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Aria fresca in Valtellina (agroalimentare)


  Nell’estate 2019, due giovani di Sondrio, che stavano ancora scrivendo la tesi in economia del management, hanno lanciato una start-up di e-commerce alimentare che ha avuto successo. Pensata inzialmente con raggio provinciale, al massimo regionale, oggi Pascol.it
 consegna in tutta italia carne fresca entro tre giorni. Il consumatore sceglie la razza (entro un ampia gamma) e l’allevatore. Quest’ultimo riceve prezzi equi nettamente superiori a quelli offerti dai commercianti. Come si inserisce questa esperienza nel sistema agroalimentare valtellinese? Perché ha avuto successo? Quali conseguenze positive per il sistema pascolivo? 


di Michele Corti

(23/01/2021) L’iniziativa di due ventenni, Federico Romeri di Albosagga e Nicolò Lenoci di Sondrio non ha forse avuto l’attenzione che merita. Quindi ne parliamo volentieri oggi che è decollata e si sta consolidando.  Si pensa sempre che , anche in ambito agricolo e alimentare servano sempre consistenti capitali. In questo caso sono state più importanti le idee, un progetto, un modello imprenditoriale ben preciso. Quanti nella conformista Valtellina, dove i modelli di riferimento dell’agroalimentare sono le aziende industriali e la catena di ipermercati Iperal, avrebbero scommesso su due giovani che, aperta la partita Iva nel luglio 2019, hanno iniziato – mentre scrivevano la tesi –  a sperimentare commercializzando la carne di  un unico bovino ripartita in pacchi da 10 kg? Va detto che Federico era già in contatto con degli allevatori del suo paese perché la famiglia acquistava la mezzena direttamente dai produttori. Si trattava di rapporti personali da produttore a consumatore; per il resto i due giovani erano del tutto estranei alla realtà agricola e agroalimentare valtellinese. Una circostanza che li ha sottratti ai condizionamenti di un sistema che avrebbe, se coinvolto, messo “il cappello sopra” al progetto e lo avrebbe ricondotto nell’alveo  “istituzionale” facendogli perdere, spontaneità, e slancio. Al sistema non piace che qualcuno prenda iniziative che emancipino produttori e consumatori dalle filiere tradizionali, che si saltino consorzi, cooperative, associazioni, organizzazioni professionali, camera di commercio. Probabilmente la velocità di crescita ha impedito al sistema di mettere in tempo i bastoni tra le ruote.
Infatti la crescita della start-up è stata inarrestabile. Da un fornitore di Albosaggia (Attilio Gusmeroli) si è passati a 30 fornitori, ancora per la maggior parte valtellinesi ma in parte anche di altre provincie lombarde (Bergamo, Lecco, Brescia, Mantova). Inizialmente hanno venduto con il canale dei social (Facebook, Whatsapp, Instagram) poi hanno attrezzato un sito di e-commerce che , nel 2020 è arrivato alla versione “matura” che è online.  Nel frattempo i due si sono attrezzati con un furgone per le consegne in provincia che vengono effettuate in un giorno ma che rappresentano una quota minima del giro d’affari. La Valtellina non solo non ha aiutato la start-up ma l’ha anche osteggiata. I soci investitori sono stati il loro professore, il docente della Cattolica di Strategie di impresa Luigi Geppert, Olmo Falco, un giovane “imprenditore seriale” di Biella che sostiene start-up e una biologa di Lecco.



Quello che doveva essere un raggio di consegne locale e poi regionale si è allargato all’Italia intera dove le ordinazioni arrivano in confezioni sottovuoto mantenute refrigerate entro tre giorni. Dai pacchi di 10 kg Pascol è passata a box da 3, 4 e 10 kg e oggi si possono ordinare singoli tagli, carne per hamburger ecc.  Nel paniere è entrata anche la bresaola di carni a Km0 dello chef Masanti (il Cantinone di Madesimo), top di gamma della qualificata produzione artigianale dell’alta Valchiavenna (patria della bresaola, anche se poi è diventata un prodotto industriale “tipico” IGP della Valtellina come spieghiamo nell’approfondimento sotto). Senza conservanti, coloranti, antiossidanti, zuccheri aggiunti, a lunga stagionatura di almeno tre mesi. Il prezzo è nettamente inferiore a quello di altri canali commerciali.

Nel giugno 2010, a Sondrio, è stato aperto un punto vendita in galleria Campello nel centro cittadino. Pascol ha investito più sulle risorse umane e sul rapporto con gli allevatori che sulle strutture. Hanno escluso la gestione del magazzino. Sono gli stessi macellatori che confezionano il giorno stesso della sezionatura (dopo adeguata frollatura). La frollatura è un particolare chiave per mettere a disposizione del consumatore carne di ottime qualità sensoriali, specie se si tratta di carne di animali che hanno usufruito nella loro vita di un ciclo di pascolo. Sul piano dei collaboratori la start-up è già arrivata a dieci persone. mentre i veterinari che controllano gli allevamenti (e stilano un punteggio di benessere animale) non lavorano a tempo pieno, lo zootecnico della start-up lavora full-time per seguire gli allevamenti offrendo una consulenza a tutto campo. 



La regola più importante riguarda il pascolo. Deve essere praticato per almeno 91 giorni all’anno. Molti degli allevatori, però, quelli che allevano in modo estensivo animali da carne o incroci, mantengono al pascolo i loro animali sei mesi l’anno. Vi è poi il tassativo divieto di Ogm.  Non solo tra la start-up e i produttori c’è un rapporto personale e continuativo ma essa favorisce anche i contatti dei produttori tra loro, un altro approccio “eretico” perché il Sistema vuole che i produttori siano incapsulati nela loro realtà aziendale, divisi e diffidenti tra loro (ovviamente per poterli sottomettere meglio). Pur senza evolvere in una coop (no è questo lo spirito del modello) è possibile prevedere che gli allevatori che conferiscono le carni a Pascol potranno organizzarsi per acquisti collettivi di alimenti per il bestiame e altri prodotti.



Alfio Sassella all’alpe Cavisciöla in alta val Brembana con le sue solide vacche a duplice attitudine OB
Quanto ai prezzi, tenendo conto della qualità, sono assolutamente competitivi e consentono di mettere a disposizione del consumatore carne buona a prezzi accessibili. Questa, infatti, è stata la molla, la mission della start-up alle origini. Ma anche sul lato del produttore le note sono positive. Lo testimonia uno dei produttori che i lettori più assidui di ruralpini conosceranno già in veste di “ribelle del bitto”: Alfio Sassella. Alfio ci ha detto che, rispetto ai commercianti la vacca fine carriera di razza Bruna Originale gli viene pagata il doppio. Pare incredibile ma la OB fine carriera vale, se conferita a Pascol.  come una macchina da latte all’inizio carriera di razza Brown Swiss

Prima di concludere con qualche considerazione sulle opportunità che una simile filiera corta mette a disposizione degli allevatori/alpeggiatori valtellinesi, il lettore che non è assiduo di ruralpini può leggersi un approfondimento sul Sistema agroalimentare valtellinese, un sistema bloccato nella polarizzazione senza uscita tra modello egemone industrial-istituzionale (guidato da alcune grandi aziende, dalla GdO e dalle istituzioni) e alcune  esperienze eroiche e testimoniali, molto interessanti e affascinanti ma che stanno in piedi grazie a un investimento spropositato di risorse umane. Pascol, che si è inserito nel quadro in modo fulmineo e imprevedibile rappresenta forse un modello di emancipazione del piccolo produttore senza lacrime e sangue ma con immediati ed evidenti vantaggi economici. Va chiarito, in aggiunta a tutto quello che abbiamo riferito, che Pascol si impegna a ritirare tutta la produzione degli allevatori conferenti.  

Il sistema agroalimentare valtellineseProspettive
(premessa che i lettori assidui di ruralpini possono saltare, a meno che non vogliano farsi una rinfrescata)

Ruralpini si è occupato tante volte di agroalimentare valtellinese, rimediando anche diffide e querele (archiviate per diritto di informazione del consumatore). Ma valeva la pena fare i don Chichotte quando gli stessi operatori dell’agroalimentare locale restavano “allineati e coperti” e totalmente subalterni a un sistema dominato da grandi aziende che, dopo aver fatto fortuna con prodotti simil-tipici hanno ceduto la proprietà a multinazinali straniere? Emblematici sono i casi della bresaola Rigamonti che, sin dagli anni ’70, si accorse che si poteva produrre bresaola con economiche cosce congelate di zebù sudamericano. Va precisato che la carne zebuina ha caratteristiche biochimiche nettamente diverse da qualla bovima: non frolla. Alla fine, però, l’azienda Rigamonti è divenuta al 100% della JBS, la multinazionale brasiliana della carne al centro di gravi scandali, anche in materia di forestazione dell’Amazzonia (vai al nostro servizio su questi fatti).


Lo stesso modello è stato attuato dall’azienda leader del pizzocchero secco industriale: la Moro pasta (per il 20% della famiglia Moro per il resto di una multinazionale australiana della pasta Remo Macaroni Group). I pizzoccheri IGP “tipici” sono prodotti a Chiavenna (dove il pizzocchero tipico del territorio è un gnocchetto di farina bianca) con semolati di grano duro e un pizzico di farina di grano saraceno (più costosa). Per rendere l’aspetto del pizzocchero di grano duro simile a quello vero si aggiunge crusca di grano saraceno. Così la tagliatella si colora di grigio e presenta i tipici “frustolini” di crusca. La quantità di crusca nell’impasto è la stessa, ma quella di farina di saraceno è il 20% (in luogo dell’80% + 20% di zarina di grano tenero) del pizzocchero fresco. Un prodotto di scarto della lavorazione del decorticato, senza alcun valore (unica utilità è l’imbottitura dei cuscini per la cervicale), indigeribile, indecomponibile, che brucia male. Idea geniale che fa credere allo sprovveduto consumatore di gustarsi un piatto di pizzoccheri valtellinesi (vai al nostro servizio sull’ingiusta attribuzione, politica ovviamente, della IGP).
Potremmo parlare anche dell’omologazione dei formaggi tipici valtellinesi, del bitto dop senza latte di capra, con fermenti in bustina e prodotto con generose integrazioni di mangimi al pascolo, del casera dop senza sapore, prodotto con tecniche di coagulazione in continuo dal latte delle grande aziende di frisone dei fondovalle pianeggianti della bassa Valtellina e della bassa valle della Mera (Valchiavenna) con razioni con insilato di mais. A questo polo industrializzato si sono accodati tanti piccoli e medi artigiani agroalimentari che hanno preferito mettersi sulla scia e non differenziarsi. Lo hanno fatto perché, constatando che le ditte industriali godevano del favore delle istituzioni e della politica, hanno ritenuto prudente non esporsi, non criticare, non assumere iniziative autonome. Tutto ciò non ha certo favorito la qualità delle produzioni e non ha aiutato i produttori agricoli locali. Anche gli operatori meno grand, infatti, quando possibile, ricorrono alla materia prima estera (così per le confetture, i funghi e gli altri comparti dell’agroalimentare). Di valtellinese, di “sapore di montagna” per molti prodotti dell’agroalimentare della provincia di Sondrio ci sono solo le immagini e i claim per il marketing.

In questo quadro chi si è tirato fuori ha dovuto sviluppare virtù eroiche.  I ribelli del bitto hanno iniziato la loro guerra ventennale contro lo stravolgimento delle regole di produzione tradizionali dentro il Consorzio di tutela. Poi sono dovuti uscirne e hanno subito l’ostracismo delle istituzioni.  Solo la caparbietà di alcuni produttori storici (altri hanno disertato costretti dalle “pressioni” del sistema) e la generosità di imprenditori e professionisti che hanno finanziato la realizzazione di una struttura per la stagionatura e la commercializzazione, hanno salvato – con tanti problemi aperti – il bitto storico, oggi costretto a chiamarsi “storico ribelle”. Abbiamo parlato di queste vicende in decine di articoli. Chi fosse interessato con il motore di ricerca interno cerchi “ribelli del bitto”, “bitto storico”, “storico ribelle” (nella home page , nella colonna a destra in alto).

Non meno eroica e controcorrente è stata l’esperienza della comunità del grano saraceno di Teglio. La battaglia per salvare l’unica varietà autoctona italiana è risultata difficilissima. Tra l’altro si sono messi di mezzo i neorurali e i tecnocrati universitari che, in nome di astratte considerazioni sulle “prorietà nutraceutiche”, puntavano ad affiancare al grano saraceno il siberiano. Un’infestante combattuta da secoli dai coltivatori di Teglio perché conferisce alla farina un gusto amaro.  Non  volendo capire che il siberiano  viene ampiamente coltivato in Cina dove ne ricavano anche, disponendo di consolidate tecnologie ed economie di scala,  prodotti farmaceutici e nutraceutici. E questo quando la varietà locale di saraceno è stata selezionata per secoli per il buon aroma della farina. Negli ultimi tampi pare che queste ed altre problematiche si siano appianate e che ci sia una maggiore unità di intenti.
Quanto alla vitivinicoltura essa non conosce quella polarità così netta come gli altri settori. Almeno non nelle stesse forme. La cantina più grossa (Nino Negri) raccoglie le uve di tanti piccoli produttori contribuendo a conservare i vigneti, cantine storiche come Arturo Pellizzatti Perego hanno tenuto duro sullo stile tradizionale, mantenendo le grandi botti di legno (quando imperversavano le barriques). Pur in un contesto eroico, assumono comunque un valore che avvicina a quelle del grando saraceno di Teglio e del bitto ribelle, alcune esperienze di giovani vignaioli che hanno raccolto la sfida di recuperare vecchi vigneti. Tra queste  segnaliamo quella di Jonatan Fendoni, un giovane impegnato anche sul fronte del grano saraceno (sotto le sue etichette dai nomi eloquenti).



Prospettive

Osserviamo innanzitutto che, a differenza di tante altre realtà di e-commerce, Pascol si basa su un rapporto organico con i produttori. Una condizione resa possibile dall’aver puntato su un solo prodotto, la carne e dalla concentrazione dei fornitori in Valtellina. Uno degli aspetti interessanti del modello di e-commerce di Pascolo è che il consumatore ha la possibilità di scegliere la razza e l’allevatore. L’esempio sotto è quello delle prossime spedizioni. Saranno disponibili carni di animali di quattro differenti produttori.  Un modo per non mettere il produttore sullo sfondo. Pascol opera così come piattaforma che collega produttori e consumatori, il lato positivo e umano dell’economia delle piattaforme che, con big tech sta portandoci in tutt’altre direzioni. La conferma che l’economia digitale non è, inevitabilmente, un destino di sorveglianza, controllo e manipolazione.
Il siccesso dell’esperienza, ancora in crescita, di Pascol potrà stimolare analoghe iniziative anche relativamente ad altri prodotti dell’agricoltura valtellinese, gestite da Pascol o da altre start-up. Quindi determinate, forse, profondi cambiamenti nella struttura e nell’impianto istituzionale dell’agroalimentare valtellinese. Per questo diciamo “aria fresca”.
Dal punto di vista dell’incentivazione al mantenimento dei sistemi di pascolo, il poter disporre di un canale di vendita sicuro e remunerativo, che non opera sulla base dei tradizionali schemi commerciali, molto penalizzanti per i produttori,


Pascol sta dando una grossa mano a che come Alfio Sassella  con le sue Ob (ma anche i Murada di Albosaggia con le loro  pezzate rosse)  gesticono imprese agricole indirizzate prevalentemente alla produzione di latte, all’alpeggio, alla trasformazione casearia. Un fatto molto interessante dal punto di vista zootecnico è che la giusta remunerazione della carne di pascolo sta incentivando allevatori come Alfio a produrre torelli da ingrasso Ob.  Nei miei ricordi degli alpeggi della Valchiavenna degli anni ’70-’80 ci sono “fotografie” di gruppi di torelli numerosi. Era ancora in auge una pratica che si era sviluppata nei primi decenni del secolo passato e che contribuiva al reddito dell’alpeggio (insieme al burro). Venduto al commerciante il torello non compenserebbe i costi del finissaggio necessario nei mesi successivi all’alpeggio. Oggi  questa operazione torna economica perchè i canali come Pascol premiano l’animale che ha pascolato un’intera stagione d’alpeggio. A sua volta ciò è possibile perché il segmento più consapevole dei consumatori è disposto ad attribuire a qesta carne un valore. Unendo la possibilità di trarre un reddito integrativo non trascurabile dalla vendita delle vacche a fine carriera e dai torelli, il sistema “dei trogloditi” dell’alpeggio, come gli arroganti esponenti del Sistema definivano i ribelli del bitto. Questi ultmimi erano convinti (una retroguardia che era avanguardia) che i metodi tradizionali fossero quelli del futuro (oggi li definiamo “retroinnovazioni”).  Quanto alle razze da carne se sono monticate su pascoli che non presentano più le condizioni per poter mungere e trasformare il latte, possono anch’esse contribuire validamente al mantenimento dei pascoli alpini. Andrebbero prese quelle precauzioni (controlli frequenti dei capi, turnazione delle parcelle di pascolo se pur ampie) in grado di evitare un pascolamento e uno stazionamento eccessivo in alcuni settori a scapito di altri. Un buon piano di pascolo, forse più difficile con animali da carne che da latte) potrebbe rappresentare un ulteriore valore per Pascol e un importante ambito di consulenza per lo zootecnico della start up. 

 

UBI SOLITUDINEM FACIUNT, PACEM APPELLANT

(17/02/2021) Una lettera che riflette lo scoraggiamento di chi resiste in montagna. Ci vuole tanta determinazione per farlo perché si ha a che fare con una corsa ad ostacoli: sempre nuove angherie burocratiche, controlli, certificazioni, messe a norma. E poi, naturalmente, il lupo che cinge d’assedio le borgate e le famiglie che vivono isolate come…

Lupo: la responsabilità è dei territori

Mariano Allocco torna sul tema del lupo, tornato incandescente in Piemonte con le dure critiche avanzate da Mauro Deidier, presidente del Parco Alpi Cozia, nei confronti del progetto WolfAlps. Lo fa chiarendo che non è il gioco solo la “questione lupo”, ma il governo del territorio che i forti centri del potere ambientalista intendono espropriare…

Pastori. Non ha molto senso parlarne bene a Natale ma poi stare dalla parte dei lupi per tutto il resto dell’anno

di Robi Ronza (26/12/2012) Come ogni anno a Natale tornano fra l’altro alla ribalta i pastori, primi destinatari dell’annuncio della nascita del Salvatore e primi ad essersi recati ad adorarlo. L’Epifania (= manifestazione) cui vennero invitati precede di molti giorni quella dei Magi. Credo che ad esempio Lorenzo Lotto nella sua famosa «Adorazione dei pastori», esposta…

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Valtellina sana pro ribelli bitto

MOBILITAZIONE DELLA SOCIETA’ CIVILE VALTELLINESE CONTRO  L’ESPROPRIO DEL PATRIMONIO CULTURALE DEL BITTO STORICO
Non basta più  la resistenza dei ribelli del bitto ora serve  l’indignazione e la ribellione della società civile  
 
 
I PRODUTTORI STORICI “colpevoli” di essere fedeli a un metodo di produzione quasi millenario, “colpevoli” di rivendicare da vent’anni il legame tra il territorio storico e la denominazione SONO COSTRETTI ORA, in forza di un disciplinare voluto dalle istituzioni accondiscendenti alle lobby politico-industriali  A NON CHIAMARE PIU’ “BITTO” il loro formaggio. Una vergogna possibile grazie alla REGOLE EUROPEE e alle LOBBY locali ( ben ascoltate a MILANO e a ROMA). Ma non tutti ci stanno. Ecco l’appello dell’associazione italo-svizzera Amici degli alpeggi e della montagna a tutte le associazioni culturali e ambientali della Valtellina per una mobilitazione a favore del bitto storico
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Sondrio, 21.04.2016
La presente per invitare la Vostra associazione ad intervenire ad un incontro riservato ad una questione che riguarda uno dei prodotti più tipici ed emblematici del nostro territorio Valtellinese: il formaggio Bitto.
Non vi è qui lo spazio per riassumere una triste vicenda che si trascina da decenni e che vede contrapporsi da un lato chi difende il valore della tradizione e della tipicità del prodotto, dall’altro chi invece sposa visioni più moderniste e pragmatiche. L’incontro, del resto, non ha tanto lo scopo di prendere posizioni per l’uno o per l’altro contendente, quanto di difendere le ragioni della giustizia, aldilà di norme e regole che, laddove del tutto discutibili come nel caso in oggetto, possono e devono esser cambiate.
Per ragioni che verranno spiegate nell’incontro, queste norme e regole impediscono in questo momento ai produttori del Bitto storico, coloro che producono il formaggio negli alpeggi della zona di origine (Valli di Gerola e di Albaredo) secondo le antiche consuetudini, di chiamare con il nome Bitto il proprio prodotto. Ciò rappresenta un tradimento della storia, uno sfregio alla giustizia e un insulto per chi, rinunciando alle molte comodità offerte dalle tecnologie, si sottopone a fatiche e oneri aggiuntivi per conservare una risorsa straordinaria per il territorio Valtellinese, di cui beneficia l’intera economia locale.
Le istituzioni pubbliche preposte alla questione hanno dimostrato incapacità o mancanza di volontà nell’affrontare e risolvere il problema. Sono stati raggiunti in passato degli accordi, rivelatisi però poi sempre deludenti o fallimentari.
Come associazione che ha nel proprio mandato statutario la difesa e valorizzazione degli alpeggi e della montagna ci sentiamo in dovere di denunciare questa situazione e richiedere con fermezza alle istituzioni di trovare una via d’uscita, nell’interesse di tutta la comunità Valtellinese. L’incontro cui siete invitati ha lo scopo di verificare la possibilità di un’ampia aggregazione tra le realtà culturali e sociali che condividono un forte legame con il territorio, onestà intellettuale e desiderio di giustizia.
L’incontro si terrà sabato 7 maggio, a partire dalle ore 9, presso la casera del Bitto di Gerola, secondo il seguente programma:
  • Ore 9: ritrovo alla Casera di Gerola
  • Illustrazione della questione Bitto
  • Visita alla Casera
  • Confronto su possibili azioni comuni
  • Pranzo Valtellinese (costo 25 €)
Per ragioni organizzative occorre sapere chi si ferma al pranzo. Gli interessati sono pregati di dare comunicazione al presente indirizzo mail.
Ringraziando per l’attenzione e in attesa di incontraci, cogliamo l’occasione per porgere i nostri più cordiali saluti.
Associazione Amici degli Alpeggi e della Montagna
Il Presidente
Plinio Pianta
Il Presidente della sezione italiana
Giampiero Mazzoni

Il valore sociale e culturale del cibo locale trova una definizione

(19.02.15) In stampa il libro che ricostruisce il “modello” sul quale si basano alcuni casi di successo dove la difesa e la valorizzazione del patrimonio legato ai sistemi agroalimentari locali tradizionali innesca processi virtuosi di rigenerazione comunitaria. All’insegna di uno sviluppo autosostenibile 

È in stampa e uscirà a metà marzo il volume di Michele Corti, Sergio De La Pierre, Stella Agostini Cibo e identità locale. Sistemi agroalimentari e rigenerazione di comunità.Sei esperienze lombarde a confronto . Edita dal Centro Studi Valle Imagnal’opera comprende una presentazione di Alberto Magnaghi, fondatore della scuola territorialista, e alcuni scritti introduttivi di sindaci e associazioni dei produttori dei sei “luoghi-prodotto”. Illustrato con immagini b/n, in parte storiche in parte attuali, selezionate dagli stessi referenti localiil libro consta di 530 pagine su carta semilucida e sarà disponibile con un contributo di 20€ al sito del Centro Studi (link sito).

Nulla di quanto è descritto in questo libro esisteva quindici anni fa. Non esisteva più l’asparago rosa di Mezzago (Mb), risorto a nuova vita grazie all’impegno di una cooperativa e di un Comune particolarmente sensibili alla rinascita dell’agricoltura.

Non esisteva quasi più il grano saraceno autoctono di Teglio (So), che sta alla base dei famosissimi pizzoccheri, la cui coltivazione è andata ri-estendendosi in tempi recenti; era ormai in forte decadenza il vigneto Pusterla/Capretti di Brescia, il più grande vigneto urbano d’Europa, risorto nel 2011 grazie all’impegno rinnovato della sua proprietaria; e a Gandino (Bg) era scomparsa da decenni la produzione del prestigioso mais “spinato”, il più antico della Lombardia, che riprenderà dal 2008 grazie al ritro-vamento quasi miracoloso di una sola “spiga” sopravvissuta in una cantina. E a Corna Imagna (Bg) procedeva a stento la produzione, ormai quasi “clandestina”, del tradizionale “stracchino all’antica”, rivitalizzata grazie a una progettualità di rigenerazione comunitaria stimolata in prima persona dal Comune, che ha portato nel 2011 all’“autocostruzione” di una “Casa dello stracchino” da parte degli stessi produttori.

A Gerola Alta (So), dove nel 2007 è nata la “Casa del bitto”, una dura resistenza durata vent’anni dei produttori del “bitto storico” contro veri e propri attentati burocratici al metodo tradizionale di produzione si è risolta con una sostanziale vittoria nel 2014. A partire da una ricerca sul campo ampia e approfondita, con approcci scienticici diversi ma convergenti nella comune valorizzazione di sistemi agroalimentari e “patrimoni territoriali” virtuosi, i tre studiosi hanno percorso e analizzato queste esperienze (ormai non più così isolate) come esempi paradigmatici di una rinascita di luoghi della Lombardia non omologati ai modelli dominanti, come esempi di quel nuovo bisogno di “autogoverno” dei territori locali di cui parla Alberto Magnaghi nella Presentazione del volume; e di una proiezione verso un futuro sostenibile e innovativo che permea di sé l’esperienza e l’immaginario di soggetti straordinari quanto sconosciuti.

La ricerca, durata tre anni si è caratterizzata non solo per l’estensione temporale ma anche per la profondità (oltre ottanta intervistati con aggiornamenti e confronti successivi con i testimoni privilegiati). A buon diritto si può parlare di ricerca partecipata poiché le discussioni in fase di “restituzione” dei risultati hanno rappresentato non tanto un’appendice quanto una fase vera e propria dell’indagine che ha portato a rivedere interpretazioni e a formulare nuove conclusioni.

Da qui il connotato di un’indagine che ha visto messi in discussisone i ruoli che “osservatori” (apparentemente “neutrali”) e “oggetti dell’indagine” giocano in ricerche di tipo convenzionale. I protagonisti dei “casi di studio” hanno svolto un ruolo di co-ricercatori mentre i ricercatori hanno dovuto analizzare i propri assunti metodologici e ideologici, le relazioni in cui erano direttamente e indirettamente implicati al fine di individuare l’influenza di tutti questi fattori sulla capacità di osservazione e di interpretazione della realtà (a questo punto non più solo “osservata” ma in cui si sono calati). Un esercizio non semplice e che non si può presumere condotto senza inevitabili margini di soggettività.

Il lavoro svolto, le trame di relazioni stabilite, non hanno prodotto solo risultati conoscitivi ma, auspicabilmente, un contributo all’auto-riflessività delle esperienze locali la consapevolezza di rappresentare esperienze importanti e la creazione di una rete che mette in relazione le diverse località tra loro.