Archivio mensile:dicembre 2019

L’esodo culturale uccide la montagna


Con questo intervento il dibattito tra montanari sul futuro della montagna entra nel vivo. Rispondendo ad Andrea Aimar (val Maira, CN) , Carminati dalla valle Imagna bergamasca,  mette l’accento sui processi  culturali oltre che su quelli socio-economici. Vero che la montagna è colonizzata , che le normative la penalizzano, che è priva di rappresentanza politica, ma il problema è anche l’autocolonizzazione, l’esodo culturale che – altrettanto negativo dello spopolamento demografico – rende i montanari estranei alla montagna pur continuando a risiedervi, ma senza più legami concreti e  simbolici con il territorio, con la memoria della comunità

 

SPOPOLAMENTO E SPAESAMENTO.

RIQUALIFICAZIONE E RICOMPOSIZIONE
DEI FONDI PRODUTTIVI IN MONTAGNA
di Antonio Carminati

 

(21.12.19) Ho letto recentemente due articoli pubblicati sul blog Ruralpini Resistenza rurale di notevole interesse per coloro che della montagna non ne hanno fatto solo un caso di studio, bensì rappresenta il campo quotidiano di espressione della vita e del lavoro.

In Alta Val Maira un giovane, Andrea Aimar (vai a vedere qui l’intervento), si interroga sul futuro della montagna e denuncia lo stato di abbandono, da parte del mondo della politica e delle principali istituzioni sociali, in cui versano le vallate alpine e prealpine, con i rispettivi insediamenti umani che nei secoli hanno agito da presidio e centri di umanizzazione dell’ambiente. La montagna soccombe perché vengono meno i suoi abitanti, i montanari. Questo Andrea lo ha compreso bene. Il grande esodo verso le aree urbanizzate di recente formazione, distribuite nelle fasce pedemontane, le stesse periferie urbane e i principali centri industriali, è cessato nei recenti anni Ottanta del secolo scorso, quando intere famiglie hanno abbandonato le antiche contrade di monte per trasferirsi in città, soprattutto in forza della spinta propulsiva introdotta dai fenomeni di industrializzazione, urbanizzazione e scolarizzazione di massa. Quel vistoso fenomeno di spopolamento, registrato anche sul piano demografico, aveva sì saccheggiato alla montagna un’incredibile quantità di forza lavoro, ma soprattutto aveva sottratto alle terre alte quella centralità che avevano saputo costruire e mantenere nei secoli precedenti.


Emigranti dalla valle Imagna
Attualmente il processo in corso di rivisitazione della montagna non è più solo quello demografico – diverse aree montane registrano, infatti, un situazione di stasi – vistoso, concreto e drammatico, ma attiene più propriamente ai livelli di pensiero e soprattutto alla percezione da parte dei montanari del difficile rapporto con il loro ambiente di vita. Una relazione di appartenenza critica, con ferite che fanno ancora male, per certi versi invisibile, non per questo meno grave e pericolosa. Abbiamo ribadito più volte il concetto secondo il quale non basta vivere in montagna per considerarsi montanari. Anzi, accade a volte che i cittadini i me bàgna ol nas [ci bagnano il naso, ci superano], ossia risultano più attenti ai bisogni della montagna di quanto non lo siamo noi. Distratti. Assistiamo al giorno d’oggi non più a esodi fisici di persone, ma soprattutto di pensieri e progettualità: la montagna soffre, oltre che che per la malattia dello spopolamento, anche per quella dello spaesamento. Molti montanari hanno smarrito la strada, vivono una relazione di estraneità con il territorio, come se improvvisamente – dopo la spinta in avanti impressa dal boom economico del secondo dopoguerra e poi della crisi del modello di sviluppo industriale – si riscoprissero in un ambiente “altro” e quasi sconosciuto, difficile da governare senza applicare, anche quassù, i modelli di sviluppo e di governo propri della città. Viviamo in montagna, ma pensiamo e operiamo da cittadini.

Un centro commerciale in alta Valtellina
Le difficoltà rilevate dall’amico Andrea Aimar – che mi pare di aver sempre conosciuto – sono le stesse che viviamo tutti quanti, soprattutto coloro che dal lavoro in montagna devono ricavare un’entrata economica sufficiente, perché quassù non si può vivere solo di aria buona, per poi commuoversi di fronte a ineguagliabili paesaggi. Tali difficoltà riflettono l’atteggiamento di tipo coloniale messo in atto da realtà e forze esterne che non comprendono i bisogni reali dell’ambiente montano e delle popolazioni che lo abitano, tantomeno percepiscono il carico di umanità e di libertà delle espressioni culturali dei piccoli gruppi organizzati, resilienti sulle pendici delle loro montagne. Una politica coloniale che, negli ultimi settant’anni, ha interpretato la montagna come una terra di conquista, un serbatoio cui attingere robusta e generosa forza lavoro da trasferire altrove. Andrea, nella sua lettera accorata, ha elencato diverse criticità, soprattutto per il mancato riconoscimento, a tutti i livelli, della specificità della montagna, tanto sul piano produttivo, quanto su quello commerciale, amministrativo e dei servizi. Differenze e criticità dimenticate dalla politica. D’altra parte è pur vero anche che gli abitanti della montagna, oggi più che mai, appaiono disorientati, frazionati, si sentono soli e rinunciatari, in modo particolare quanti cercano di mantenere una relazione vitale e produttiva con il territorio. Privi di una loro specifica rappresentanza.

Processione nei prati a Fuipiano in alta valle Imagna
Quella che abbiamo oggi sotto gli occhi è una montagna già ampiamente saccheggiata e ancora assestata su posizioni difensive, che cerca disperatamente di sopravvivere, mantenendo quel poco che le è rimasto, aggrappata alle proprie rappresentanze municipali e alle organizzazioni sociali di base nei vari villaggi, la cui economia principale gravita ormai su centri occupazionali esterni. La sua posizione di retroguardia mette la montagna ancora nelle mani dei colonizzatori esterni, i quali la utilizzano per sperimentare i propri modelli di sviluppo, che il più delle volte con le terre alte hanno poco da spartire. Evidentemente l’abbandono delle attività agro-silvo-pastorali nel loro complesso, l’esodo fisico e culturale dei montanari, la perdita di memoria storica e il venir meno del bagaglio di conoscenze trasmesse dall’esperienza… costituiscono una grossa falla nei sistemi territoriali anche alle medie quote, impedendo o rallentando la generazione di nuove opportunità.

Sosta della transumanza verso la pianura a Locatello in valle Imagna
Ritengo che la montagna tornerà a vivere non tanto se le attività economiche e produttive sconteranno una diversa aliquota Iva, se ci saranno agevolazioni sull’acquisto e ricomposizione delle terre, oppure se il costo del lavoro dovesse essere abbattuto a favore dei piccoli allevatori o agricoltori,… – tutte questioni assai importanti e delicate, per l’ottenimento delle quali bisognerà ancora lottare – ma in primo luogo se i montanari riusciranno a recuperare la consapevolezza della loro esistenza, dei valori di cui sono portatori, nella continuità con una storia sociale ricchissima di situazioni, esperienze, conoscenze. Abbiamo di fronte a noi una montagna da ripensare e ricostruire pezzo per pezzo, dopo il terremoto sociale avvenuto nella seconda metà del secolo scorso, che ha letteralmente demolito il suo impianto costitutivo tradizionale, incominciando ad esempio, per quanto ci riguarda, dalle piccole pratiche zoo-casearie e agricole che, seppure sostenute in condizioni di svantaggio economico, hanno il pregio di segnare la strada e di dimostrare che non tutto è perduto. Dovranno essere innanzitutto i montanari a rigenerare la montagna e la politica dovrà rappresentare un accompagnamento graduale alle singole azioni di superamento delle condizioni generali di svantaggio. Per cui, carissimo Andrea, un’altra volta tocca ancora a noi rimboccarci le maniche – ma non è questo che ci preoccupa – per tenere aperti quegli spazi di autonomia, di libertà e di servizi che i nostri predecessori hanno saputo costruire da queste parti. Ostacolando quanti sostengono becere tendenze alla rinaturalizzazione di ampi territori, per i quali la presenza dell’uomo costituisce un problema: essi dimenticano che l’ambiente alpino e prealpino è un contesto fortemente antropizzato, dove i manufatti e la presenza dell’uomo, che ha modificato il volto dei versanti, costituiscono componenti essenziali e irrinunciabili del paesaggio. Facendo barriera contro coloro che riconducono l’esistenza solo ad una visione economicistica. Tutto ciò innesca processi pericolosi di marginalizzazione sociale, di degrado e dissesto ambientale, quando la montagna è interpretata come una grande periferia della città, una sorta di parco pubblico dove trascorrere il fine settimana o le vacanze. Nell’immediato tocca a noi sfruttare al meglio innanzitutto tutte le agevolazioni e le opportunità che ci si presentano dinnanzi. Se sapremo essere determinati e riusciremo a generare numerose micro azioni di economia in montagna, dal modesto allevamento zoo-ovi-caprino alle piccole colture estensive e alle numerose attività artigianali, sono certo che potremo coinvolgere tutta la popolazione alle nuove prospettive della centralità della montagna, dove dare vita a nuovi impulsi residenziali e produttivi richiamando pure l’attenzione di politici e istituzioni. C’è ancora molto da fare.

Mappa di comunità di Montenars, nel Gemonese
Un esempio di rigenerazione rurale è dato dalle Associazioni fondiarie, istituite e introdotte di recente per la ricomposizione dei fondi. Prendo spunto dal pensiero di Claudio Biei pubblicato di recente su Ruralpini (vai a vederlo qui). Non so se questo sia lo strumento migliore in montagna, sulla scorta, ad esempio, non proprio positiva, dei Consorzi forestali. Se non altro la questione solleva un problema non indifferente. Con la fine dell’antico mondo contadino e la consequenziale perdita della centralità della terra e del villaggio, a favore della fabbrica e della città, nella seconda metà del secolo scorso milioni di ettari di terra sono stati letteralmente abbandonati e ciò ha prodotto, in pochi decenni, due gravi guasto ambientali e sociali: la continua dequalificazione delle particelle catastali e la loro polverizzazione. In poco tempo i campi coltivati a vanga sono diventati prati, i prati stabili si sono trasformati in pascoli, i pascoli in boschi, i boschi un tempo oggetto di pratiche costanti di taglio colturale oggi sono diventate foreste impenetrabili e selvagge. Soprattutto il bosco oggi la fa da padrone sui versanti e arriva ormai a circondare e minacciare da vicino le contrade abitate. Insediamenti rurali robusti e ben compatti, come piccoli fortilizi contro il dilagare di evidenti situazioni di abbandono, molte volte essi stessi vengono attaccati dal medesimo triste fenomeno. La perdita di interesse verso la terra a scopo agricolo ha intensificato il processo di frammentazione degli antichi poderi, un tempo veri e propri centri di produzione familiare, in tante particelle catastali quanti sono stati gli eredi beneficiari, ciascuno dei quali divenuto proprietario di piccole porzioni di terra non più utilizzabili per la loro esigua dimensione. Ciò è avvenuto con la fine della famiglia contadina, quando cioè nessuno dei figli ha dato continuità al lavoro prevalente del padre nella stalla, nel prato o nel campo, preferendo l’occupazione in fabbrica, sui cantieri edili o nei servizi cittadini. Benvenuta sia, dunque, l’iniziativa delle Associazioni fondiarie, ma probabilmente da sola non basta, se non si introducono prima possibile azioni parallele di sensibilizzazione e interventi strutturali di sostegno ai singoli imprenditori agricoli, finalizzati alla riqualificazione fondiaria e a favorire la sua ricomposizione, per rimettere insieme i vari pezzi di un puzzle disfatto e ricostruire così il volto unitario di ambienti prossimi alla medesima proprietà.

Fienagione in valle Imagna
La montagna, si sa, è un ambiente fragile, ricco di ecosistemi locali generati pazientemente dall’uomo, quando nei secoli scorsi si è posto in relazione coerente con la natura, molti dei quali purtroppo oggi sono a rischio di scomparsa. È un ambiente da non sciupare, ma da conservare e difendere, per contenere gli effetti disastrosi prodotti tanto dallo spopolamento, quanto dallo spaesamento. La montagna continua a vivere in coloro che, nonostante le molte difficoltà, costruiscono col loro lavoro una relazione concreta e quotidiana con la terra e gli spazi della contrada dove essi abitano. Vive ogni qualvolta un montanaro, come ha fatto Andrea, s’interroga con onestà circa la propria collocazione nella storia e nella società rurale e riflette sulle condizioni più generali di resistenza. Vive quando il prato viene sfalciato, il bosco assorbe il rumore rabbioso della motosega e sui versanti l’estate pascolano le vacche. Continua a vivere quando genera relazioni solidali tra montanari, come il blog Ruralpini e altri canali di comunicazione, cui va la nostra gratitudine, si prefiggono tutti i giorni di promuovere e sostenere.
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TRANSUMANZA AMARA

 

Cosa serve proclamare la transumanza “patrimonio dell’umanità”? I pastori se lo chiedono, con molta amarezza, quando viene vietato a questo “patrimonio”, fatto di concrete vacche, pecore, capre, di transitare sulle strade (“per non sporcare”). Se lo chiedono anche quando i pascoli sono – grazie alle regole europee – accaparrati dagli speculatori. La transumanza che piace è quella che non disturba, che attira il turismo con eventi folcloristici, che catalizza i finanziamenti, che – come scrive Anna Arneodo –  “scorre con bellissime immagini sui media, che non puzza, che non sporca, che non porta con sé fatica, sudore, sofferenza, stanchezza”. Un intervento, quello di Anna, che merita di non rimanere un grido di dolore ma di  dar vita a un franco dibattito.

Transumanza: patrimonio UNESCO!

di Anna Arneodo (di Coumboscuro)


(17.12.19) Ho sentito con piacere la bella notizia: è un bel regalo di Natale! Mi riconosco in questo sogno di conquista di civiltà, di riconoscimento culturale, di riappropriazione di identità, di rimpianto “pietoso” di un mondo che non c’è più, ma che nostalgicamente ci appartiene.

Ma cos’è questa transumanza? È il ricordo scolastico di versi dannunziani “Settembre, andiamo. È tempo di migrare. Ora in terra d’Abruzzi i miei pastori lascian gli stazzi e vanno verso il mare”?


È una bella foto di un fiume di schiene lanute o il suono festoso dei campanacci sbatacchiati da prospere vacche valdostane?


Oppure è la festa similfolcloristica di una finta transumanza ad una fiera di paese con finti pastori vestiti di camicie a scacchi e cappelli da cowboy?

Una transumanza che scorre con bellissime immagini sui media, che non puzza, che non sporca, che non porta con sé fatica, sudore, sofferenza, stanchezza.
 
La transumanza reale è fatta di pastori, di uomini e donne che ogni giorno faticano, si appassionano, si sporcano, si arrabbiano, si scontrano di continuo con questa società che corre in una direzione opposta e contraria alla loro, che li costringere ad essere – i pastori e non più i lupi – in via d’estinzione.


I pastori vorrebbero poter sognare un mondo bello di montagne verdi, fiumi di pecore, mucche, agnelli e vitelli, cani, campanacci, ma poi si scontrano con la burocrazia, i divieti, le tasse da pagare. «Sulle strade statali, dell’ANAS, con le bestie non puoi più passare!». Ma la transumanza, patrimonio dell’UNESCO, dove passa? Su Google, sul cellulare, sullo smartphone?

Nel momento stesso in cui il sistema costringe noi pastori e montanari a scomparire, a morire, innalza la nostra immagine stereotipa a “patrimonio dell’umanità”. Vergogna!
 
Anna Arneodo
Borgata Marchion 8/A- COUMBOSCURO
12020 Monterosso Gana- CN
017198744
meirodichoco1@gmail.com


Il grido di un pastore: “Non ci vogliono più!”


di Giuseppe “Pinoulin” (di Roaschia)


(20.09.19) Ho letto su La Guida, il nostro settimanale, che non vogliono più lasciar fare le transumanze. Io sono pastore, nato in transumanza tanti anni fa (e se le conto supero le 150: penso sia un record).

Ma quelli che fanno queste leggi sanno cosa sono e cosa vogliono dire? Sanno chi sono i veri custodi delle nostre montagne? Sono i pastori, i veri amanti degli animali, non gli animalisti che non hanno mai avuto una gallina, ma solo cani. Essere pastori vuol dire fare un lavoro duro senza mai fare ferie per amore degli animali. Ma sapete cosa vuol dire vietare una tradizione fatta da migliaia di anni? Le nostre città in questi anni sono piene di cani e i muri delle case sono tutti gialli e c’è una puzza che fa male. Però se non hai un cagnolino non sei nessuno e – lasciatemelo dire – è uno schifo anche per la salute dei bambini.


Sulle montagne abbiamo già il problema dei lupi che i miei colleghi pastori devono già mantenere. A me i lupi non piacciono, ma meno ancora sopporto chi li protegge. Sono un nostalgico, pastore e ho pagato anch’io le stragi fatte dai lupi.

Le nostre montagne, coltivate da contadini, margari e pastori, dai veri montanari, erano belle non distrutte dal turismo o patachin di massa. Ora, abbandonate da pastori e montanari, divengono pericolose per incidenti e alluvioni. La montagna è bella ma non va solo calpestata e si devono rispettare anche le persone che lavorano, con poche comodità e tanta fatica e con affitti mostruosi e come tetto le stelle, sempre al pericolo di fulmini o massi che ti vengono addosso.

Le industrie inquinano l’aria e i fiumi, ci fanno respirare veleni, l’odore di una mandria o di un gregge è un profumo, non adoperi la mascherina, perché è salute.
Voglio dire ai nostri amministratori: fate cose belle, meno scandali, amate e non sprecate il denaro pubblico che non è vostro, siate responsabili e pensate anche a chi, meno fortunato, mangia la paglia, ma forse vi ha anche votati.

Nelle ultime transumanze ho notato tanti giovani non del mestiere che per un giorno sono felici di fare un lavoro che noi facciamo tutti i giorni. Ricordate che il pastore e il margaro non vanno in ferie: le ferie le fanno tutte quando sono anziani e non possono più lavorare. E non fanno Natale, per servire chi mangia il
latte anche quel giorno, alle bestie non puoi portare il giornale e la TV al posto del fieno.

Le associazioni fondiarie

Rigenerazione rurale alpina: le associazioni fondiarie rappresentano uno  strumento prezioso ma ancora (quasi) sconosciuto




Le Associazioni fondiarie rappresentano uno strumento prezioso per innescare processi rigenerativi del tessuto rurale montano. Nate per contrastare la polverizzazione fondiaria – ostacolo a qualsiasi azione di rilancio dell’agricoltura di montagna – rappresentano una leva per il recupero dei terreni abbandonati, per favorire l’occupazione giovanile e il reinserimento professionale di lavoratori espulsi da altri settori produttivi. Nate in Francia, introdotte dapprima in Piemonte, sono state normate anche in Lombardia e ne sono sorte anche in Valtellina. Un giovane presidente di una Asfo di Barge, in provincia di Cuneo, ci spiega cosa sono.


di Claudio Biei*

(17.12.19)Asfo è  l’acronimo di Associazione Fondiaria che nasce da una affermata legge francese. Andrea Cavallero, Professore della Facoltà di Agraria di Torino  e tecnico pastorale di lunga esperienza, è riuscito a far accettare dalla Regione Piemonte una proposta simile, ma adattata alla situazione italiana, e il 2 novembre 2016 è stato  approvato dal Consiglio Regionale il testo della legge 21  sulle Associazioni Fondiarie. Successivamente altre due Regioni, Friuli e Lombardia, hanno  seguito l’esempio piemontese.


Claudio Biei con il prof. Cavallero

Il testo della legge e i regolamenti applicativi sono chiari e pongono i fondamenti per un ampio progetto di recupero territoriale, combattendo l’abbandono dei terreni e la loro drammatica polverizzazione catastale, dovuta a infinite successioni familiari che hanno nell’ultimo secolo portato gli eredi a ricevere piccole porzioni di terreno non utilizzabili  per l’esigua dimensione e quindi successivamente abbandonate. 

L’Asfo è  un associazione agro-silvo-pastorale, senza scopo di lucro, in cui i proprietari di terreni pubblici e privati, conferendo il proprio terreno o parte dei propri terreni , diventano soci e partecipano in modo collettivo alla gestione del territorio e al suo recupero ambientale ed economico, senza perdere il diritto di proprietà dei loro terreni concessi all’ ASFO stessa. Potremmo quasi affermare che si sono costituite delle “Società di particelle” invece che “Società per azioni” !.

Le Associazioni Fondiarie si dotano di uno  statuto redatto secondo le linee guida della Legge 21 e  approvato dai Soci, i quali, tramite la sottoscrizione di un verbale di adesione regolarmente registrato, fondano l’ Asfo,   eleggono il presidente e 5 membri del consiglio, rendendo operativa l’Associazione stessa. 

Questo importante ed innovativo strumento ha la capacità  di restituire all’Agricoltura appezzamenti di terreno abbandonati, facilitare la gestione di pascoli in disuso o abbandonati, implementare la gestione forestale restituendo al territorio un ‘aspetto paesaggistico dignitoso ed evitando gli incendi boschivi, ma soprattutto può consentire di combattere i  crescenti fenomeni di dissesto idrogeologico e  di consumo di suolo.  L’Asfo può dare il suo contributo fattivo nel contrastare l’inquinamento, tramite una migliore gestione ambientale, impostando gestioni agricole sostenibili. Può migliorare la conservazione delle vie di accesso alla montagna e ai fondi.

Perché Fondare una Asfo sul vostro territorio è  conveniente? 

Perché Asfo restituirà dignità al vostro territorio, potrà dare valore al terreno degli associati. Perché intercettando Bandi Pubblici e percependo canoni dai gestori dei terreni, l’ Asfo investirà i ricavi sul territorio aumentandone la fruibilità  e  la capacità  di generare economie. 

L’ Asfo può recuperare e trasformare globalmente vaste aree di territorio usando come strumento Piani di Gestione approvati dalle aree tecniche  competenti: piani forestali, piani pastorali o piani di gestione aziendale.

L’Asfo può innescare o rigenerare nuove forme di economia tramite gruppi di cooperazione  e  integrazione fra imprese, anche geograficamente  lontane fra loro,  implementando le produzioni di latte e carne di qualità da solo pascolo, fieni locali polifiti  e, in modesta quantità, e per certi periodi soltanto, con la somministrazione di integratori costituiti da prodotti granellari, cereali e leguminose, germinabili offerti interi dopo 24 ore di ammollo in acqua, conservando le caratteristiche nutritive di gran pregio del germe di ciascun seme.

Il Monviso visto dai terreni abbandonati di Barge

L’ Asfo può  soprattutto far comprendere ai cittadini l’importanza  della gestione AgroSilvoPastorale dei territori marginali e di montagna, dando la giusta importanza e dignità  ad un settore troppo spesso ancora ritenuto di scarso interesse, ma adeguatamente e sapientemente valorizzato a nord della Alpi.

 Con l’Asfo si può rendere multifunzionale l’agricoltura e  far dare il giusto premio a chi  cura il nostro paesaggio,  preservandoci dai rischi derivanti dall’incessante abbandono e forestazione selvaggia. Le Amministrazione pubbliche devono sentire assolutamente  questo dovere  e le Asfo portando  esempi di corretta gestione territoriale, potranno aiutare la Politica a capire dove orientare gli interventi di sostegno all’agricoltura ad elevata valenza ambientale e fruitiva.


Castione Andevenno (Sondrio): sede della prima Asfo lombarda

*CLAUDIO BIEI – ASFO Valle Infernotto CN – Cell.3664981271

qui la legge sulle ASFO (2019) della Regione Lombardia

Un giovane si interroga sul futuro della montagna


Santuario di San Magno a Castelmagno, alta val Grana

(13.12.19) Essere consapevoli dei termini di un problema rappresenta già un primo passo per una possibile soluzione.  Nella lettera che qui riportiamo, Andreaun giovane di una valle della provincia di Cuneo, sostiene che – al di là dei proclami – la politica (Roma e Bruxelles) vuole lo spopolamento della montagna. Porsi rispetto alla politica senza illusioni, con realismo, significa poter elaborare strategie adeguate a contrastare certi disegni. Quantomeno provarci, in un quadro di scenari aperti che concede anche qualche chances.  

La montagna vista da un giovane dell’alta val Maira (Cuneo)

di Andrea Aimar


Sono un ragazzo di 25 anni originario di un piccolo paese di un’ ottantina di persone a 1270 metri, Celle Macra, in alta valle Maira, in provincia di Cuneo. Nipote di margari, ho ereditato il grande legame con questa terra, la montagna, in cui ho radicato il mio stile di vita, un ponte indivisibile tra la vita del montanaro ed il territorio stesso. Appassionato di cultura alpina, fin da ragazzo ho preso coscienza del grande valore autentico delle nostre tradizioni, la cultura millenaria che le vallate sanno custodire in uno scrigno prezioso, più comunemente chiamata  “cultura Occitana”, patrimonio insormontabile di questo arco alpino.

Consigliere comunale ormai al secondo mandato, ho imparato a osservare con occhi diversi la realtà delle cose, sopratutto in ambito politico e comunitario. Serate intere passate a seguire con attenzione convegni sulle più svariate argomentazioni riguardanti la montagna: dalla salvaguardia del dialetto locale, alla valorizzazione delle vie agrosilvopastorali, dalle ricerche di toponomastica all’artigianato autoctono, dallo sviluppo agricolo-caseario ai progetti e bandi di interesse rurale. Tutte argomentazioni sempre ben illustrate da chi, della montagna, ne fa un punto di riflessione, pur essendo la gran parte delle volte, gente che in montagna, aimè, né ci vive, né ci lavora. 

Da molti anni leggo con interesse gli slogan “Salviamo la montagna” oppure “Il ripopolamento della montagna da parte delle nuove generazioni”. Sì… ok… ma la mia domanda è: come?? Quesito le cui risposte, da parte delle persone, in teoria, competenti sono fatte di progetti, studi di fattibilità e domande di contributi, delegati a enti spesso del fondo valle, ai cui vertici resta semplice parlare di sviluppo della montagna, quando per la montagna ci lavorano, senza viverla di prima persona. È tragico, dal mio punto di vista, che la quasi totalità dei piccoli comuni montani, sono appesi a un filo demografico delicatissimo, dove la maggior parte dei residenti, è in una fascia d’età superiore ai 55 anni. Quale futuro? In una riunione avuta poche settimane fa sugli Ecomusei della Regione Piemonte, ho espresso il mio parere, che finché la politica italiana, da Roma, ed Europea, da Bruxelles, NON vuole aiutare questi territori ormai quasi emarginati, è insostenibile che le nostre piccole comunità riescano ancora per molto a galleggiare in un mare di burocrazia indegna in un territorio talmente vasto, ed importante, come la montagna, con i suoi piccoli borghi, e la gente che lì ci vive. 

Non basta che la montagna sia bella, per viverla, ma bisogna poterne trarre anche un entrata economica sufficiente. Perché, solamente di aria e sole, non ha mai vissuto nessuno. Mille sono gli argomenti in cui non vedo risposte di salvataggio, come è sbalorditivo come una piccola attività commerciale di un paesino a 1300 metri, paghi la stessa IVA come un esercizio di fronte al Pantheon o in piazza San Marco. Perché, quella piccola attività, non è solo un esercizio commerciale, ma in molti casi, rimane il fulcro della comunità, per varie motivazioni. Oppure che un giovane titolare di un azienda agricola di un’ottantina di capi ovini paghi gli stessi contributi Inps di un azienda del Torinese composta da un allevamento di 700 bovini… perché nel primo caso, le stesse rate incidono non solo in modo parziale nello sviluppo aziendale, di più! Non è possibile che gli atti notarili per l’acquisto di una particella di terreno di 300 m quadrati siano equivalenti a un atto d’acquisto di decine di ettari nelle terre del Barolo! Come è critica l’assunzione di un dipendente in un attività a conduzione familiare, dove le imposte sono alle stelle. e basta con la storia del “Salviamo la Montagna”, quando della montagna, si vuole al più presto, da parte della politica italiana, un veloce abbandono inesorabile.


Andrea Aimar con il nonno materno, Biasin di San Michele di Prazzo

Molto spesso assisto a discussioni del tipo: “… e ma il sindaco non ha tagliato l’erba, e ma il comune non ha tolto la neve, e ma il comune perché non restaura quello, e ma perché non si fa nulla!”. E tra me penso, “perché invece di parlare non provi te in prima persona, cosa vuol dire l’amministrare un comune composto ormai da più poche unità, le cui finanze sono anno dopo anno sempre più ristrette?”. Il rendersi utile nella collettività penso sia un tassello fondamentale per l’avanzamento di queste comunità, realtà ampiamente distanti dalle grandi città del fondovalle.

Che ne sarà della montagna? Finché piccoli produttori lattiero-caseari,che ci mettono ogni giorno tutta la loro passione nello svolgere il proprio lavoro, potranno competere contemporaneamente con centinaia di tir stracolmi di latte estero? Che ne sarà delle fienagioni dei prati di alta quota sfalciati tutt’oggi, nella maggior parte dei casi, con le intramontabili BCS, quando il fieno francese e svizzero ci fa risparmiare anche di tempo e di fatica?  Che ne sarà dei piccoli forni delle valli, quando nei supermercati di città servono semplice pane industriale? Tutto questo mi dispiace, nel vedere come poco siano valorizzate quelle persone nelle loro attività che danno il massimo, per far vivere un territorio così bello, come le vallate del cuneese. Penso, che  ciò che incentivi ancora le nuove generazioni, non sia più tanto la visione di chissà quale semplice futuro, ma il vivere al pieno gli anni, immersi in ciò che ci fa stare bene, dove ogni gesto, ogni sforzo, e ogni ricompensa fatta in questi territori, valga mille volte di più di una vita monotona in quale può essere la realtà delle città. Ma forse sarebbe l’ora di dare una svolta a questa bilancia ormai in bilico, tra la pianura e la montagna intendo, perché se andiamo avanti così, il vivere in montagna, non si rimane più autori di scelte, ma veri eroi.


Concludendo: quando un territorio perde la sua gente, penso che qualcosa inizia a morire. E non basta guardare le valli dalla finestra di casa per poterle dare una speranza. Servono misure concrete atte a permettere che una famiglia possa vivere umanamente, senza il bisogno di addentrarsi in chissà quale avventura!

Ogni vallata è differente, e non tutti i luoghi sono così al lastrico ringraziando, ci sono attività e cooperative che negli anni hanno valorizzato molto sul territorio, enti che hanno investito grandi risorse, ne potevano essere un esempio le ex comunità montane, ma ogni volta che in una borgata manca un anziano, capisco che quel vuoto insostituibile è una tessera fondamentale della comunità che si spezza, ogni volta che un giovane scende a lavorare a valle, mi rendo conto che una persona in meno presente sul territorio ha un incidenza enorme, e che a ogni nevicata improvvisa sempre più grandi sono i disagi, che concatenandosi con l’ormai esile tutela del territorio di media montagna, scaturisca disastri e dissesti ecologici non indifferenti, quando tronchi, cedimenti e fiumi giungono a valle in giornate di pioggie intense come i giorni scorsi. La mia non è una visione grigia della realtà, ma è un campanello d’ allarme reale al quale forse sarebbe bene dare più peso. Perché se dall’alto non si prendono misure vere, saremo noi giovani, ed i nostri figli a subirne le conseguenze.

L’attuazione della “Legge sulla montagna” emanata dall’On.Senatore Carlotto nel lontano 1994, approvata in Parlamento, ma mai applicata, penso sia una buona linea guida da iniziarne a seguire come pure l’inserimento della pluri attività alpina che è da oltre 40 anni che se ne parla o l’accorpamento dei piccoli comuni di montagna con una mirata ed energica organizzazione amministrativa. Perché le belle parole rendono felice chiunque, ma di questo passo a pericolo d’estinzione non sono più gli animali selvatici, ma i montanari. 

Colgo l’occasione per invitare tutti coloro che nella montagna ancora ci credono.. tenete duro!

Guarda qui la Photo gallery dell’alta val Maira fotografata da Andrea

Sotto: La pagina dedicata all’intervento di Andrea e l’intervista apparsa il 5 dicembre sul Corriere di Saluzzo, settimanale molto diffuso