in causa la regione Piemonte in tema di lupo per la sua inerzia e l’appiattimento sulle posizioni delle lobby animal-ambientaliste. Il vice presidente Carosso risponde sostenendo che in Italia il lupo è gestito (!?) bene e lo sarà in modo ottimale dopo che saranno noti i risultati del censimento dei lupi orchestrato da Wolf Alps. Fa finta di non sapere che in Italia, Piemonte compreso, la maggior parte degli episodi di predazione non sono denunciati, che i dati sulla consistenza della popolazione lupina piemontese (stimata in meno di 200 esemplari) sono oggetto di discredito e dileggio (a fronte del numero elevatissimo  di lupi trovati morti sulle strade: 48 nel 2020). 


di Michele Corti




(18/01/2021) A Villar Pellice, nel torinese, si era tenuto in ottobre un incontro sul tema del lupo con rappresentanti di comuni, oltre che della val Pellice, delle valli di Lanzo e della cuneese val Maira.  La sindaca di Villar Pellice, Lilia Garnier, riconfermata del 2019 con l’84% dei voti, si batte da anni -in quasi totale isolamento – per difendere la sua gente: gli allevatori – ripetutamente danneggiati dalle predazioni – ma anche gli abitanti delle borgate che hanno i lupi in casa.
Commentando i danni subiti dagli allevatori, la sindaca ha sostenuto che… Se si trattasse di negozi in centro a Torino, danneggiati due o tre , volte l’anno immagino che si sarebbe già mosso qualcosa. Invece per noi niente . Nel gennaio 2019 la Garnier scriveva al prefetto di Torino, preoccupata per la presenza dei lupi presso le case. Lo scorso anno, sempre a gennaio, riscriveva al prefetto per fare presente che i lupi, ormai, entrano nelle pertinenze delle abitazioni, come nell’episodio avvenuto alla borgata Teynaud dove è stata predata la capretta, la mascotte dei bambini, dentro il giardino di casa. Il problema. Che i lupi diventino sempre più sfrontati e aggressivi è facilmente constatabile in base alle cronache quotidiane. Quest’inverno, in valle Po, a Sanfront, Paesana e Bellino sono state registrate predazioni di cani nei cortili delle case e a Crissolo le telecamere di sorveglianza hanno registrato la passeggiata in paese di un branco di otto lupi. Per ora di notte, ma domani?


Covid e nevicate hanno reso i lupi più intraprendenti e la loro presenza nei paesi è ormai all’ordine del giorno. Non solo nelle valli e nelle borgate, ma ora anche in zone pedemontane quasi di pianura come a Giaveno, 20 km da Torino, dove , il 16 gennaio, a pochi  passi da abitazioni e da un parco giochi sono state predate delle pecore. L’allarme sociale cresce ma la politica non c’è. Al massimo, tranne pochi sindaci e altri amminsitratori coraggiosi, allarga le braccia: non possiamo farci niente, è protetto dalle leggi europee. Detto in valli al confine con la Francia dove è stato autorizzato l’abbattimento di 100 lupi su 600 un tale atteggiamento da Don Abbondio provoca veramente disgusto.
Questa escalation nella proliferazione del lupo è testimoniata anche dal numero impressionante di lupi rinvenuti morti lungo le strade. In Piemonte, a differenza di altre regioni, grazie all’impegno di Alessandro Bassignana (blog Nuovo Cacciatore piemontese), viene tenuta una statistica accurata. Le autorità lupologiche avrebbero fatto volentieri a meno di pubblicizzare questi dati (che le sbugiardano) ma le le segnalazioni effettuate con lo smartphone da cacciatori o semplici cittadini che passando, vedono le carcasse e ne segnalano la presenza, lasciano poco spazio per l’insabbiamento. Tanto che ora sono le stesse autorità lupologiche a dare per prime la notizia dei lupi trovati morti (nel 2021 siamo già a 4 lupi rinvenuti stecchiti lungo le strade, uno ogni 4 giorni). 


Nel 2020 la statistica si è fermata a 48 lupi trovati morti. Un numero palesemente incompatibile con le stime ufficiali del Centro grandi carnivori di Entraque/Parco Alpi marittime/Wolf Alps che vorrebbero far credere come in Piemonte ci siano solo 195 lupi. Nessuno, tranne l’assessore Carosso (che mi fido di Wolf Alps) può credere che il 25% dei lupi lasci ogni anno la pelliccia sulle strade. Nessuno può crederci perché vi è comunque da aggiungere la mortalità naturale e il controllo illegale (che non lascia tracce, ma che pesa almeno quanto gli incidenti stradali). Sommando le cause di mortalità quella complessiva supererebbe il 50% della popolazione e dovremmo vedere il lupo … in estinzione. Invece gli avvistamenti aumentano e sono sempre più presenti in pianura e nei paesi (sotto un’immagine di pochi giorni fa). 

Le stime ragionevoli della consistenza della popolazione (basate sulla mortalità e sulla crescita della popolazione) indicano come plausibile un valore di 3-4-5? volte tanto la stima “prudente” ufficiale.  Probabilmente i lupi piemontesi si avvicinano già al migliaio quando la lupologia stimava una capienza massima di 350 capi a dimostrazione di quanto essa sia più ideologia e smania di potere che scienza. Se, in Francia, la stima dei lupi certificata dallo stato è fornita con un errore del ± 10%, in Italia e in Piemonte, l’ “errore” (che è in realtà un falso ideologico avallato da istituzioni “pubbliche” ma manovrate dalla lobby lupista) è solo di sottostima ed è di un ordine di grandezza superiore.   Tornerò poi sul tema del monitoraggio e del censimento dei lupi in atto e sui trucchi per ritoccare i vecchi numeri farlocchi senza rivelare la reale consistenza delle popolazioni lupine piemontesi e italiane.

In ogni caso da Villar Pellice la protesta a muso duro contro la regione Piemonte si è allargata. Lo scorso ottobre a Villar Pellice si era tenuto un incontro  al quale aveva preso parte, oltre ad amministratori della montagna ed esponenti di organizzazioni agricole, anche l’europarlamentare Pietro Fiocchi. 

IN CONFLITTO DI INTERESSI CHI?

Apriamo un inciso: gli animal-ambientalisti hanno subito evocato il conflitto di interessi (la Fiocchi è una primaria azienda internazionale nel settore delle munizioni) e pubblicando la notizia dell’incontro di Villar “condita” di foto di scatole di munizioni. Una polemica grottesca. L’eventuale apertura della caccia al lupo in Italia, (che comunque non è quello che chiede chi vuole il controllo della specie), rappresenterebbe un mercato insignificante per un’azienda che esporta l’80%  che produce munizione anche per il tiro sportivo e la difesa personale nell’ordine delle centinaia di milioni di pezzi. Altrettanto insignificante lo sarebbe quello delle munizioni utilizzate per cacciare il surplus di cervidi e cinghiali “sottratti ai lupi”. In compenso, mettendoci la faccia sullo scottante tema del lupo, Fiocchi espone semmai l’impresa a ritorsioni da parte delle potenti lobby animal-ambientaliste internazionali.
Sono invece loro, gli animal-ambientalisti in palese conflitto di interesse. La loro rigida politica “il lupo non si tocca”, il loro proclamarlo a rischio di perenne estinzione (anche a fronte del suo dilagare in aree dove era scomparso da secoli), non sono solo frutto di rigidità ideologica ma di sete di profitto. L’ambientalismo vende lupi online (vedi l’immagine sotto) ma, attraverso  campagne distorsive della realtà che fanno leva sulle emozioni e il condizionamento psicologico, ottiene anche tessere, donazioni. Per non parlare dei finanziamenti pubblici per progetti di ogni tipo per la “convivenza con il lupo”, oasi, centri di recupero della fauna selvatica ecc. Quante decine di milioni di euro all’anno frutta il lupo?  Una gallina dalle uova d’oro, un giocattolo per far soldi che … guai a prtarglielo via. La magia sarebbe rotta se lo stato acconsentisse, sia pure limitatamente, al controllo legale della specie. L’aura di sacro idolo intocabile e oggetto di venerazione verrebbe infranta. Se il “bracconaggio” (che non è bracconaggio perché il bracconiere agisce per lucro e vendere il trofeo) è gestibile nel quadro della sacralità del lupo quale sacrilegio da esorcizzare e contro il quale inscenare liturgie di riparazione, l’abbattimento legale, che declasserebbe il lupo alla condizione di un animale come gli altri, metterebbe in crisi tutta la costruzione.



Il documento che ha sintetizzato le conclusioni dei lavori  di Villar Pellice è stato reso noto il 31 dicembre 2020. Esso è rivolto in primo luogo alla Regione Piemonte (in quanto titolare delle competenze in materia di controllo e gestione della fauna selvatica) al Ministero dell’ambiente, ai parlamentari nazionali ed europei all’Uncem (Unione nazionale comuni montani). A firmarlo sono stati i soggetti già presenti a Villar: i comuni di Villar Pellice, Bobbio Pellice, Rorà, Bibiana della val Pellice (Torino), l’Unione Montana dei Comuni delle Valli di Lanzo, Ceronda e Casternone (Ala Di Stura, Balangero, Balme, Cafasse, Cantoira, Chialamberto, Coassolo Torinese, Corio, Fiano, Germagnano, Givoletto, La Cassa, Lanzo Torinese, Mezzenile, Monastero Di Lanzo, Pessinetto, Traves, Val della Torre) e i comuni di Elva e Cartignano in val Maira (Cuneo). È stato sottoscritto anche dalla Coldiretti e dalla Cia. 

Villar Pellice

Perché il documento è importante e segna un elemento di novità? Perché non è il solito documento redatto tanto per dare un contentino agli allevatori e alle popolazioni popolazioni che non ne possono più dei lupi che scorazzano per i paesi. Non è un documento poco impegnativo tanto per far credere che “si sta facendo qualcosa” e che, in premessa, riporta la solita genuflessione Non abbiamo nulla contro il lupo, non vogliamo mettere in discussione che debba essere protetto … ma. No, niente di tutto questo. Ed era ora. Esso mette la politica di fronte alla sua ignavia premettendo che l’iperprotezione del lupo mette a rischio la presenza dell’uomo in montagna e accusando la regione di essere apertamente e passivamente schiera su posizione pseudoambientaliste, di non mostrare alcuna volontà di confronto costruttivo con il mondo rurale, di essere venuta meno al ruolo di mediazione tra le diverse istanze che sono rappresentate nella società. 
A fronte della palese non gestione del problema lupo, che probabilmente è sfuggito di mano agli stessi apprendisti stregoni della lupologia, il documento di Villar Pellice chiede che sia rivista l’iperprotezione del canide selvatico e si attivi una gestione. La sindaca di Villar commentando l’iniziativa ha precisato : Vogliamo che questa gestione del lupo che non sia in capo a chi sta vivendo anni di gloria con questo animale.
Ci si può rammaricare che un documento  così, che segna, comunque lo si voglia leggere, l’acquisizione di una consapevolezza politica chiara sui termini del problema, non sia stato firmato da più comuni e unioni di comuniMa se il prezzo dell’unanimismo consiste nell’annacquamento del buon vino e nel ritorno a ordini del giorno e delibere che si limitano a “suppliche” nei confronti delle “superiori istituzioni” (alle quali si riconosce ancora una dignità e una terzietà che, invece, hanno perso da un pezzo), allora è meglio evitare di contrattare al ribasso con i pavidi che non vogliono esporsi.
Troppi amministratori si defilano perché temono che “esporsi” in tema di lupo possa “irritare” la politica e la burocrazia regionali e far perdere al comune, alla valle (o forse alle cerchie di interesse prossime agli amministratori in carica ed ad appalti, incarichi, consulenze) i finanziamenti regionali.
Meglio che si muovano e parlino schietto pochi (per ora) ma coraggiosi amministratori senza peli sulla lingua. Le comunità amministrate dai Don Abbondio, preoccupati di non “disturbare il manovratore”, sapranno fare i confronti. E qualcuno prenderà coraggio pungolato dai propri cittadini.

La risposta di Carosso: la toppa è peggio del buco
Palesemente chiamato in causa dal documento di Villar Pellice, l’assessore e vice presidente della Regione Piemonte, Fabio Carosso, ha fornito una risposta che conferma ancora di più come questo esponente politico, si sia del tutto appiattito su Wolf Alps-Centro grandi carnivori, l’ente in via di istituzionalizzazione, comunque già molto potente, che in Piemonte,  tendenzialmente anche in altre regioni, sta sostituendosi agli assessorati regionali nel definire le linee di azione e la loro applicazione in materia di lupo.
Carosso ha negato che non non vi sia una gestione del lupo. E, a sostegno di questa indifendibile tesi, ha avuto l’impudenza di proclamare che le cose vanno meglio in Italia che in Francia dove, con meno lupi, hanno molte più predazioni. Una battuta di pessimo gusto considerando che in Italia il controllo, in presenza di una non-gestione, lo devono fare i pastori e gli allevatori, rischiando denunce penali per difendere il loro lavoro. Anche in Piemonte. Gli stessi ambientalisti devono ammettere che in Italia vengono “bracconati” 300 lupi ogni anno. In realtà sono molti di più.


Un esempio di come si nascondono i dati sulle predazioni. A ferragosto 2020 in alta val Sesia un intero gregge di un centinaio di pecore si è gettato in un burrone (sopra le carcasse insaccate per l’elitrasporto a valle). Nella zona erano stati segnalati già attacchi di lupi (anche negli anni precedenti) ma nessuno si è preoccupato di ottenere delle prove sulla  responsabilità del lupoe la strage è stata derubricata a “incidente”.

Quanto agli indennizzi, tutti sanno che in Italia le regioni e gli altri enti preposti fanno di tutto per scoraggiare gli allevatori a denunciare i danni da predazione e, molto spesso anche per “sviare” la responsabilità del lupo (specie nelle zone dove il lupo è apperso di recente). Ogni regione ha dei suoi criteri: alcune riconoscono il danno solo se è provato (da analisi del Dna) che il responsabile dell’attacco è un lupo, alcune riconoscono i “danni collaterali” e la perdita degli animali non recuperati con una (misera) percentale di forfettizzazione, molte si affidano a compagne assicurative private che, come noto, con sistemi di franchigie e massimali fanno di tutto per non risarcire chi ha subito il danno.
In alcuni casi agli allevatori viene richiesto un contributo per la coperttura assicurativa. Anche in Piemonte vigeva un sistema di questo tipo e, per poter accedere agli indennizzi dei danni da predazione, l’allevatore doveva essere iscritto al Cosman, il consorzio per lo smaltimento dei rifiuti di origine animale, un adempimento oneroso per i piccoli allevatori.
Motivi di esclusione dagli indennizzi in alcune regioni possono riguardare i requisiti soggettivi (Imprenditore agricolo a tiutolo principale) e la messa in atto di sistemi di prevenzione. Un sistema fortemente distorsivo che crea forti disparità tra allevatori persino all’interno della stessa regione (specie quando vige un sistema diverso tra aree parco e fuori parco). In tutte le regioni ile procedure impongono lunghe trafile burocratiche che di per sé tendono a indurre gli interessati a non denunciare gli attacchi subiti.
Spesso vi è anche il timore che la richiesta di indennizzo comporti una serie di controlli tesi a verificare il rispetto delle norme sanitarie, sul benessere animale, sull’esercizio del pascolo, sul personale addetto. Per timore di essere colti in fallo, specie dove gli addetti agli accertamenti sono dichiaratemante lupisti  (interessati a tenere sommerse le predazioni e a dissuadere le denuncie) molti allevatori e pastori  tengono il tutto nascosto.
Ma lo sa Carosso che in Francia: c’è – come già abbiamo visto,  una stima seria del numero di lupi certificata dallo stato; il 17% della popolazione viene legalmente abbattuto ogni anno per contenerne la proliferazione; ogni pastore riceve 50 € al giorno per ogni aiuto pastore, 70 € se è egli stesso addetto alla sorveglianza del gregge, per compensare i costi aggiuntivi indotti dalle misure di difesa passiva (reti, sorveglianza maggiore, cani); vi è un finanziamento statale all’80% per l’adozione di misure di protezione (compresi i cani); in ogni dipertimento con presenza del lupo l’allevatore può contare su un servizio di assistenza e formazione sull’impiego dei cani da guardiania ecc.? 

Tranquilli, stiamo lavorando al piano-lupo
Il vice-presidente della regione Piemonte che forse non si accorge di apparire più realista del re, ovvero il ventriloquo di Wolf Alps,  non si è limitato a sostenere che in Italia il lupo è gestito meglio che in Francia ma ha anche detto, intervistato dalla Stampa nell’ambito dell’articolo sulla predazione a Giaveno di cui sopra, che non è vero che la Regione non stia facendo niente in quanto sta lavorando, in seno alla Conferenza Stato-Regioni per il nuovo piano-lupo.  Si tratta di quel piano fermo da sei anni per via della demagogia animal-ambientalista. Quella campagna che indusse Chiamparino, allora presidente Pd della Regione Piemonte, a rimangiarsi – scavalcando i suoi assessori – l’assenso a una versione del piano già approvata dalle regioni che prevedeva, pur con infinite clausole restrittive, l’abbattimento massimo teorico di 50 lupi in tutta Italia. Un controllo omeopatico, ma tale da far scatenare le lobby che sul lupo fanno affari.


Che  Chiamparino, esponente della sinistra bancaria torinese, dimentichi che anche l’uomo in montagna, anche l’allevamento e la buona cura dei pascoli siano un patrimonio è cosa comprensibile. Che il leghista astigiano Carosso si appiattisca su Wolf Alps è meno comprensibile agli elettori della montagna.

Tornando a Carosso ha dichiarato in questi giorni, confermando la sua fede in Wolf Alps: Entro due mesi dovremo avere i numeri esatti del censimento coordinato dagli esperti di Wolf Alps e da lì lavoreremo per una gestiore ottimale di questa specie protetta
In che mondo vive Carosso? Quello dei dirigenti regionali animal-ambientalisti si vede. Non sente in giro, sul territorio da dove provengono i voti,  che Wolf Alps è percepito come la struttura autoreferenziale nemica degli allevatori e della montagna? Non ha abbastanza acume politico per capire che Wolf Alps, usando il lupo, sta costruendo un nuovo centro di potere e di spesa connesso alla lobby dei parchi ma, rispetto a questa, più aggressivo e spregiudicato, in grado di condizionare la stessa Regione? Non si accorge che i numeri forniti da Wolf Alps sono screditati?
E poi quale “gestione ottimale” si potrà mai attuare se lo strumento alla base della gestione, il controllo, rimane precluso per non urtare la sensibilità ambientalista (e compromettere il business)?   Il censimento nel quale Carosso ripone tante aspettative è gestito da Wolf Alps (che non può certo fornire risultati tali da sputtanare sé stesso e tanti anni di incasso di lauti finanziamenti); non solo ma a contare i lupi sul territorio (dopo brevi webinar di formazione organizzati sempre da Wolf Alps) saranno volontari reclutati prevalentemente tra le associazioni ambientaliste (Cai, WWF, Legambiente, Lipu e altre siglie minori). Con queste premesse, nonostante il fumo negli occhi della metodologia messa a punto dall’Ispra, i risultati sono conosciuti in partenza. Si aggiusteranno al rialzo le stime passate mantenendo i risultati molto lontani dalla realtà e ci si attesterà su un dato di consistenza per la popolazione lupina italiana di 3000 capi, al massimo 4000.
Dal nostro punto di vista è importante che ci sia un numero crescente di amministratori che non si lascino abbindolare dalla retorica lupista di Wolf Alps e di Carosso. Ricordiamo al lettore che il medesimo è stato apertamente contestato lo scorso giugno in Ossola (vai a vedere) e poi a luglio in val Sesia  (vai a vedere) nel corso degli incontri “informativi” di Wolf Alps. 


Il motivo?  Allevatori, ma anche sindaci, non accettavano che l’istituzione regionale, in teoria al servizio di tutti i cittadini, affidasse alla sola parte lupista la gestione di tutto quello che riguarda il lupo. Come se questo tema non coinvolgesse, loro malgrado e in modo pesantissimo, altri interessi oltre a quelli dei “conservazionisti” e come se non vi fosse l’esigenza di sentire anche altre campane oltre a quella pro lupo trattando del tema in un contesto pubblico. Con la differenza che mentre l’interesse dei lupisti – che si nasconde dietro il loro arrogarsi di rappresentare i “diritti della natura” – coincide con quello delle loro tasche, quello degli allevatori e delle persone che abitano in montagna è un interesse vitale che riguarda la stessa possibilità di lavorare e vivere in montagna. Come si può essere così Ponzio Pilato da ignorare le implicazioni etiche di questo conflitto di interessi? 
Negli incontri Wolf Alps in val d’Ossola e in val Sesia, gli allevatori hanno potuto parlare con i cartelli e i campanacci. A loro sono stati concessi solo alcuni brevi interventi alla fine del convegno in qualità di “pubblico”. Una strana concezione della democrazia quella della Regione Piemonte. Carosso anche a Villadossola non aveva mancato di elogiare i monitoraggi “altamente scientifici” di Wolf Alps e aveva dichiarato che la regione non può fare nulla in materia di controllo in assenza del solito deus ex machina: il Piano nazionale del lupo.
Una bugia per dire che la regione non se la sente di attuare un controllo perché non ha il coraggio di affrontare le lobby animal-ambientaliste. In presenza di gravi danni economici un ente responsabile del controllo della fauna selvatica (il Italia le regioni) ha il diritto-dovere di attivare un controllo. In assenza di Piani-lupo vale la direttiva europea. Vero che essendo ancora il lupo specie  “particolarmente protetta”, serve l’ok del Ministero, che a sua volta deve avere l’ok dell’Ispra ecc. Ma se una regione non attiva una richiesta di attuazione di un piano di controllo non potrà mai essere il Ministero a prendere l’iniziativa. Questo varrà anche quando ci sarà il Piano lupo, sia ben chiaro. Lo dice la costituzione quando definisce la ripartizione di competenze tra stato centrale e regioni.  


È paradossale  che proprio un leghista come Carosso si appelli al centralismo statale come alibi.  La realtà è che i parchi e Wolf Alps sono un centro di potere capace di imporsi attraverso la burocrazia sulla debole politica regionale, mentre la montagna, con i suoi interessi dispersi, priva di rappresentanze politiche forti e autonome è un vaso di coccio. Così un assessore alla montagna, ai parchi, alle foreste ecc. si adegua al potere delle lobby che, se assecondato, garantisce una navigazione confortevole e la non ostilità della burocrazia e della magistratura.

La politica ha abdicato. Amare considerazioni
Politica e istituzioni si sono liquefatte, sono diventate compagnie di ventura,  sono state svuotate dall’azione delle lobby e dal potere crescente e incontrollabile delle grandi imprese multinazionali (big tech, big farma) e dei grandi gruppi finanziari.  Siamo di fronte all’impotenza nel salvaguardare i valori fondamentali della nostra civiltà e gli stessi presupposti minimi della vita civile. Lo si vede benissimo di fronte alla totale incapacità delle istituzioni (ex)pubbliche di porre argini al dilagare del controllo e del condizionamento del comportamento da parte del regime di “sorveglianza digitale”. Un regime instaurato da ditte private (peraltro fortemente connesse con la Cia e il Pentagono a meno che non si creda alla favola in veste moderna di Cenerentola che narra come le più potenti corporation mondiale siano nate in un garage per merito di stravaganti e visionari personaggi). Travalicando dalla realtà online a quella offline, il controllo digitale annulla l’autonomia e la libertà delle persone ed elimina alla radice i presupposti della democrazia.
Un processo parallelo si constata anche nel caso del lupo. Qui assistiamo all’abdicazione della politica che rinuncia a contrastare le politiche pseudoambientaliste di “rinaturalizzazione forzata”, che rinuncia, sotto i ricatti animal-ambientalisti, ad adeguare le norme legislative alla realtà di una fauna selvatica fuori controllo, che da spazio all’autoreferenzialità della lobby lupista e riduce a zero, a vantaggio degli esperti, l’importanza nella governance di istituzioni territoriale democraticamente elette.
Libertà di pensiero, diritto alla sfera privata, diritto di (piccola) proprietà, tutela e libertà delle (piccole) attività economiche, tutela della sicurezza delle persone comuni, diritto a risiedere dove si hanno le proprie radici: tutto quello che è scritto nelle costituzioni, delle convenzioni, dei trattati è diventato carta straccia. Contano le leggi non scritte, conta il peso delle azioni lobbystiche, la capacità dei gruppi di potere di influenzare, in forme sempre più efficaci, un’amorfa opinione pubblica prigioniera nella bolla dei condizionamenti mediatici, privata ormai di accesso a esperienze e ricontri con la realtà.
Remare contro corrente è faticoso, quasi impossibile, non sorprende che la politica si adegui, vada a rimorchio dei vecchi e nuovi media, delle lobby, di una burocrazia che con le lobby ha profonde e organiche connessioni. Per contrastare questi processi che non sono inevitabili serve una resistenza sociale consapevole. Nella sua drammaticità il problema del lupo consente di aprire gli occhi, di squarciare spesse coltri di disinformazione, retoriche, ipocrisia.
APPENDICE
Una geografia di resistenza sociale, rurale, umana
In realtà, pur in presenza di una spaventosa asimmetria di potere, di conoscenze, di capacità di farsi sentire, la montagna alpina sotto stress per il dilagare del lupo ha iniziato a sviluppare una consapevolezza dei termini del grande scontro in atto e ad abozzare forme di resistenza. Abbiamo visto che in val Pellice e in Ossola vi sono sindaci che si schierano con gli allevatori e abbiamo visto come sono già state organizzate forme di protesta vivaci. In Ossola, all’incontro di Wolf Alps del giogno 2020,  il presidente della provincia, Arturo Lincio (sindaco di Trasquera, un paese di montagna della valle che porta al passo del Sempione), e la presidente delle aree protette, l’allevatrice di capre Vittoria Riboni. Essi hanno parlato anche a nome anche degli amministratori locali cui non è stata data la parola, hanno contestato la politica pro lupo nazionale e regionale. In Lessinia è schierato con gli allevatori contro il lupo il presidente del parco Raffaello Camostrini, sindaco di Sant’Anna di Alfaedo. Anche il presidente della provincia di Verona, Manuel Scalzotto, sindaco di un paese di pianura, Cologna veneta, ma allevatore è schierato con gli allevatori. Ma anche nelle valli del Torinese, oltre alla battagliera sindaca di Villar Pellice c’è il neo presidente del parco delle alpi Cozie che non ha esitato, appena nominato a dichiarare che i costosi progetti pro lupo non hanno portato nessun sollievo alle predazioni, suscitando la reazione scandalizzata dei Legambiente che si ritiene, attraverso il controllo di Federparchi e dei direttori degli stessi, la “padrona dei parchi”. Vanno citata in questa geografia che vede in alcune valli diversi rappresentarsi istituzionali rompere l’unanimismo lupista del quadro istituzionale le valli di Lanzo me torinese, che hanno aderito attraberso la loro Unione al documento di Villar Pellice e alcuni comuni della val Maira nella provincia di Cuneo. Un’altra piccola realtà di resistenza con i sindaci dalla parte delgi allevatori, specie quello di Cusino, Francesco Curti, si trova nella valle più remota della provincia di Como, la val Cavargna, al confine con la Svizzera dove i branchi “transfrontalieri” sono insediati da anni. Sono le realtà più salde nella loro identità, spesso di minoranza, spesso di frontiera che reagiscono alla minaccia del lupo superando l’anestetico somministrato dai media e dalla politica delle “superiori istituzioni” (dalla regione a Bruxelles passando per Roma). Sono le valli che hanno conservato lingue di minoranza, forti tradizioni, sentimenti di indipendenza. Le valli torinesi sono di lingua franco-provenzale e in val Pellice e Germanasca è diffusa la religione valdese, l’Ossola è la valle della repubbica partigiana, dei tentati referendum per l’autonomia e la secessione da Torino (i Savoia l’hanno annessa solo a metà Settecento ma la valle è di lingua e cultura lombarda-alpina e walser), la Lessinia è stata popolata, a fine XIII secolo, da genti di lingua tedesca ed è forte, ancora oggi, di una cultura peculiare e di una forte coesione comunitaria, la val Cavargna è stata terra di contrabbando e rimane una valle con un  particolare attaccamento alla cultura e alle tradizioni locali, dove la Lega – scambiata per un partito etnico di raccolta, alla Südtiroler Volkspartei – raccoglie l’80% dei voti.
Valli indomite (la storia dei valdesi rappresenta il caso più eclatante), che hanno conservata con tenacia la propria identità e che oggi si rendono conto che c’è il rischio che tanti sforzi volti a conservare la “piccola patria”, stanno per essere vanificati perché qualcuno, nel rapido declino della democrazia,  ha deciso che tutte queste realtà devono subire la cancellazione demografica, devono arrendersi al rewilding, devono fare la fine delle tribù dei nativi americani cacciati dalle loro terre per far posto ai parchi. 
Ma la storia non è stata ancora scritta.1 val Maira; 2 val Pellice; 3 valli di Lanzo; 4 val d’Ossola (e val Strona); 5  val Cavargna; 6 Lessinia

TRANSUMANZA AMARA (2)

Ancora una voce controcorrente, dopo quella di Anna Arneodo , nel dibattito aperto da su “Transumanza Unesco: beffa o occasione?”.  Anna alleva pecore. Alberto Delpero, l’autore di questo nuovo contributo, non ha pecore ma è profondamente legato alla realtà ruralpina della propria terra. E’, soprattutto, un resistente della montagna, protagonista della battaglia per mantenere a Pejo quella…

Ridar vita alla montagna

(serve una svolta) Da dove cominciare nell’individuare gli strumenti, i soggetti, i percorsi di una rinascita montana? Un dibattito che oggi non può essere lasciato agli “esperti”, non deve “saltare” a forme di progettazione – più o meno estemporanee – che servono solo a far girare risorse che non toccano terra dove realmente serve. Gestire…

Popolo alpino … a rischio estinzione

Le “piccole” cose che stanno uccidendo la montagna (nessuno potrà dire: “non sapevo, non ce l’aveva detto nessuno”) Un insieme di  scelte deliberate, l’indifferenza,  gli automatismi burocratici, l’applicazione ottusa di regole pensate per la prevalente realtà urbano-industriale, stanno uccidendo la montagna. Non più lentamente, velocemente. Forse in modo radicale, epocale. Si sta tornando indietro di…

Scappo dalla città …e vado a rompere i c.


La pandemia ha accentuato il fenomeno del “scappo dalla città”  ovvero del trasferimento di abitanti delle aree metropolitane verso quelle rimaste rurali (montagna, aree collinari interne). Non più solo pensionati ma persone di ogni età si insediano in condizioni a metà tra il turista e il residente. Il fenomeno “neo-rurale” ha molti risvolti, non tutti negativi. Quando però, facendo valere il proprio capitale sociale, il “neo-rurale” tende, arrogantemente, a imporre ai rurali la modifica del loro modo di vivere, allora è colonialismo. Due casi di queste settimane di allevatori che dovranno chiudere, o trasferirsi, per le lamentele dei “neo-rurali”.

di Michele Corti



(27/12/2020) I rapporti città-campagna (campagna intesa in senso lato di aree che hanno mantenuto caratteristiche rurali) continuano a essere oggetto di conflitti sociali. Le città proclamano di voler essere sempre più “verdi”, di voler praticare l’agricoltura urbana, mentre molte aree ex-rurali tendono a rurbanizzarsi, ovvero ad assumere caratteri (e modi di vita) sempre più urbani. Questa apparente omogeneizzazione, in realtà, non appiana i conflitti. Un primo aspetto riguarda le aree ex rurali “gentrificate”. In sociologia con gentrificazione (da gentry = piccola nobiltà), si è inteso, almeno in origine, il processo di trasformazione di quartieri urbani popolari in zone residenziali di lusso. E’ stato poi esteso alle trasformazione di aree rurali prossime alle città o collocate in zone “amene” in zone di abitazioni (prima o seconda casa) di persone abbienti di origine cittadina.
La gentrificazione può avvenire sia attraverso nuove costruzioni (ville) che la ristrutturazione di edifici rurali. In qualche caso le zone gentrificate mantengono una funzione produttiva agricola. E’ il caso di rinomate zone vitivinicole dove il paesaggio vitato, la presenza di cantine, enoteche, ristoranti alimenta un turismo residenziale e non. In queste zone è frequente anche l’acquisto di terre e cantine da parte di nuovi arrivati. Quanto rimanga di “rurale” in questi contesti è comunque dubbio.


Ironia ma anche reattività contro gli atteggiamenti prepotenti dei cittadini. Il cartello dice: Attenzione, villaggio francese, entrate a vostro rischio e pericolo. Abbiamo delle campane che suonano regolarmente, galli che cantano molto presto, dei gruppi di animali che vivono vicini e alcuni di essi hanno dei campanacci al collo, degli agricoltori che lavorano per darvi da mangiare. Se voi non sopportate queste cose non siete nel posto giusto.  In caso contrario abbiamo  buoni prodotti del territorio, degli artigiani ricchi di talendo e  desiderosi di farvi scoprire le loro capacità e le loro produzioni.

Tolto il caso della vitivinicoltura pregiata , la compatibilità tra  la continuazione della funzione produttiva agricola e la trasformazione della campagna/montagna in zona turistiche e/o residenziale di lusso è problematica. Dove il turismo prevale e le residenze (principali o secondarie) dei cittadini si infittiscono, si assiste a una vera e proria marginalizzazione ed espulsione della attività produttive che diventano “fastidiose” mentre i nuovi residenti chiedono serivzi e infrastrutture estranee alla dimensione rurale ma coerenti con la domanda di leisure (sport, intrattenimento).
Da questo punto di vista vi è ovviamente una grossa differenza tra quello che succede in Francia e in Svizzera e quello che si verifica da noi; una questione di cultura e di retaggi storici (risalenti all’età comunale), che ha condannato all’inferiorità il mondo rurale italiano. Così, se a fianco dell’albergo svizzero c’è una bella concimaia, in Italia le stalle e le aziende agricole sono state espulse dalle aree edificate cresciute disordinatamente sulla base del calcolo speculativo e clientelare. Anche in montagna. 
Quello di cui vogliamo parlare qui in modo più specifico, è però un fenomeno  più recente, legato alla “neo-ruralità”. Con questa espressione ci si riferisce al movimento di “fuga dalle città” che riguarda chi intende intraprendere attività rurali (agricoltura, turismo rurale, artigianato) ma anche coloro che puntano alla mera residenzialità, a vivere di pensioni o di telelavoro, acquistando al centro commerciale anche il prezzemolo e le altre aromatiche e intrattenendo rapporti limitati al minimo indispensabile con gli “indigeni” (abituati al fatto che in città i vicini di casa non sai neppure chi siano).
Entrambe queste categorie puntano comunque a godere della “campagna autentica” (nelle loro aspettative), quindi a insediarsi non dalle aree gentrificate, ma dove il tessuto sociale ha ancora un’impronta rurale palpabile (anche se pochi, anche qui, traggono il loro reddito dall’ attività primaria). Ritengo importante distinguere i “neo-rurali” anche sotto un’altro criterio: l’atteggiamento verso la cultura rurale e verso la comunità locale. Esso  può essere rispettoso o di supponente distacco. Nel primo caso avremo  adattamento (magari un po’ problematico) alle convenzioni, alle usanze, al modo di vita locale, nel secondo continue lamentele per i “disturbi”, i “fastidi” della vita rurale che deve adattarsi alle loro esigenze, alla loro moralità.
Un atteggiamento arrogante e presuntuoso si può trovare anche in chi arriva per fare l’agricoltura, magari biologica, guardando dall’alto in basso i trogloditi vetero-rurali che, condizionati dal mercato e dagli apparati, hanno dovuto piegarsi alla chimica o che perseguono nelle pratiche realmente tradizionali, senza entusiasmarsi per la biodinamica e altre “agricolture naturali”, nate in altri contesti e da noi abbracciate spesso da elementi radical-chic.
Il “neo-ruralismo” di stampo colonialista interagisce negativamente con i membri della comunità locale, specie con chi svolge attività agricola. I “neo-rurali” si sono fatti un’idea idilliaca della campagna, dove il tempo “si è fermato” e tutto deve corrispondere a un’immagine da presepe (salvo poi lamentarsi se manca qualcosa che in città avevano). Tutto quello che non si allinea alla loro visione preconfezionata di iddilio rurale è per loro motivo di fastidio, irritazione, che si trasforma in lamentela, che diviene protesta, che si traduce in denunce per violazione del codice civile o penale. Anche in Francia (ma in tanti altri paesi) è così.

I cittadini sono incapaci di vivere nella Francia rurale:perché sta crescendo l’ira della Francia rurale. In Francia si sono registrate proteste dei neo-rurali contro il rimorte delle macchine agricole, il canto dei galli e dei grilli, il gracidare delle rane, il numore del gioco delle bocce, il suono delle campane delle chiese, quello dei campanacci delle mucche.

Tra le idee preconcette della “campagna ideale” c’è quella del silenzio. Tutto quello che il “neo-rurale” sopportava in città sembra averlo magicamente dimenticato nella “nuova vita”. Il sonno del “neo-rurale” è turbato da un cane che abbaia, da un gallo che canta, da un contadino che accende il motore della trattrice, dal campanaccio di un animale al pascolo. Apparentemente il “neo-rurale” desidera ritmi lenti, poi si spazientisce se i servizi non gli vengono erogati in tempi rapidi, come in città dove tutti corrono. I rurali sono “lenti”, “pigri”, fanno rumore e sporcano (gli animali che passano su una strada, il mezzo agricolo che lascia una traccia di fango sulla strada passando da un campo e l’altro).Il “neo-rurale” mostra insofferenza per tutti i “disturbi” che gli arrecano i rurali e, in specie, i contadini, ma non si accorge dei fastidi che egli reca – ben più gravi – alla comunità insediata e al paesaggio. Accanto a ristrutturazioni rispettose dei fabbricati pre-esistenti vi sono anche gli stravolgimenti (colori, materiali, variazioni volumetriche). Il segno più visibile dell’affermazione di una volontà invadente, prepotente e invasiva sono però le cancellate entro le quali il “neo-rurale” si rinserra per isolarsi, per affermare un senso di esclusivismo proprietario che, specie in montagna, è estraneo alla cultura locale e, soprattutto, non funzionale.


Anche un semplice fabbricato rurale, quando sono rispettate le sue caratteristiche diventa una dimora  molto graziosa

Il “neo-rurale” afferma i suoi diritti alla “privacy” stravolgendo le consuetudini. Cessata la coltivazione, segato l’ultimo taglio di fieno, gli animali potevano pascolare in gregge comune i terreni privati. Grazie al fatto che non vi erano barriere fisiche (che riguardavano solo certe coltivazioni più a rischio come orti, frutteti, vigneti). Tutt’oggi molti rapporti sono regolati da consuetudini e da accordi verbali informali. Senza questo senso residuo di collaborazione comunitaria minimalista  sarebbe già tutto abbandonato.



Oltre all’effetto estetico, la cancellata è anche pericolosa per gli animali e per gli sciatori. Ma questa privatizzazione morbosa lede anche i diritti di passaggio (anche quando formalmente tutelati). Per il “neo-rurale”, che assegna importanza alle infrastrutture di comunicazione solo se asfaltate e, possibilmente, a varie corsie di marcia, il “sentierino” è qualcosa di senza importanza, anche quando era una strada comunale. E chiude il passaggio. Va anche detto che i comuni e certi “indigeni” non danno buoni esempi.


Purtroppo il “neo-rurale” non si limita a rinserrarsi dietro le cancellate ma, entro il perimetro del suo dominio, che lo fa sentire un “signore di campagna” in sedicesimo, stravolge totalmente le caratteristiche del luogo. Lo fa utilizzando piante esotiche e velenose al posto di quelle, utili e belle, che piantavano i contadini: sambuco, noce, pero, frassino. Ecco allora la siepe di lauroceraso, che pare di plastica ed è molto velenosa per animali domestici e selvatici, le erbe della pampa, i cipressi dell’arizona e le araucarie. Piante orribili, che non cambiano mai nel ciclo delle stagioni. Aggiugasi enormi barbecue. A onor del vero tutti questi vezzi non sono esclusivi dei “neo-rurali” cittadini ma anche dei “neo-rurali” autoctoni che hanno ereditato i fabbricati rurali dai vecchi ma che – trasferitisi in paesoni a valle o in città – devono marcare il loro nuovo status di non-più-agricoli scimmiottando in modo subalterno e a volte caricaturale le mode cittadine (il che il fa classificare sprezzantemente dai cittadini quali “villani rimessi” o “cafoni”). Molto ci sarebbe da dire sugli intonaci, sui colori degli stessi, sulle decorazioni che tolgono decoro all’edificio originale (perline, rivestimenti lapidei ad opus incertum). La moda del finto chalet, o della villa con patio e altre forme di kitsch, estranee al contesto dell’architettura locale, sono ancora in voga, purtroppo. A giudicare dai motivi delle proteste di turisti e “neo-rurali” (spesso non facilmente distinguibili tra loro), ci sarebbe quasi da sorridere. Se la prendono persino con i grilli e le rane. Invece il problema è serio e ve lo farò capire con due esempi molto recenti.

Due casi che fanno riflettere
Il primo caso mi è stato segnalato da un allevatore di capre lombardo. La sua azienda si trova a 1200 m. Dall’azienda le capre hanno accesso direttamente ai pascoli alle quote superiori.  Stabilita da ormai parecchi anni l’azienda non ha mai avuto particolari problemi. Quest’anno, però, è successo un fatto nuovo, da mettere in relazione con il Covid e la “fuga in campagna”.  L’allevatore e la compagna erano gli unici residenti  della località, ex maggenghi utilizzati  dagli abitanti del sottostante paese solo per alcuni mesi all’anno. Le ex baite, trasformate in residenze secondarie si popolavano solo in estate. Invece due famiglie hanno deciso di venire a vivere stabilmente… e a lamentarsi. E’ fenomeno della residenza secondaria che si trasforma in principale per chi vuole “fuggire”. Di seguito è arrivata un’ordinanza comunale e un verbale che contestava il pascolo abusivo in violazione dell’ordinanza stessa (sanzione penale), più altre due contestazioni amministrative (omessa custodia di animale e pascolo su terreni privati). Da dieci anni l’allevatore pascola e sfalcia i terreni dei privati con accordi scritti o verbali. In un’azienda come questa dove, pur lavorando a tempo pieno, i titolari hanno già il loro da fare (c’è da fare il formaggio, segare i prati, pulire le stalle) l’obbligo di pascolo custodito, cui si sono dovuti conformare, fa traballare un precario equilibrio. Non è possibile assumere nessuno perché il comune affitta i pascoli agli speculatori, per incassare lauti affitti, e, senza i contributi per il pascolo, non è possibile pagare nessuno, neppure un aiuto-pastore. Come si vede l’azienda in questione è presa in una morsa tra il combinato della politica in materia di pascoli dell’amministrazione locale (che sfrutta un sistema sbagliato di cui è responsabile l’Unione Europea) e l’incapacità del neo-insediato di convivere con le capre che c’erano già prima (all’allevatopre, però si chiede di convivere con il lupo sparito da oltre un secolo). La soluzione: far chiudere l’azienda agricola. E pensare che i cittadini hanno il coraggio di redarguire gli allevatori che si lamentano del lupo: “c’era prima lui di voi”, non riflettendo che il lupo c’era, anche di più, nelle pianure, oggi occupate dalle aree urbane. Due pesi e due misure: ma il villico ignorante ha sempre torto (si ripete la favola del lupo e dell’agnello).

Veniamo al secondo caso. Ci spostiamo dal lago di Como ai colli orientali del Friuli. Qui, da anni, un pastore utilizza, con capre e pecore, i pascoli di una grande azienda (vigneti abbandonati per lo più). Quest’anno ha con sé dei cani da guardiania che gli sono serviti per il pascolo estivo in Trentino. Nel sito invernale li deve tenere chiusi per via dei cacciatori, ciclisti ecc. Gli animal-ambientalisti sono bravissimi a proclamare la convivenza con il lupo (“bastano i recinti e i cani”), poi, però, loro stanno in ufficio mentre i pastori si sorbiscono tutte le rogne derivanti dalla detenzione dei cani. In estate, sulle Alpi, l’impiego dei cani da guardiania si scontra con la presenza turistica, in inverno, quando i pastori scendono nei paesi o in pianura, la gestione del cane è ancora più difficile.
Tenuti rinchiusi per evitare problemi, i cani, ovviamente, abbaiano ad ogni rumore od odore non famigliare. Anche di notte perché se il cane da guardia è chiuso o legato, e non può effettuare alcuna ispezione, può solo segnalare da fermo, come deterrenza, che è vigile e presente. E qui arriva il “neo-rurale” che si è insediato, venendo via dalla città, in una ex casa colonica della stessa grande proprietà. In campagna l’udito diventa sensibile e a trecento metri con abitazione ristrutturata completamente (senza rispettare le caratteristiche della dimora rurale originale ma ben insonorizzata e coibentata), l’abbaio diventa molesto.

Ora, essendo un solo cittadino a lamentarsi, non si configura il “disturbo della quiete pubblica” ma, il cittadino si lamenta direttamente con la proprietà che ha lasciato in comodato i pascoli al pastore. Ancora una volta il “neo-rurale”, socialmente più influente, fa valere il suo disturbo sulla bilancia con un maggiore peso specifico rispetto alle esigenze del pastore. Da osservare che, in zona, sempre per problemi di lamentele per “disturbo sonoro” da parte della stressa persona, un agricoltore ha dovuto silenziare il “cannone” per allontanare i piccioni dal campo di girasole. Notare anche  in questo caso la morsa della cultura  urbana che si chiude sul mondo rurale: gli animalisti impediscono di  controllare i piccioni e i lupi, gli agricoltori/pastori devono adottare delle misure alternative allo schioppo (per non offendere la sensibilità urbana animalista), le misure adottare offendono però la sensibilità acustica dei cittadini insediati in campagna. E il cerchio si chiude, il contadino soccombe, getta la spugna. Obiettivo raggiunto.

La vera resistenza

Vera resistenza è far vivere la montagna colpita dallo spopolamento. Ma vera resistenza fu anche quella dei montanari che, durante la guerra civile, furono vittime delle opposte fazioni. Fazioni della stessa matrice ideologica urbana, ugualmente distanti dai valori della gente di montagna. I tedeschi e i militi delle varie formazioni della Rsi bruciavano le stalle…

Schiacciati tra lupi e registratori di cassa

(la soluzione finale per le piccole aziende di montagna) “Ormai è peggio di una dittatura, vogliono far chiudere tutte le piccole aziende agricole di montagna”. Così conclude questo nuovo intervento Anna Arneodo. Il suo grido di dolore è circostanziato. In altre occasioni ha indicato il lupo come uno degli “strumenti” con i quali si vuole…

Lupi ospedalizzati, cervi condannati all’inedia

Per l’ambientalismo la “natura” è un concetto flessibile. Solo loro, gli ambientalisti – come gli antichi sacerdoti  – sono  autorizzati all’interpretazione “autentica” dei dogmi. Da una parte, in nome della “selezione naturale”, non si interviene e si lasciano morire di fame migliaia di cervi, dall’altra si risucchiamo milioni per foraggiare i centri di recupero e…