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Pastori. Non ha molto senso parlarne bene a Natale ma poi stare dalla parte dei lupi per tutto il resto dell’anno

di Robi Ronza

(26/12/2012) Come ogni anno a Natale tornano fra l’altro alla ribalta i pastori, primi destinatari dell’annuncio della nascita del Salvatore e primi ad essersi recati ad adorarlo. L’Epifania (= manifestazione) cui vennero invitati precede di molti giorni quella dei Magi. Credo che ad esempio Lorenzo Lotto nella sua famosa «Adorazione dei pastori», esposta a Brescia nella Pinacoteca Tosio Martinengo, per questo li dipinga  in abiti da gentiluomini, https://it.wikipedia.org/wiki/Adorazione_dei_pastori_(Lotto). In quanto invitati dal Re dei Re a riconoscere e ad adorare Gesù Bambino prima dei Re Magi, secondo le regole cerimoniali dell’epoca del Lotto erano ipso facto divenuti dei nobili di rango superiore a quello di quei pur illustri e aristocratici sapienti. D’altra parte elementi simbolici tratti dal mondo pastorale caratterizzano la fede cristiana sin dalle origini. Gesù stesso è il Buon Pastore, i Vangeli tramandano molte sue parole e riferimenti alla vita e ai doveri degli allevatori di pecore, e fino ad oggi i vescovi sono indicati come pastori dei fedeli, tanto che il bastone pastorale è il segno della loro carica. A tanto rilievo storico e simbolico non corrisponde però oggi alcuna consapevolezza diffusa della realtà attuale dei pastori, della loro importanza per la cura del territorio e dei loro problemi. Sono anzi tra le prime vittime di quell’ambientalismo estremista che — nato e cresciuto non a caso in ambienti urbani dove non si ha più alcuna reale esperienza della natura – nella sua venerazione neo-totemica per il lupo li vede anzi come grandi nemici dell’ambiente.

Diversamente da quanto oggi troppi credono, i pastori, e gli allevatori in genere di ovini al pascolo, non soltanto esistono tuttora ma non sono affatto i proverbiali …ultimi dei Moicani. Sia in Piemonte che in Lombardia, due regioni il cui nome fa innanzitutto venire alla memoria paesaggi di fabbriche e di palazzi direzionali sedi di banche e di società di terziario avanzato, la pastorizia è consistente; e cresce il numero dei giovani che vi si dedicano. È di questi giorni l’uscita di un  libro fotografico, Remènch / Transumanza in Lombardia di Carlo Meazza con testi di Marta Morazzoni, Anna Carissoni, Giovanni Mocchi, Lucia Maggiolo, che con immagini magistrali illustra l’ambiente e la vita oggi dei pastori transumanti lombardi. Pubblicato dalla Pubblinova Edizioni Negri, un editore indipendente specializzato, Remènch (= vivere vagando), è ormai reperibile anche sui circuiti commerciali telematici, e si può acquistare via Internet pure tramite i siti della Hoepli, della Ghedini, della Feltrinelli e di altre grandi librerie. Il libro, frutto di un lavoro durato diversi anni, dà con grande efficacia una testimonianza di prima mano sul persistere della pastorizia anche nel mondo in cui viviamo e del suo significato.  Non entra nel merito del problema della compatibilità tra la pastorizia e la presenza incontrollata del lupo sulle montagne europee – su cui mi soffermo qui — ma non è questo il suo tema.

Di nuovo diversamente da quanto oggi troppi credono, la pastorizia dei grandi greggi non è un’attività marginale, tanto più che implica investimenti che non sono da poco. Il pastore proprietario è un imprenditore con capitali investiti e spese di personale. Alla pastorizia dei grandi greggi si aggiunge poi quella dei piccoli greggi non transumanti che integrano il reddito o di agricoltori di montagna in attività o anche di gente di montagna in pensione che dalla cura qualche decina di ovini trae un vantaggio non solo economico ma anche (e forse soprattutto) fisico e psicologico. Nella fase attuale del ritorno del lupo sulle montagne italiane, in cui si tratta ancora di individui isolati o di piccoli branchi, sono questi piccoli greggi i principali obiettivi delle predazioni dei lupi. In Francia invece si registrano già attacchi di grossi branchi di lupi a grandi greggi. Fino a qualche anno fa in Italia gli attacchi avvenivano nei pascoli alti, ma adesso già si registrano attacchi notturni dentro i paesi con pecore e capre sbranate da lupi penetrati in recinti posti nei pressi delle abitazioni. Nella sua edizione del 4 dicembre scorso il quotidiano torinese La Stampa, nelle sue pagine di cronaca del Verbano-Cusio-Ossola, dà notizia di una pecora sbranata da un lupo dentro il villaggio di Re, alle porte dell’omonimo grande santuario. Nel Verbano-Cusio-Ossola un episodio analogo si era già verificato in precedenza a Calasca-Castiglione, un comune della valle che porta a Macugnaga, il noto centro turistico ai piedi del Monte Rosa.

Fra i grandi quotidiani a diffusione nazionale La Stampa è l’unico che sul problema posto dal dilagare del lupo dà voce non soltanto alle tesi dell’ambientalismo estremista. Lo scorso 26 ottobre vi ha dedicato un’intera pagina del suo «Primo piano». “Il lupo che attacca il gregge fa il suo mestiere di predatore, ma sull’altro fronte di questo duello vecchio come il mondo”, si legge nell’articolo di apertura della pagina, “ci sono i pastori, che si ritrovano a contare le vittime degli assalti alle loro pecore (…). Il lupo è una specie protetta dal 1971, quando era in estinzione, ma da allora è tornato a diffondersi (…)”. Sulle montagne italiane se ne contano attualmente circa 2 mila secondo le stime più benevole, e stanno crescendo del 20 percento all’anno.

Sia in Svizzera che in Francia si stanno già prendendo iniziative per tenerne sotto controllo il numero, mentre in Italia il lupo continua a essere ufficialmente intoccabile, il che finisce per indurre al bracconaggio, fenomeno mai lodevole ma che, così stando le cose, diviene talvolta inevitabile. In un’intervista con cui si conclude la pagina de La Stampa di cui si diceva, Reinhold Messner afferma tra l’altro che “è una questione di convivenza, quindi di trovare un equilibrio. Accade anche in natura. Bisogna fare pace tra contadini e animalisti. Sa, chi protegge ad ogni costo il lupo è di solito un cittadino che non l’ha mai visto in azione (…). Bisogna trovare un punto di equilibrio: non si tratta di uccidere tutti i lupi, conclude il famoso alpinista e ambientalista sud-tirolese, “ma è impensabile che i contadini debbano andarsene. Lasciare le malghe significa anche interrompere la transumanza, che fa parte sia della cultura alpina che della nostra economia”. Speriamo che venga ascoltato.

UBI SOLITUDINEM FACIUNT, PACEM APPELLANT

(17/02/2021) Una lettera che riflette lo scoraggiamento di chi resiste in montagna. Ci vuole tanta determinazione per farlo perché si ha a che fare con una corsa ad ostacoli: sempre nuove angherie burocratiche, controlli, certificazioni, messe a norma. E poi, naturalmente, il lupo che cinge d’assedio le borgate e le famiglie che vivono isolate come…

Lupo: la responsabilità è dei territori

Mariano Allocco torna sul tema del lupo, tornato incandescente in Piemonte con le dure critiche avanzate da Mauro Deidier, presidente del Parco Alpi Cozia, nei confronti del progetto WolfAlps. Lo fa chiarendo che non è il gioco solo la “questione lupo”, ma il governo del territorio che i forti centri del potere ambientalista intendono espropriare…

Contenere il lupo si può (le norme vigenti)

Tra le tattiche del partito del lupo, vi è anche la bufala dell’intoccabilità della loro “gallina dalle uova d’oro”. Sono stati abili (e disonesti) a celare i dati reali sulla consistenza della specie, a fare in modo che gli allevatori si scoraggiassero e non denunciassero più le predazioni. Sono stati abili a convincere le regioni…

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Scappo dalla città …e vado a rompere i c.


La pandemia ha accentuato il fenomeno del “scappo dalla città”  ovvero del trasferimento di abitanti delle aree metropolitane verso quelle rimaste rurali (montagna, aree collinari interne). Non più solo pensionati ma persone di ogni età si insediano in condizioni a metà tra il turista e il residente. Il fenomeno “neo-rurale” ha molti risvolti, non tutti negativi. Quando però, facendo valere il proprio capitale sociale, il “neo-rurale” tende, arrogantemente, a imporre ai rurali la modifica del loro modo di vivere, allora è colonialismo. Due casi di queste settimane di allevatori che dovranno chiudere, o trasferirsi, per le lamentele dei “neo-rurali”.

di Michele Corti



(27/12/2020) I rapporti città-campagna (campagna intesa in senso lato di aree che hanno mantenuto caratteristiche rurali) continuano a essere oggetto di conflitti sociali. Le città proclamano di voler essere sempre più “verdi”, di voler praticare l’agricoltura urbana, mentre molte aree ex-rurali tendono a rurbanizzarsi, ovvero ad assumere caratteri (e modi di vita) sempre più urbani. Questa apparente omogeneizzazione, in realtà, non appiana i conflitti. Un primo aspetto riguarda le aree ex rurali “gentrificate”. In sociologia con gentrificazione (da gentry = piccola nobiltà), si è inteso, almeno in origine, il processo di trasformazione di quartieri urbani popolari in zone residenziali di lusso. E’ stato poi esteso alle trasformazione di aree rurali prossime alle città o collocate in zone “amene” in zone di abitazioni (prima o seconda casa) di persone abbienti di origine cittadina.
La gentrificazione può avvenire sia attraverso nuove costruzioni (ville) che la ristrutturazione di edifici rurali. In qualche caso le zone gentrificate mantengono una funzione produttiva agricola. E’ il caso di rinomate zone vitivinicole dove il paesaggio vitato, la presenza di cantine, enoteche, ristoranti alimenta un turismo residenziale e non. In queste zone è frequente anche l’acquisto di terre e cantine da parte di nuovi arrivati. Quanto rimanga di “rurale” in questi contesti è comunque dubbio.


Ironia ma anche reattività contro gli atteggiamenti prepotenti dei cittadini. Il cartello dice: Attenzione, villaggio francese, entrate a vostro rischio e pericolo. Abbiamo delle campane che suonano regolarmente, galli che cantano molto presto, dei gruppi di animali che vivono vicini e alcuni di essi hanno dei campanacci al collo, degli agricoltori che lavorano per darvi da mangiare. Se voi non sopportate queste cose non siete nel posto giusto.  In caso contrario abbiamo  buoni prodotti del territorio, degli artigiani ricchi di talendo e  desiderosi di farvi scoprire le loro capacità e le loro produzioni.

Tolto il caso della vitivinicoltura pregiata , la compatibilità tra  la continuazione della funzione produttiva agricola e la trasformazione della campagna/montagna in zona turistiche e/o residenziale di lusso è problematica. Dove il turismo prevale e le residenze (principali o secondarie) dei cittadini si infittiscono, si assiste a una vera e proria marginalizzazione ed espulsione della attività produttive che diventano “fastidiose” mentre i nuovi residenti chiedono serivzi e infrastrutture estranee alla dimensione rurale ma coerenti con la domanda di leisure (sport, intrattenimento).
Da questo punto di vista vi è ovviamente una grossa differenza tra quello che succede in Francia e in Svizzera e quello che si verifica da noi; una questione di cultura e di retaggi storici (risalenti all’età comunale), che ha condannato all’inferiorità il mondo rurale italiano. Così, se a fianco dell’albergo svizzero c’è una bella concimaia, in Italia le stalle e le aziende agricole sono state espulse dalle aree edificate cresciute disordinatamente sulla base del calcolo speculativo e clientelare. Anche in montagna. 
Quello di cui vogliamo parlare qui in modo più specifico, è però un fenomeno  più recente, legato alla “neo-ruralità”. Con questa espressione ci si riferisce al movimento di “fuga dalle città” che riguarda chi intende intraprendere attività rurali (agricoltura, turismo rurale, artigianato) ma anche coloro che puntano alla mera residenzialità, a vivere di pensioni o di telelavoro, acquistando al centro commerciale anche il prezzemolo e le altre aromatiche e intrattenendo rapporti limitati al minimo indispensabile con gli “indigeni” (abituati al fatto che in città i vicini di casa non sai neppure chi siano).
Entrambe queste categorie puntano comunque a godere della “campagna autentica” (nelle loro aspettative), quindi a insediarsi non dalle aree gentrificate, ma dove il tessuto sociale ha ancora un’impronta rurale palpabile (anche se pochi, anche qui, traggono il loro reddito dall’ attività primaria). Ritengo importante distinguere i “neo-rurali” anche sotto un’altro criterio: l’atteggiamento verso la cultura rurale e verso la comunità locale. Esso  può essere rispettoso o di supponente distacco. Nel primo caso avremo  adattamento (magari un po’ problematico) alle convenzioni, alle usanze, al modo di vita locale, nel secondo continue lamentele per i “disturbi”, i “fastidi” della vita rurale che deve adattarsi alle loro esigenze, alla loro moralità.
Un atteggiamento arrogante e presuntuoso si può trovare anche in chi arriva per fare l’agricoltura, magari biologica, guardando dall’alto in basso i trogloditi vetero-rurali che, condizionati dal mercato e dagli apparati, hanno dovuto piegarsi alla chimica o che perseguono nelle pratiche realmente tradizionali, senza entusiasmarsi per la biodinamica e altre “agricolture naturali”, nate in altri contesti e da noi abbracciate spesso da elementi radical-chic.
Il “neo-ruralismo” di stampo colonialista interagisce negativamente con i membri della comunità locale, specie con chi svolge attività agricola. I “neo-rurali” si sono fatti un’idea idilliaca della campagna, dove il tempo “si è fermato” e tutto deve corrispondere a un’immagine da presepe (salvo poi lamentarsi se manca qualcosa che in città avevano). Tutto quello che non si allinea alla loro visione preconfezionata di iddilio rurale è per loro motivo di fastidio, irritazione, che si trasforma in lamentela, che diviene protesta, che si traduce in denunce per violazione del codice civile o penale. Anche in Francia (ma in tanti altri paesi) è così.

I cittadini sono incapaci di vivere nella Francia rurale:perché sta crescendo l’ira della Francia rurale. In Francia si sono registrate proteste dei neo-rurali contro il rimorte delle macchine agricole, il canto dei galli e dei grilli, il gracidare delle rane, il numore del gioco delle bocce, il suono delle campane delle chiese, quello dei campanacci delle mucche.

Tra le idee preconcette della “campagna ideale” c’è quella del silenzio. Tutto quello che il “neo-rurale” sopportava in città sembra averlo magicamente dimenticato nella “nuova vita”. Il sonno del “neo-rurale” è turbato da un cane che abbaia, da un gallo che canta, da un contadino che accende il motore della trattrice, dal campanaccio di un animale al pascolo. Apparentemente il “neo-rurale” desidera ritmi lenti, poi si spazientisce se i servizi non gli vengono erogati in tempi rapidi, come in città dove tutti corrono. I rurali sono “lenti”, “pigri”, fanno rumore e sporcano (gli animali che passano su una strada, il mezzo agricolo che lascia una traccia di fango sulla strada passando da un campo e l’altro).Il “neo-rurale” mostra insofferenza per tutti i “disturbi” che gli arrecano i rurali e, in specie, i contadini, ma non si accorge dei fastidi che egli reca – ben più gravi – alla comunità insediata e al paesaggio. Accanto a ristrutturazioni rispettose dei fabbricati pre-esistenti vi sono anche gli stravolgimenti (colori, materiali, variazioni volumetriche). Il segno più visibile dell’affermazione di una volontà invadente, prepotente e invasiva sono però le cancellate entro le quali il “neo-rurale” si rinserra per isolarsi, per affermare un senso di esclusivismo proprietario che, specie in montagna, è estraneo alla cultura locale e, soprattutto, non funzionale.


Anche un semplice fabbricato rurale, quando sono rispettate le sue caratteristiche diventa una dimora  molto graziosa

Il “neo-rurale” afferma i suoi diritti alla “privacy” stravolgendo le consuetudini. Cessata la coltivazione, segato l’ultimo taglio di fieno, gli animali potevano pascolare in gregge comune i terreni privati. Grazie al fatto che non vi erano barriere fisiche (che riguardavano solo certe coltivazioni più a rischio come orti, frutteti, vigneti). Tutt’oggi molti rapporti sono regolati da consuetudini e da accordi verbali informali. Senza questo senso residuo di collaborazione comunitaria minimalista  sarebbe già tutto abbandonato.



Oltre all’effetto estetico, la cancellata è anche pericolosa per gli animali e per gli sciatori. Ma questa privatizzazione morbosa lede anche i diritti di passaggio (anche quando formalmente tutelati). Per il “neo-rurale”, che assegna importanza alle infrastrutture di comunicazione solo se asfaltate e, possibilmente, a varie corsie di marcia, il “sentierino” è qualcosa di senza importanza, anche quando era una strada comunale. E chiude il passaggio. Va anche detto che i comuni e certi “indigeni” non danno buoni esempi.


Purtroppo il “neo-rurale” non si limita a rinserrarsi dietro le cancellate ma, entro il perimetro del suo dominio, che lo fa sentire un “signore di campagna” in sedicesimo, stravolge totalmente le caratteristiche del luogo. Lo fa utilizzando piante esotiche e velenose al posto di quelle, utili e belle, che piantavano i contadini: sambuco, noce, pero, frassino. Ecco allora la siepe di lauroceraso, che pare di plastica ed è molto velenosa per animali domestici e selvatici, le erbe della pampa, i cipressi dell’arizona e le araucarie. Piante orribili, che non cambiano mai nel ciclo delle stagioni. Aggiugasi enormi barbecue. A onor del vero tutti questi vezzi non sono esclusivi dei “neo-rurali” cittadini ma anche dei “neo-rurali” autoctoni che hanno ereditato i fabbricati rurali dai vecchi ma che – trasferitisi in paesoni a valle o in città – devono marcare il loro nuovo status di non-più-agricoli scimmiottando in modo subalterno e a volte caricaturale le mode cittadine (il che il fa classificare sprezzantemente dai cittadini quali “villani rimessi” o “cafoni”). Molto ci sarebbe da dire sugli intonaci, sui colori degli stessi, sulle decorazioni che tolgono decoro all’edificio originale (perline, rivestimenti lapidei ad opus incertum). La moda del finto chalet, o della villa con patio e altre forme di kitsch, estranee al contesto dell’architettura locale, sono ancora in voga, purtroppo. A giudicare dai motivi delle proteste di turisti e “neo-rurali” (spesso non facilmente distinguibili tra loro), ci sarebbe quasi da sorridere. Se la prendono persino con i grilli e le rane. Invece il problema è serio e ve lo farò capire con due esempi molto recenti.

Due casi che fanno riflettere
Il primo caso mi è stato segnalato da un allevatore di capre lombardo. La sua azienda si trova a 1200 m. Dall’azienda le capre hanno accesso direttamente ai pascoli alle quote superiori.  Stabilita da ormai parecchi anni l’azienda non ha mai avuto particolari problemi. Quest’anno, però, è successo un fatto nuovo, da mettere in relazione con il Covid e la “fuga in campagna”.  L’allevatore e la compagna erano gli unici residenti  della località, ex maggenghi utilizzati  dagli abitanti del sottostante paese solo per alcuni mesi all’anno. Le ex baite, trasformate in residenze secondarie si popolavano solo in estate. Invece due famiglie hanno deciso di venire a vivere stabilmente… e a lamentarsi. E’ fenomeno della residenza secondaria che si trasforma in principale per chi vuole “fuggire”. Di seguito è arrivata un’ordinanza comunale e un verbale che contestava il pascolo abusivo in violazione dell’ordinanza stessa (sanzione penale), più altre due contestazioni amministrative (omessa custodia di animale e pascolo su terreni privati). Da dieci anni l’allevatore pascola e sfalcia i terreni dei privati con accordi scritti o verbali. In un’azienda come questa dove, pur lavorando a tempo pieno, i titolari hanno già il loro da fare (c’è da fare il formaggio, segare i prati, pulire le stalle) l’obbligo di pascolo custodito, cui si sono dovuti conformare, fa traballare un precario equilibrio. Non è possibile assumere nessuno perché il comune affitta i pascoli agli speculatori, per incassare lauti affitti, e, senza i contributi per il pascolo, non è possibile pagare nessuno, neppure un aiuto-pastore. Come si vede l’azienda in questione è presa in una morsa tra il combinato della politica in materia di pascoli dell’amministrazione locale (che sfrutta un sistema sbagliato di cui è responsabile l’Unione Europea) e l’incapacità del neo-insediato di convivere con le capre che c’erano già prima (all’allevatopre, però si chiede di convivere con il lupo sparito da oltre un secolo). La soluzione: far chiudere l’azienda agricola. E pensare che i cittadini hanno il coraggio di redarguire gli allevatori che si lamentano del lupo: “c’era prima lui di voi”, non riflettendo che il lupo c’era, anche di più, nelle pianure, oggi occupate dalle aree urbane. Due pesi e due misure: ma il villico ignorante ha sempre torto (si ripete la favola del lupo e dell’agnello).

Veniamo al secondo caso. Ci spostiamo dal lago di Como ai colli orientali del Friuli. Qui, da anni, un pastore utilizza, con capre e pecore, i pascoli di una grande azienda (vigneti abbandonati per lo più). Quest’anno ha con sé dei cani da guardiania che gli sono serviti per il pascolo estivo in Trentino. Nel sito invernale li deve tenere chiusi per via dei cacciatori, ciclisti ecc. Gli animal-ambientalisti sono bravissimi a proclamare la convivenza con il lupo (“bastano i recinti e i cani”), poi, però, loro stanno in ufficio mentre i pastori si sorbiscono tutte le rogne derivanti dalla detenzione dei cani. In estate, sulle Alpi, l’impiego dei cani da guardiania si scontra con la presenza turistica, in inverno, quando i pastori scendono nei paesi o in pianura, la gestione del cane è ancora più difficile.
Tenuti rinchiusi per evitare problemi, i cani, ovviamente, abbaiano ad ogni rumore od odore non famigliare. Anche di notte perché se il cane da guardia è chiuso o legato, e non può effettuare alcuna ispezione, può solo segnalare da fermo, come deterrenza, che è vigile e presente. E qui arriva il “neo-rurale” che si è insediato, venendo via dalla città, in una ex casa colonica della stessa grande proprietà. In campagna l’udito diventa sensibile e a trecento metri con abitazione ristrutturata completamente (senza rispettare le caratteristiche della dimora rurale originale ma ben insonorizzata e coibentata), l’abbaio diventa molesto.

Ora, essendo un solo cittadino a lamentarsi, non si configura il “disturbo della quiete pubblica” ma, il cittadino si lamenta direttamente con la proprietà che ha lasciato in comodato i pascoli al pastore. Ancora una volta il “neo-rurale”, socialmente più influente, fa valere il suo disturbo sulla bilancia con un maggiore peso specifico rispetto alle esigenze del pastore. Da osservare che, in zona, sempre per problemi di lamentele per “disturbo sonoro” da parte della stressa persona, un agricoltore ha dovuto silenziare il “cannone” per allontanare i piccioni dal campo di girasole. Notare anche  in questo caso la morsa della cultura  urbana che si chiude sul mondo rurale: gli animalisti impediscono di  controllare i piccioni e i lupi, gli agricoltori/pastori devono adottare delle misure alternative allo schioppo (per non offendere la sensibilità urbana animalista), le misure adottare offendono però la sensibilità acustica dei cittadini insediati in campagna. E il cerchio si chiude, il contadino soccombe, getta la spugna. Obiettivo raggiunto.

Pastori. Non ha molto senso parlarne bene a Natale ma poi stare dalla parte dei lupi per tutto il resto dell’anno

di Robi Ronza (26/12/2012) Come ogni anno a Natale tornano fra l’altro alla ribalta i pastori, primi destinatari dell’annuncio della nascita del Salvatore e primi ad essersi recati ad adorarlo. L’Epifania (= manifestazione) cui vennero invitati precede di molti giorni quella dei Magi. Credo che ad esempio Lorenzo Lotto nella sua famosa «Adorazione dei pastori», esposta…

Loup e vourp (lupi e volpi) (il colpo alla nuca alla montagna)

Anna Arneodo gestisce con i figli una piccola azienda agricola con coltivazioni e pecore, unici abitanti  di una piccola borgata a 1200 m.  Nel febbraio 2017 scriveva su Ruralpini un duro j’accuse (“Ci uccidete senza sporcarvi le mani” qui) rivolto all’ipocrisia della società urbana che ha innalzato il lupo a bandiera della natura. Parole che hanno…

Emergenza lupo: finalmente decolla un’iniziativa politica

In pochi giorni si sono registrati diverse iniziative politiche contro la politica lupista che mette in ginocchio gli allevamenti estensivi, la montagna le aree interne. Dopo la lettera durissima contro una politica regionale appiattita su WolfAlps, redatta da comuni e unioni dei comuni della provincia di Torino e della val Maira (qui) è arrivata la…

Danni da lupismo


la pericolosa fiera del lupo, tra simil-lupi e lupi esotici
   

A Grugliasco, periferia di Torino, in un bilocale di condominio, una donna di 74 anni è stata sbranata dai cinque cani lupo cecoslovacchi della figlia, di una linea francese sospetta di reibridazione con il lupo. La signora, nonostante la morte della madre, ha chiesto al magistrato di riavere i cani. Ai primi di ottobre, a Saint Martin Vesubie, nel Parco del Mercantour, al confine con la provincia di Cuneo, sette luponi neri canadesi sono scappati dalla Disneyland dei lupi dove erano detenuti. Cosa c’entrano le due notizie e perché mettono in bella evidenza i danni gravissimi del lupismo? Scopriamolo.

di Michele Corti




I cani lupo cecoslovacchi (CLC) sono tornati al centro dell’attenzione per il tragico episodio di Torino (una donna di 74 anni, Mariangela Zaffino, sbranata dai cinque CLC). Inizialmente si sapeva solo che erano tenuti in un bilocale di un condominio e che erano in cinque (una famiglia di CLC al completo con tre cuccioloni di nove mesi), il che è già un fatto assurdo.
Tutti i cani derivano dal lupo; alcune razze, però, sono frutto di ibridazioni del cane domestico con il lupo. Frutto di ibridazioni antiche sono: il pastore tedesco, l’husky, l’alaskan malamute. Nel Novecento si cercò di creare (anche in Italia) nuove razze. Come vedremo più avanti il CLC non è la sola razza. La formazione di queste razze ha dato esiti più o meno problematici per la difficoltà di stabilizzazione dei caratteri comportamentali anche dopo parecchie generazioni. Tendenza generale di questi cani-lupo è la diffidenza verso gli estranei, l’istinto predatorio, la necessità di essere gestiti da chi ne conosce bene le caratteristiche. In anni recenti, però, sono stati praticate numerose ibridazioni deliberate tra cani di queste razze e il lupo selvatico, oggetto di un vero e proprio culto. Di qui la presenza di linee ancora più problematiche.
La coppia di cani adulti di Grugliasco era nella disponibilità della figlia della vittima, Simona Spataro, una donna di 48 anni. La signora secondo quanto apparso inizialmente su Torinotoday, farebbe parte parte di un’associazione di volontariato (Coda di lupo rescue) che ricolloca cani CLC e altre nate da ibridazioni con il lupo. Pare, invece, che la sorella ne facesse parte e questo può aver indotto in confusione i giornalista.  L’associazione ha comunque smentito che la signora sia loro socia, pur precisando che “la famiglia è di amici carissimi” (vedi Fanpage, che riporta che la proprietaria dei cinque CLC comunque “aiutava” l’associazione Coda di lupo). Essa smentisce però categoricamente che i cani detenuti dalla Spataro fossero quelli ricollocati dall’associazione stessa  e sostiene che erano stati acquistati presso un allevamento (Colosimo). Quest’ultimo ha allevato soggetti di una linea francese sospetta di recente ibridazione. La Spataro aveva acquistato uno di questi soggetti “sospetti” dall’allevatore, poi pare (non ci sono riscontri) che avesse ricevuto in dono la femmina. I due cani erano mezzi fratelli e di linea sospetta ma la signora li ha fatti accoppiare, ha ceduto le femmine della cucciolata e si è tenuta tre maschi.
I soggetti di questa linea “francese” non sono stati cancellati dal libro genealogico ma sono sospesi (in attesa di verifiche sul dna). L’associazione proclama di avere a che fare solo con cani “puliti” (ricordiamo che il club degli allevatori CLC è stato, per anni e sino a due mesi fa, commissariato dall’Enci inseguito all’inchiesta della forestale).
Il problema dell’abbandono o comunque della rinuncia alla detenzione di questi cani (anche “puliti”) deve essere di una certa entità se vi sono associazioni appositamente dedite all’attività di ricollocazione, un’altra infatti è CLC rescue, presente in tutte le regioni e in gran parte delle provincie italiane. Coda di lupo, da parte sua, così inquadra il problema:Il fenomeno delle razze ibridate dal lupo é in piena espansione: complici i vari film e serie televisive con questi splendidi esemplari protagonisti, il fascino misterioso e selvaggio del lupo, la voglia di approcciarsi ad esemplari di razza dall’indiscussa bellezza e l’arroganza dei neofiti, siamo arrivati al punto in cui gli abbandoni di questi animali é in continuo aumento e purtroppo crescerà ancora anche per colpa di “cagnari” che svendono in rete esemplari frutto di cucciolate non testate e di dubbia genealogia che portano ad abbassare il prezzo di mercato rendendo questi cani alla portata di cialtroni privi di qualsiasi cultura cinofila che alla prima difficoltà se ne disfano.Coda di lupo sostiene di volersi differenziare dal marasma delle associazioni animaliste. E ne prendiamo atto, anche sutto il mondo che ruota intorno al CLC (come a molta cinofilia) appare torbido. I servizi veterinari assillano con controlli gli allevatori di animali da reddito mentre nel condo della cinofilia ne succedono di tutti i colori.
Da quello che si è appreso i CLC di Grugliasco vivevano in un bilocale e gli spazi all’aperto erano il cortile del condominio e i giardinetti. In queste condizioni i cani sono stati fatti riprodurre. Va detto che i soggetti frutto di reincroci recenti e illegali, come quegli oltre 200 esemplari di CLC sequestrati nel 2017 dai forestali (vedi oltre) ma anche i soggetti problematici e di dubbia origine dovrebbero essere sterilizzati. A parte la vicenda di Torino che comunque solleva numerosi interrogativi sull’attività di queste associazioni, ci si chiede che tipo di vigilanza sia stata esercitata sugli oltre 200 cani sequestrati ma riaffidati (per il benessere animale) ai loro detentori. Ma facciamo dei passi indietro.
Sopra e sotto: due modi di dare una notizia: sopra la parola CANE non è utilizzata, sotto – all’opposto – non è utilizzata la parola LUPO. Evidentemente Repubblica, che in Italia è testata ammiraglia del politically correct entro il quale (sullo sfondo del capitalismo neoliberale) il lupismo si colloca, non vuole in nessun modo associare con il lupo il fattaccio :il lupo è buono, innocuo e innocente per definizione. Eppure, se la gente acquista i CLC è per la diffusa lupofilia/lupomania e se il CLC non è un “cane per tutti” è perché ha una componente genetica lupesca recente, che qualcuno tende a “rinfrescare”.



Nel 2013 Ruralpini, con un articolo che aveva irritato alquanto i lupisti, (Lupomania e fabbriche dei lupi fanno male al lupo) si era occupato di una prima operazione condotta dai forestali che avevano sequestrato decine di CLC. Nel gennaio 2017, i medesimi, nel frattempo divenuti carabinieri, hanno eseguito una nuova vasta operazione di sequestri di cani in diverse regioni. Furono sequestrati in tutto oltre 270 esemplari di CLC “taroccati” (o almeno presunti tali).  “Taroccare” un CLC  che scopo ha? Farlo assomigliare di più al lupo, quello vero, quello selvatico quello che eccita il lupomane. 


Nelle pubblicità della Brondi, i CLC, come in questo caso, ma anche altri cani – lupo (o lupo -cani?)  sono diventati protagonisti di una serie interminabile di “cappuccetto rosso e il lupo”, molti in versione sexy

I lupomani sono disposti a spendere migliaia di euro per avere un lupo, il più possibilmente “vero”… al guinzaglio. Una situazione che riflette bene la schizofrenica natura dell’animal-ambientalismo, figlio della società industriale e post-industriale che ha smarrito il senso spontaneo ma al tempo stesso profondo del rapporto uomo-animale e uomo-natura ma sale in cattedra e vuole imporre le sue contraddizioni a chi quel rapporto, alm,eno in parte, non ha perso. Amano tanto, dicono loro, la natura “libera e incontaminata”, che vorrebbero chiudere un lupo in un loculo di condominio per la loro soddisfazione egoistica e capricciosa. Ma si sa: torturatori assassini sono i pastori. La moda è imperante. Le motivazioni sono state espresse da Ilaria Boldrini che, da lupofila, è divenuta allevatrice di CLC.
Insomma, un giorno all”esposizione di Firenze abbiamo visto una coppia di CLC. E sia io che Francesco li abbiamo trovati bellissimi! Davvero la razza per noi, in tutto e per tutto! Premetto che siamo amanti del lupo selvatico da anni; per me il massimo è il lupo canadese. E quando li abbiamo visti per la prima volta il sogno si è avverato. Dopo un anno un “lupo” è entrato a far parte del nostro piccolo branco. (…) Come vedi morfologicamente il CLC?  “Lo vedo sempre più simile al lupo. lo Standard dice che questo cane deve assomigliare al lupo. Tutti i segni caratteristici del Pastore Tedesco sono da considerare un difetto. Quindi la groppa scesa, la canna nasale non a punta, ma rivolta verso il basso, le orecchie grandi, gli occhi tondi e scuri, le angolazioni da Pastore Tedesco. (…) Il CLC è semplicemente unico nella specie canina! Io ho letto e visto tanto sui lupi, e posso dire che questi cani sono decisamente simili all’antenato lupo. Di “cane” c’è davvero poco. E adesso, dopo tante selezioni, l’aspetto morfologico è più del lupo che del cane.
In un recente lavoro sulla genetica del CLC dal titolo significativo “Lupo fuori e cane dentro?” (R. Caniglia, et al. Wolf outside, dog inside? The genomic make-up of the Czechoslovakian Wolfdog. BMC genomics, 2018, 19.1: 533), gli autori concludono che l’apporto genetico del lupo all’identità genetica della razza è però tutto sommato modesto. Interessante, però come inquadrano il problema; Nel corso del tempo, un numero crescente di specie è stato selezionato attraverso incroci controllati con lo scopo di fissare artificialmente, o migliorare, tratti morfologici considerati necessari e/o comportamenti desiderati e questo, con il passare delle generazioni, ha portato alla nascita di un’enorme varietdi razze utili all’uomo sempre più distanti dai progenitori selvatici dai quali era partita la loro selezione. Al giorno d’oggi, tuttavia, si può notare una tendenza inversa. Si sta cercando di ottenere razze che abbiano caratteristiche sempre più simili ai loro antenati selvatici che ai loro corrispettivi domestici. Un esempio evidente di tale tendenza è rappresentato dalla crescente popolarità di razze di cane lupo disponibili al grande pubblico, come ad esempio il Cane Lupo di Saarloos, il Lupo Italiano, il Cane Lupo di Kunming, gli American Wolfdog e il Cane Lupo Cecoslovacco, tutti creati dall’incrocio voluto e deliberato tra razze lupoidi o antiche (il Pastore Tedesco, l’Husky o l’Alaskan Malamute) con lupi selvatici e che, quindi, rappresentano casi estremi di ibridazione antropogenica.“Dentro”, il CLC non è molto lupo. Però, la lupofilia/lupomania, fomentata dalla propaganda finanziata da decine di milioni di progetti pro lupo gestiti dalla lupologia/lupocrazia, ha spinto – sulla base della legge del mercato, in cinofilia è particolarmente spregiudicato – perché  il CLC diventasse ancora più lupo, più prestante, più gagliardo, più esteticamente simile al lupo. I militari e la protezione civile volevano un lupo dai dai sensi più acuti, più resistente alla fatica, dai piedi più forti. I lupofili un lupo-cane, che si confonda al massimo con un lupo vero, i lupomani un cane che sia anche dentro più lupo possibile.  Dei vari cani lupo il CLC è il più diffuso, almeno in Italia. 

Altro che Rin-tin-tin o il Commisario Rex! Oggi il cane lupo dev essere molto più lupo. Non sono più i tempi che il solo nome “cane lupo” metteva una gran paura ai bambini (me compreso); oggi la gente vuole accarezzare i simil-lupo e persino i lupi veri, come quell’automobilista che, qualche settimana fa, accarezzava un lupo ferito vittima di un incidente stradale non rendendosi conto che ciò provoca uno stress  ulteriore all’animale. Ma queste sono le conseguenze della propaganda che assimila i lupi ad agnellini, che presenta il selvatico in forme accattivanti, domesticate, infantilizzate attraverso una propaganda strumentale da parte di chi la fauna dovrebbe conoscerla e che distorce strumentalmente e sistematicamente l’informazione e la comunicazione per i propri fini (anche economici).

Il CLC è sotto i riflettori ma, a dimostrazione della diffusione del fenomeno, conviene ricordare che non mancano  gli appassionati detentori del meno popolare e più problematico cane lupo di Sarloos (razza riconoscita dall’Ente nazionale cinofilia italiana alla pari del CLC, e dell’American Wolf Dog, una razza non riconosciuta dalla Federazione cinogenica internazionali per via del ricorso al re-incrocio con il lupo ma allevata in Italia dove esiste un’associazione di Amici allevatori del Wold Dog. Il Lupo italiano è partito da una ibridazione deliberata negli anni ’60. Esiste un registro ufficiale ma i cani non sono in vendita e sono affidati dall’associazione che lo tutela solo a aspiranti detentori selezionati (prima c’era un Ente lupo italiano). Non è riconosciuto a livello internazionale ma il governo italiano l’ha sostenuto ed è in dotazione ai forestali. Un vero cane lupo di stato.
Gli autori del sopracitato studio sul CLC osservavano anche, a proposito del CLC e degli altri cani lupo che: L’ ultima problematica, infine, è rappresentata da incroci illegali con lupi che mirano a creare animali con un aspetto ancora più simile al lupo, e che quindi, spesso, vengono venduti a prezzi molto più alti della media di razza. Questi ibridi presentano, ovviamente, anche una gestione molto più complessa causata spesso da temperamento molto meno prevedibile (sono, di fatto, più soggetti a risposte istintive a determinati stimoli e motivazioni) a sua volta causato, probabilmente, dalla rottura della composizione genetica e delle interazioni epistatiche (ossia quando un gene influenza l’espressione fenotipica di un altro gene) stabilite durante diversi decenni di selezione artificiale dei tratti comportamentali del CLC. La preoccupazione maggiore è che, se questi incroci venissero abbandonati in natura o fuggissero, potrebbero più facilmente ibridarsi con i lupi rispetto ad altre razze, contribuendo all’immissione degli alleli del cane nel genoma del lupo, dando vita quindi a un serissimo problema di conservazione delle diverse popolazioni di lupo.Quanto è ipotetica questa possibilità che questi cani lupo reincrociati con lupi veri si ibridino con la popolazione selvatica? Il problema dell’ibridazione del lupo è enorme. La lupologia sa bene che è scottante. La lupologia è quella componente del mondo scientifico che, abusando dell’autorità scientifica, ha spregiudicatamente cavalcato la lupofilia e l’animal-ambientalismo per sviluppare il lupomarketing, incassare decine di milioni di euro, e sviluppare una rete di potere intorno al lup, ovvero creare un’incipente lupocrazia. Veri apprendisti stregoni, i lupologi, a partire dal lupologo-maximo (Boitani). Nel breve-medio periodo la lupologia, che tende, sempre più oliata dai finanziamenti e sull’onda della lupofilia, a una vera e propria lupocrazia (ovvero a creare centri e reti di potere, veri network istituzionali de facto ma sempre più riconosciuti come “pezzi” degli apparati),  ha incassato altri progetti su tema ibridazione (Mirko-lupo, Hybrid-wolf) e sta proponendo altri sviluppi del tema.
L’ibridazione mette a ko però la legittimazione biologica naturalista della super-protezione del lupo quale specie autoctona originale “pura”, specie se, oltre all’ibridazione con il cane domestico, emergesse quella con lupi esotici extra-europei. Specie se emergesse che è il lupismo, nel suo seno, a promuovere certi attentati all’integrità genetica del lupo.
Il tema dell’ibridazione è servito egregiamente a intorbidare le acque in un periodo recente di espansione dei lupi. Oggi con il lupo che copre quasi tutto il territorio nazionale, la subdola tattica di utilizzare gli ibridi come capri espiatori non serve più (nemmeno quella, in realtà, di additare quale fake ogni avvistamento di lupi in aree antropizzate riconducendolo ai CLC, che fanno comodo quindi al lupismo). I lupi-lupi, per quanto geneticamente largamanete compromessi), selvatici al 100% ( in base quantomeno alle definizioni di legge), si trovano ormai alle periferie cittadine e nella pianura padana.
Qualche anno fa i lupisti (i lupologi “scientifici” più i lupofili militanti) sostenevano che i lupi erano diventati “confidenti” perché non erano lupi ma ibridi e che l’ibrido è pericoloso per l’uomo mentre il lupo “vero” lo teme (che balla!). O non ci sono più lupi “veri” o quelli che ci sono hanno proprio perso la paura dell’uomo per il semplice farro che quest’ultimo non rappresenta ormai più una minaccia per il canide selvatico. Boitani, che nel tempo ha dichiarato tutto e il contrario di tutto, già parecchi anni fa asseriva che: nel giro di poche generazioni lupine se il lupo non è più sparato ce lo troviamo nelle case.

Ormai il lupo, per la gioia dei lupofili e lupomani è ovunque. Inevitabile un significativo grado di ibrifdazione che non può che aumentare.

L’estesa ibridazione (i lupologi, come i virologi non concordano neppure su punti cruciali: per alcuni è arrivata all’80% dei “lupi” italiani, per altri è limitata al 20-30%) è comunque il risultato di una politica di sostegno in tutti i modi all’espansione territoriale del lupo. Il canide, da specie opportunista, non legge le cartografie dei lupologi e ha già colonizzato spazi dove non era più presente da secoli. Non solo, ma sta dimostrando di gradire le zone di pianura e densamente antropizzate.  Il lupo ha dimostrato di essere bravissimo a oltrepassare le barriere naturali e artificiali e a trovare in ogni ambiente prede di cui sfamarsi. Sta arrivando dove i lupologi non prevedevano. Ovviamente nelle zone pianeggianti e antropizzate l’interazione (predatoria e riproduttiva) con il cane è frequente, l’ibridazione inevitabile. Troppi lupi, niente lupi veri. Ma al lupismo interessa qualcosa della biodiversità? Il lupo è solo uno strumento, una testa d’ariete, un grimaldello per obiettivi di potere, controllo del territorio, business.


Uno dei temi più controversi riguarda l’acquisizione di certi caratteri fenotipici (esteriori), molto più facili da verificare che le mappature del Dna. I lupi bianchi, neri, grigi, sono l’effetto degli incroci con grossi cani di razze lupoidi asiatico-americane o c’è di mezzo dell’altro? Se la responsabilità della diffusione di certi caratteri (eventalmente confermata dall’analisi genetica) fosse riconducibile all’ibridazione con certe razze di cani domestici e se fossero individuabili degli “untori”, l’inquietante presenza di luponi avrebbe i suoi responsabili, i suoi capri espiatori.
E arriviamo così alla grande operazione dei forestali. Operazione molto mediatizzata, molto enfatizzata, con una gragnuola di ipotesi di reato: detenzione illegale di fauna selvatica, violazione convenzione CITE sulle specie a rischio di estinzione, violazione della legge sulla tutela della fauna selvatica, falso ideologico, frode in commercio. Fuochi d’artificio, conditi con perquisizioni all’alba di ignari detentori di cani, svegliati da pattuglioni di forestali armati. Come finirà? Le norme sulla detenzione degli ibridi sono in contrasto tra loro e le sentenze tendono a ritenere che un ibrido nato in cattività da genitori in cattività non possa esere equiparato a un selvatico. Facile che resti solo la falsificazione dei pedegree dei cani. Il reato di detenzione di animale selvatico verrebbe limitato a lupi-lupi eventualmente detenuti come stalloni/fattrici e, forse, ai prodotti di prima generazione
Quanto agli ibridi F2, F4, F4 (o presunti tali) sequestrati essi sono stati lasciati in custodia e in uso ai detentori “per il benessere animale”. Ma non sono pericolosi? Non possono accoppiarsi con i lupi? Non sono valide quindi le motivazioni alla base della definizione del reato?  Il caso è stato montato a partire da un soggetto femmina di nome Ave lupo (di qui il nome della grandiosa operazione dei forestali). Nata in repubblica ceca da un accoppiamento non legale tra una lupa canadese e un pastore tedesco. Poi la fattrice, che il repubblica ceca era stata prima iscritta al registro dei cani sanza pedigree poi depennata privando i detentori della possibilità di utilizzarla per la riproduzione… appare in Italia, dove le schiere lupofile e lupomani bramano di possedere un lupo, quasi vero, tutto per loro (sono quelli che amano la natura ma ci vanno preferibilmente in fuoristrada, amano il lupo … al guinzaglio).Ave Lupo, una volta in Italia è stata fatta riprodurre con uno stallone dell’allevamento Passo del lupo  ottenendo diversi prodotti (F2). Tutti i 272 cani sequestrati dai forestali sono F3 e F4 di questa discendenza? Nella discendenza di Ave lupo sono stati utilizzati ancora dei lupi e degli ibridi? Sarà interessante scoprirlo.

 Veniamo ai lupi di Saint Martin Vesubie. Il parco Alpha (i nomi non si scelgono a caso: i lupofili/lupomani sono tendenzialmente dei frustrati, magari mobbati dal capufficio, che si vogliono immedesimare con un meccanismo di transfer abbastanza palese nel “capo-branco”, nel lupo alfa dominante). Il parco Alpha è uno dei tanti luna park del lupo. Il lupo è un business. Eco come si promoziona sul suo sito nella cattiva tradizione dal francese:
Ogni giorno di apertura, i badanti-animatori spiegano ai visitatori la vita dei branchi e presentano il comportamento di ciascun lupo durante l’alimentazione. Il parco Alpha consente anche ad alcuni di accedere al loro sogno: diventare badante per un giorno. Accompagnato dai professionisti del parco, il badante per un giorno si mette nella pelle di un animale affiancandosi ai lupi da vicino. Una merenda e un’area di picnic vi permetteranno di migliorare la splendida giornata trascorsa al parco Alpha.La gente non si accontenta di film e di romanzi sul lupo (ne scrivi uno mediocre con il lupo nel titolo e sei sicuro di vendere). Il bombardamento mediatico pro lupo è incessante ed è ovvio che l’offerta di lupo trova sempre una domanda ricettiva. Più i luponi dei centri-lupo sono esotici e fustacchioni (ripetiamo: ma le balle sulla biodiversità autoctona?) e più il centro incasso. Ergo ci deve essere una bella domando di lupi di ogni razza e ogni provenienza. Quello che è successo ai primi di ottobre potrebbe succedere altrove nei tanti centri italiani.

Nel Mercantour, il grande parco dove il 5 novembre 1992 venne annunciato l’arrivo dei lupi (con sei mesi di ritardo e nel silenzio del personale del parco stesso e di un giornalista, in quest’ultimo caso ottenuto con le minacce). Le alluvioni (Tempesta Alex) che hanno sconvolto la Provenza ai primi di ottobre ha provocato una frana che ha danneggiato la recinzione e consentito ai lupi di scappare. Erano sette lupi neri e un lupo bianco artico. Il branco dei lupi neri, di grossa taglia, è stato visto unito qualche giorno dopo. Il 18 ottobre ne è stato catturato uno, a novembre altri due. Ai primi di dicembre è filtrata la notizia che un fuggitivo sarebbe stato abbattuto da ignoti.
Uno dei lupi fuggitivi catturati con il dardo narcotico ancora nella spalla

Ne restano ancora quattro in libertà. Gli allevatori di Cuneo sono preoccupati che, se sopravviveranno all’inverno   possano incrociarsi con i lupi stanziali e dar luogo a degli ibridi ancora più feroci  (è vero che sono nati in cattività e quindi “imbranati” ma è anche vero che sono lupi provenienti da aree molto fredde capaci di sopravvivere se riescono a procurarsi cibo) .

Quanti lupofili da tastiera sarebbero felici di incontrarlo a tu per tu di notte in un bosco?

Ma se quanto accaduto al Parco Alpha è finito sotto i riflettori, cosa accade nei tanti centri di recupero dove vengono accudini amorevolmente i lupi? E cosa succede nei tanti parchi faunistici? Alcuni di questi “centri” sono (o erano) localizzati in aree che sono poi diventate strategiche per la nuova colonizzazione dell’Italia del Nord da parte della specie. Più o meno accidentalmente o deliberatamente da tutta questa rete opaca di centri lupo dove i controllori e i controllati si confondono all’insegna del lupismo militante e conclamato o celato dietro ruoli di funzionari pubblici e di divise. Ai tempi del primo sequestro dei CLC “sospetti”, nel 2013, Duccio Berzi, moderatore del forum Canis lupus – non mancava di notare le contraddizioni del Centro lupo di Popoli gestito dal Corpo forestale dello stato che, nel mentre sequestrava gli ibridi…. li produceva esso stesso.
Alcune cose ascoltate al convegno mi hanno fatto accapponare la pelle… Nella presentazione della dr.ssa Mattei, si indica che i lupi nelle aree faunistiche della Majella vengono fatti riprodurre. Questi sono poi utilizzabili per altre aree faunistiche o in vista di reintroduzioni in natura (…). Sempre a Popoli tempo fa è arrivata una femmina di CLC gravida probabilmente di un lupo (accoppiamento programmato da un allevatore). E’ stata fatta figliare. Ora hanno un nuovo gruppo di ibridi in cattività che non sanno come gestire.
Ma come? La forestale mette in moto la grande operazione Ave lupo e poi  le fattrici CLC ibridate intenzionalmente vengono fatte partorire? E se questo succede nei centri dell’ex Corpo forestale dello stato figuriamoci dove i lupisti che li dirigono non sono neppure frenati (un pochino) da una divisa. Dobbiamo credere che solo i cattivoni allevatori di  CLC giochino sporco? Che non possano manipolare le carte anche chi gestisce centri recupero o zoo vari? Il lupista, anche se pubblico ufficiale, veterinario, funzionario ritiene che per “salvare” il lupo il fine giustifichi i mezzi.


Cauda

Un lupo nero avvelenato a Imola nel 2010. La narrazione lupologica vorrebbe far credere  che i lupi neri derivino da ibridazioni con il cane di 10 mila anni fa e che l’Appennino settentrionale, insieme al Nord-America sia l’unica area al mondo dove il carattere si è fissato nella popolazione lupina autoctona da migliaia di anni. Ne raccontano tante di favole!  Anzi di balle. Perché se osservate la cartina della diffusione del lupo negli anni ’70,  vedrete che  sull’Appennino settentrionale il lupo era estinto. La lupologia ortodossa continua a sostenerlo. Ora ci debbono spiegare come fa il carattere “mantello nero” ad essere fissato da migliaia di anni nella popolazione attuale se: 1) in Europa era tipico solo nella sotto popolazione appemminica settentrionale, 2) nell’Appennino settentrionale il lupo si è estinto e la ricolonizzazione è avvenuta a partire da centri dell’Appennino centro-meridionale. Si contraddicono essi stessi. Come quando qualche anno fa, Apollonio, sulla base di un monitoraggio aveva stimato la popolazione lupina toscana di consistenza superiore al migliaio di individui mentre Boitani, per poter avallare l’idea del lupo a rischio di estinzione e incassare le milionate, dava una stima per l’Italia inferiore a quella di Apollonio per la Toscana. Chiamatela scienza, se volete. Se siete lupisti irrecuperabili.


Glossario di una patologia sociale post-moderna

Lupismo ideologico: Ideologia che associa alla reintroduzione del lupo proprietà taumaturgiche di ricostituzione degli equilibri ecologici, di promozione della biodiversità. In forza di queste premesse assiologiche essa rivendica la protezione “a prescindere” del lupo, la necessità della sua espansione, ma anche, senza proclamarlo apertis verbis, la prevalenza dell’interesse alla proliferazione del lupo rispetto ad ogni altro interesse (anche costituzionalmente garantito). Nelle sue forme più aggressive l’ideologia lupista si presenta come testa d’ariete del rewilding e esalta nel lupo il “vindice” della natura corrotta dall’uomo (ma qui si sconfina non la lupomania, vedi oltre).

Lupismo organizzato: L’insieme dei soggetti che esercitano l’azione di lobby nel quadro dell’adesione all’ideologia lupista.
Lupologia: la componente scientifica del lupismo finalizzata a costruire legittimazioni al lupismo sfruttando l’autorità accademica, diffondendo informazioni parziali o manipolate, confutando e delegittimando le obiezioni degli interessi lesi dal lupismo.
Lupocrazia
: Il lupismo organizzato oltre a conseguire forti posizioni nelle istituzioni e negli organismi consultivi e tecnici (tanto da poter muoversi entro un’ampia sfera di autoreferenzialità) si fa istituzione, come nel caso del Centro grandi carnivori in Piemonte (autority regionale del lupo), la rete creata attraverso i vari progetti Wols Alps all’interno delle istituzioni coinvolte (istituzione ombra all’interno delle istituzioni). Nel piano lupo si auspicava la creazione di autority locali del lupo (in analogia ad altre agenzie con potere di regolare e vincolare attività di uso del territorio). Governance del lupo come tassello cruciale di governance del territorio espropriativa delle istituzioni elettive.
Lupofilia:
 Il sentimento, gli atteggiamenti di simpatia e pregiudiziale  favore nei confronti del lupo e delle iniziative a suo favore che porta a schierarsi per la sua protezione assoluta )indipendentemente da ogni considerazione sociale, storica, ambientale) e a una forte propensione a un consumo culturale specifico (libri, narrativa, gadget, abbigliamento, spettacoli).
Lupomania: La forma ossessiva di lupofilia che porta a detenere un cane più possibilmente lupo, a tatuarsi con immagini del lupo, a partecipare a gruppi social di lupomani, a svolgere attivismo pro lupo, a utilizzare fototrappole per immortalare gli oggetti del culto.
Lupomarketing: Lo sfruttamento a fini di lucro della lupofilia e della lupomania nonché delle posizioni acquisite dal lupismo organizzato e dalla lupocrazia (il business dei progetti Life, i centri faunistici del lupo, il turismo del lupo, la letteratura e le produzioni audiovisive).

Un parco contro WolfAlps

Mauro Deidier, neo presidente del parco delle Alpi Cozie, in provincia di Torino, parco partner di Wolf Alps, ha scritto alla “centrale” di Wolf Alps (e del lupismo), il parco delle Alpi Marittime, per manifestare la sua contrarietà al progetto.  Nella circostanziata e densa lettera di cinque pagine, egli rileva come, non solo Wolf Alps…

Aria fresca in Valtellina (agroalimentare)

  Nell’estate 2019, due giovani di Sondrio, che stavano ancora scrivendo la tesi in economia del management, hanno lanciato una start-up di e-commerce alimentare che ha avuto successo. Pensata inzialmente con raggio provinciale, al massimo regionale, oggi Pascol.it consegna in tutta italia carne fresca entro tre giorni. Il consumatore sceglie la razza (entro un ampia gamma) e l’allevatore.…

Piemonte: il lupo è (sempre più) un problema sociale e politico

Alcuni comuni e unioni montane delle provincie di Torino e Cuneo  chiamano in causa la regione Piemonte in tema di lupo per la sua inerzia e l’appiattimento sulle posizioni delle lobby animal-ambientaliste. Il vice presidente Carosso risponde sostenendo che in Italia il lupo è gestito (!?) bene e lo sarà in modo ottimale dopo che…

Cosa penso della montagna (a 16 anni)


Ruralpini ha di recente raccolto le riflessioni di alcuni giovani in materia di montagna, del suo (e del loro) futuro. Anche un ragazzo di 16 anni, che frequenta un istituto tecnico agrario in provincia di Cuneo, Davide Garnero, ha voluto consegnarci il suo pensiero. Lo ha esposto originariamente attraverso un tema scolastico e la sua insegnante l’ha incoraggiato a pubblicarlo. Non ci illudiamo che le parole di Davide arrivino ai potenti (che hanno ben altri interessi e fingono di ascoltare certi “oracoli” adolescenziali per loro convenienza). Speriamo, però, che scuotano i tanti che hanno a cuore la montagna ma si sono lasciati vincere dalla rassegnazione e nello scetticismo.  Oggi circolano valori che sembravano fuori corso. Valori che hanno la forza di spingere un ragazzo a sognare un futuro in una borgata di montagna. Ai grandi il compito di assecondarli, ognuno per quello che può.

 

di Davide Garnero

(16.07.20) Ogni epoca ha avuto i suoi pro e i suoi contro: fino ad inizio ‘900 spesso si viveva in povertà, non c’erano comodità, la vita era durissima e le cure sanitarie insufficienti, insomma, non c’erano grandi prospettive per i giovani. Nei decenni successivi ci sono state le due guerre mondiali che hanno tolto la vita a tantissime persone innocenti spesso sotto ai vent’anni. Successivamente il Boom economico ha portato lavoro e benessere in alcune zone d’Italia, mentre in altre ha creato solo spopolamento (come nei paesi di montagna e al Sud) e disuguaglianze sociali presenti ancora oggi. 

Ai giorni nostri ci sono lussi e comodità impensabili fino a pochi decenni fa: si ha più tempo libero, la tecnologia e i macchinari rendono il lavoro e la vita quotidiana meno faticosi, ci tengono in contatto fra di noi nei periodi di lontananza, ecc. Nonostante questo, i lati negativi non mancano, alcuni sono presenti da secoli, come guerre fra alcuni Paesi, disuguaglianze sociali, epidemie, …, altri sono emersi da poco, come la distruzione dell’ambiente naturale e il nostro allontanamento da esso (da cui però dipendiamo), il degrado della società (l’individualismo, le comunità non esistono quasi più, la tecnologia ha ridotto le relazioni dirette con gli altri e la capacità di cavarsela solo con la propria manualità ed intelligenza, ecc.). Inoltre, per riuscire a guadagnarsi da vivere è necessario ormai adeguarsi ad un mondo frenetico, caotico, governato spesso da leggi assurde e ingiuste; per “tirare avanti” bisogna far concorrenza ai più forti (come le multinazionali), ed è anche per questo che molte piccole attività del territorio falliscono. Penso che tanti giovani siano attratti da questo mondo sempre più globalizzato, dove tutto è veloce, in cui molti vedono (o più che altro sognano) possibilità di guadagno enorme con scarsa fatica, mentre altri (tra cui anch’io) al contrario possono avere varie incertezze per il proprio futuro. Molti di noi (sia giovani che adulti) non se ne preoccupano minimamente perché pensano che le risorse della Terra siano infinite, ma io credo che tanti si chiedano: come vivremo nel mondo quando saremo più di dieci miliardi di esseri umani? Dovremo rinunciare a molte nostre abitudini? Quali saranno le conseguenze di un numero sempre maggiore di immigrati nel nostro paese (ovvero migliaia di persone con una cultura completamente diversa dalla nostra)? Si riuscirà a proteggere ciò che rimarrà dell’ambiente naturale da cui dipendiamo da sempre per sopravvivere? Da dove arriverà il cibo che mangeremo? Scoppierà la terza guerra mondiale?… E di conseguenza… riusciremo a vivere sereni e realizzati? A tutte queste incertezze secondo me si aggiunge il senso di disorientamento del mondo di oggi: molti valori non esistono più, perché non sempre gli adulti riescono a trasmetterceli dato che a volte mancano la capacità, l’interesse o la passione per rapportarsi con noi adolescenti, tanto da perdere la nostra fiducia nei loro confronti. Di conseguenza può succedere di non trovare il coraggio e il tempo di confidarsi con qualcuno, per paura di essere giudicati; ci si affida all’esempio di internet e dei social, che ci mostrano come dovremmo essere, facendoci sentire inadeguati e spingendoci ad uniformarci al branco per venire accettati dagli altri. Inoltre ci si sente ulteriormente confusi dal fatto che veniamo bombardati da notizie non sempre vere, dal fatto che le autorità e gli scienziati, nell’informarci sui fatti che accadono, contraddicono regolarmente quanto detto in precedenza, si fanno battaglia a vicenda, oppure non vanno d’accordo internamente (un partito sostiene una causa mentre il suo “rivale” sostiene il contrario), come stiamo vedendo oggi nelle decisioni da prendere nella lotta al coronavirus e sulle precauzioni da adottare. E così non capiamo più nulla di ciò che sta succedendo…e forse è proprio questo l’obiettivo della politica: controllarci facendo leva sulla nostra ignoranza e sulle nostre paure. Per riuscire ad entrare nel mondo degli adulti occorre superare delle sfide, bisogna essere competenti, adattabili, avere pazienza, la voglia di lavorare ovviamente non deve mancare, bisogna essere onesti per dare il buon esempio, e molte altre qualità che dovremmo acquisire dall’educazione data dalla famiglia, dall’oratorio e dalla scuola.



A sentire i discorsi degli adulti, soprattutto quelli degli anziani, è vero che oggi si vive meglio e ci sono più opportunità, ma al tempo stesso, sotto alcuni aspetti, il mondo è diventato più difficile di un tempo. Spesso per chi vive in paesi piccoli o in campagna il paragone tra le due epoche è questo: una volta, con venti vacche, qualche animale da cortile e una certa quantità di campi coltivabili, pur con grandi fatiche e sacrifici si riusciva a mantenere una famiglia numerosa, nelle borgate ci si conosceva tutti, ci si aiutava a vicenda, il cibo (soprattutto la carne) era più sano perché prodotto in modo naturale, privo di sostanze chimiche o ormoni aggiunti per accelerare la crescita degli animali, le estati non erano siccitose come ai giorni nostri, ecc. Oggi invece è tutto cambiato, ma non bisogna dimenticare che ora ci sono macchinari che alleggeriscono la fatica e che ci sono più opportunità. Insomma, sfide ce ne sono sempre state, ma sono cambiate nel corso del tempo. Penso che molti giovani preferiscano il mondo di oggi, dove per fare fortuna bisogna pensare in grande, mentre altri la pensino come me, che sostengo che sarebbe necessario unire i valori, la semplicità, le tradizioni e il contatto con la natura di una volta con le opportunità e i mezzi di comodità di oggi, rinunciando a quelli superflui del consumismo.

Pur considerando che ognuno di noi è diverso da tutti gli altri, tutti sogniamo che il futuro ci porti libertà di scelta, serenità, soddisfazioni, realizzazione personale, amici con cui trascorrere il tempo libero, amore. Poi, in base al carattere e al proprio modo di pensare, molti possono desiderare di essere come gli idoli dei social, ovvero ricchi e apprezzati da tutti o personaggi d’affari, oppure fare una piccola fortuna con la propria professione. Altri, più semplicemente sognano un lavoro che soddisfi le proprie aspirazioni e una famiglia con la quale vivere serenamente. C’è chi non dà particolare importanza al luogo in cui vorrebbe vivere, come chi vorrebbe un lavoro che necessita di continui viaggi, c’è chi si affida al destino, chi sarà disposto a seguire il posto di lavoro (come fanno ad esempio gli insegnanti), mentre molti altri, per fortuna, si sentono legati alla propria zona d’origine (le classiche “radici”). Sono presenti anche giovani che non amano particolarmente il luogo in cui hanno vissuto l’infanzia o lo stile di vita che è necessario adottare in quel posto, e che quindi sognano di abitare in un’altra zona; chi vorrebbe vivere su un’isola tropicale, in una metropoli o in mezzo alla natura. Penso che tutti siano d’accordo con me se affermo che sia importante impegnarsi per trovare il proprio posto nel mondo (se si ha la possibilità ovviamente), cioè quel luogo in cui ci sentiamo a nostro agio, che capiamo essere adatto alle nostre esigenze e aspettative. Ognuno vuole (o almeno dovrebbe) trovare un senso alla propria vita, qualcosa che gli permetta di avere un motivo in più per alzarsi la mattina e che lo spinga ad impegnarsi e a combattere per raggiungerlo o per prendersene cura. In genere il senso della vita di noi adolescenti penso sia ciò che abbiamo o che possiamo ottenere nel presente, come l’amicizia, il tempo libero, il divertimento, la propria passione, l’amore, la difesa di una giusta causa (come alcuni dei ragazzi che manifestano per la difesa dell’ambiente), oppure la religione, ecc. Ciò che invece può rappresentare il senso della vita di molti adulti, come il successo, i soldi, la realizzazione personale, il creare una famiglia, ecc., può essere solo un sogno per noi giovani. Ma non bisogna dimenticare che spesso alcuni di noi fanno delle proprie aspirazioni future il senso vero e proprio della vita presente, che appena potranno li spingerà a combattere per realizzarle. 


Io, personalmente, mi pongo molte delle domande sui problemi del futuro, sono un po’ preoccupato per le difficoltà di questo mondo sempre più governato dai soldi, dalla concorrenza contro i più forti, dal fatto che non si possa più vivere e lavorare tranquillamente nel proprio piccolo mondo perché bisogna essere tutti connessi, super aggiornati su cosa dobbiamo fare per non andare in un fallimento causato da nuove leggi o dalla concorrenza dato che è necessario pensare in grande per guadagnare con un’azienda propria ed essere uniformati al resto del mondo (come sarà monotono il mondo quando vivremo tutti come gli americani o i cinesi, in un pianeta omogeneo, ormai privo di elementi tipici di ogni singola zona, dall’architettura, alla musica, dalla cucina, alla lingua, senza più dialetti, ecc.). Inoltre penso spesso a come si vivrà in un mondo sempre più popolato, cementificato, inquinato, con un clima sempre più invivibile per noi e per la natura che ci circonda. Non mi sento molto ottimista, ma ho comunque speranze e sogni. Dopo il diploma di tecnico agrario, andrei a lavorare per un’azienda che magari la scuola mi consiglierebbe, non ha molta importanza quale lavoro dovrei svolgere, l’importante sarebbe riuscire a risparmiare nel corso di qualche anno una somma di denaro sufficiente a realizzare il mio sogno, cioè andare a vivere in una borgata sulle montagne della nostra provincia di Cuneo, che noi della pianura troppo spesso consideriamo solo come il nostro parco giochi della domenica. In montagna mi piacerebbe avviare una piccola azienda agricola, coltivando ciò che è possibile far crescere lì, come patate, ortaggi, piccoli frutti, magari la segale (come facevano una volta); tenere puliti i boschi vendendo legna da ardere; tagliare il fieno; allevare qualche animale per utilizzo personale, come conigli e galline, o per passione, come un piccolo numero di pecore o vacche. In pratica vorrei fare ciò che si faceva una volta, pur con le comodità essenziali e le competenze di oggi. Se mi restasse del tempo libero andrei a fare escursioni, a sciare, a ballare le danze occitane alle feste di paese. Inoltre vorrei imparare a suonare l’organetto diatonico (che nelle nostre vallate viene chiamato “Semitoun”). Tutto questo porterebbe molta fatica e non sono sicuro che con un lavoro del genere sarebbe possibile mantenere la famiglia che vorrei creare con la persona giusta, ma sono sicuro che se ci riuscissi ne varrebbe la pena, perché penso che l’importante non sia essere ricchi, ma semplicemente riuscire a “tirare avanti” ed essere realizzati. Vivremmo in un luogo bellissimo, magari un po’ isolati dal “mondo” (che però secondo me è sempre più invivibile e non sono l’unico a pensarlo), ma a contatto con la natura, vedendo lo scorrere delle stagioni, lontani dal caldo torrido estivo e dallo smog invernale ormai tipici della nostra pianura, conducendo una vita scomoda, ma molto più sana che quella in città, pur sapendo che non sarebbe tutto rose e fiori, ma anche difficoltà e preoccupazioni (che tra l’altro sono presenti anche in chi vive in città con ogni comfort), ovviamente non sarebbe una vita adatta tutti, ma penso che lo potrebbe anche essere per me. La montagna avrebbe un grande bisogno di famiglie che la abitassero tutto l’anno, continuando a prendersi cura del territorio. E’ sbagliato pensare che aree svantaggiate come le nostre valli possano vivere solo grazie al turismo, come sostengono i politici. “Le nostre montagne hanno un alto potenziale turistico” è la frase che si legge ogni tanto sui giornali… come può bastare tutto questo?? I comuni della val Maira hanno visto aumentare le proprie nascite grazie ai visitatori italiani e stranieri? Molti terreni sono rimasti incolti, proprio come pochi decenni fa, quando di turisti non se ne vedevano mai. Sono ancora poche le persone disposte a lanciarsi in attività agricole in montagna. Mi fa rabbia scoprire che in alcune zone montane di giorno i cani anti lupo vengano vietati per evitare che causino problemi a noi escursionisti. Il turismo è giusto che ci sia, ma dovrebbe adeguarsi alla pastorizia, all’agricoltura e alla manutenzione dei boschi (cioè i lavori che si svolgono da sempre sulle Alpi), non viceversa.

Io la montagna l’ho sempre frequentata come turista, ma l’ho sempre vista come possibile casa e luogo di lavoro, anche perché credo che la vita sui monti trasmetta molti valori, tra i quali la pazienza, il rispetto per una natura molto più forte di noi dalla quale dipendiamo, di conseguenza l’umiltà, il senso di sacrificio, la prudenza, la fatica per raggiungere un obiettivo, il senso di aiutarsi reciprocamente con chi ci sta vicino, ecc. 

Cercherò di lottare per realizzare il mio sogno e auguro a tutti di riuscirci con il proprio, perché noi giovani abbiamo ancora coraggio, speranza, determinazione e forse maggiori opportunità rispetto ai nostri antenati, e per questo dobbiamo tornare a prenderci cura della terra e delle tradizioni, perché non si può più andare avanti così come stiamo facendo ora. 

Mi piace stare qui, così


La rivoluzione della montagna (di una ragazza di 24 anni)


Così. Così, come adesso, al tempo del contagio. L’assenza di frenesia nelle strade vuote e lugubri rispecchia in città la solitudine angosciata dei cubicoli (buoni per una vita “fuori”, di lavoro, week-end, svago consumista). Mentre nella montagna rurale il silenzio da il senso liberatorio di una “restituzione”, della montagna  a sé stessa, rispetto al tanto che la modernità e la colonizzazione culturale hanno tolto e al poco che hanno dato. Così, restati soli, scoprendo una libertà di cui si era perso il valore, si fa “la tara” alle lusinghe della cultura cittadina, anche quelle “ecosostenibili”. La montagna rurale saprà vincere, fare le sua rivoluzione silenziosa, se saprà avere il coraggio dell’operare giorno per giorno, non seguendo mode effimere, ascoltando la montagna (e i lasciti di generazioni che l’hanno ascoltata). Detto da una ragazza di 24 anni lascia ben sperare.
     

di Agnés Garrone

(29.04.20) “un tempo eravamo poveri ma eravamo felici” … questo è ciò che ogni anziano e meno anziano delle nostre montagne mi ripete con occhi languidi e espressione rassegnata.

Ma, mi chiedo io, può essere veramente così, o da sempre ogni generazione precedente ripete ai propri giovani questo mantra rimpiangendo la propria giovane età, ormai irrimediabilmente persa?!

Sono una ragazza, ho 24 anni, sono nata qui, a 1120 metri, in una casa in pietra. Sono cresciuta qui, tra pecore, fieno, letame e rovi. Vivo, lavoro e studio qui. E qui mi piace! Mi piace perdermi tra i boschi, guardare le vecchie piante di castagno, ormai storpie e monche; mi piace sporgermi dalle rocce per vedere la pianura che brulica di luci ferme o in corsa all’imbrunire; mi piace addormentarmi al pascolo sul materasso morbido e frusciante di erba veiro1; mi piace il silenzio che cala nella valle dopo l’estate. Mi piace, forse, perché l’ho sempre visto così, questo mondo in decadenza: l’ho sempre visto decadente. Ma non posso negare che ho sentito un tuffo al cuore ieri quando ho scoperto che la volta della casa di Bergèro è crollata, quando ho cercato nelle macerie il santino di San Magno, un libro sbrandellato di grammatica italiana, un bottone in madreperla…. Vedere decadere un mondo, il proprio mondo, che già si conosce decadente, fa germogliare nella mente e nel cuore il triste pensiero che forse un giorno qualcuno verrà a visitare le nostre borgate, le nostre case e farà come ho fatto io ieri: raccoglierà qualche ciarpame dalle macerie, cercherà di trattenere e strappare al tempo qualche brandello di ciò che è stato. Ora siamo noi, domani sarete voi…quod tu es ego fui, quod ego sum et tu eris [Iscrizione di Fano: “così come tu ora sei anch’io lo fui un tempo, così come sono io ora, anche tu lo sarai”]

Eppure di giorno in giorno la mia vita quassù prosegue guardando al futuro, a un futuro lontano. I sogni non si fermano di fronte a una maceria e, anche se il bosco avanza, anche se il silenzio ogni inverno si fa più assordante, anche se la solitudine a volte trafigge il cuore più di un coltello, non credo di poter vedere la mia vita altrove e, forse per testardaggine, non voglio credere a chi ci definisce pazzi, idealisti o irrealisti.

Non saranno i grandi investimenti di gente venuta da fuori a salvare la montagna, non saranno le piste da sci o le visite guidate a dare speranza a questi territori, non saranno grandi progetti di restauro e recupero architettonico, non saranno i musei, non saranno le strade e forse nemmeno internet che potranno garantire un futuro a questa e alle altre valli… non credo in una rinascita green della montagna, non credo negli ideali falsi di marketing che sfruttano le nostre rive per un soffio di anni per poi dimenticarle al primo sberluccichio di una moda più redditizia altrove. Ci ho creduto, ma non ci credo più. Nei miei pochi 24 anni ho visto nascere e morire tante false speranze, tanti investimenti grandiosi che avrebbero dovuto salvarci.

Eppure credo e credo fermamente che la montagna non morirà, non soccomberà, non ancora, non finché la gente che la abita sogna di lavorare, di vivere, di continuare, di crescere i propri figli in quei posti in cui è nata. La vita di montagna non è mai stata una vita di grandi eroi, di grandi personaggi, di grandi imprese, di grandi investimenti e grandi attività. La vita di montagna è lenta, è calma, è silenziosa… non ama folle di turisti, non ama il rumore, non ama la frenesia e le rivoluzioni fragorose. In montagna, comanda la montagna: bisogna saperla rispettare come un padre, bisogna saperla aspettare come un bambino, bisogna saperla curare come un malato, bisogna saperla assecondare come uno scaltro mercante, bisogna saperla vivere, ogni giorno, ogni ora, ogni stagione… la rivoluzione dei montanari c’è, esiste, è in atto, ma è selettiva, è dura, è lenta, è silente: l’avrà vinta solo chi saprà capirla, viverla e crederci giorno per giorno.

TRANSUMANZA AMARA (2)

Ancora una voce controcorrente, dopo quella di Anna Arneodo , nel dibattito aperto da su “Transumanza Unesco: beffa o occasione?”.  Anna alleva pecore. Alberto Delpero, l’autore di questo nuovo contributo, non ha pecore ma è profondamente legato alla realtà ruralpina della propria terra. E’, soprattutto, un resistente della montagna, protagonista della battaglia per mantenere a Pejo quella che era l’ultima scuola pluriclasse del Trentino.

Alberto Delpero con Giusi Quarenghi, autrice di racconti per l’infanzia e poetessa, – originaria di Taleggio – in visita a Pejo prima della chiusura della scuola

Nel villaggio alpino, il più alto della val di Sole, è rimasto l’ultimo caseificio turnario.  Dichiarato “museo”,  è stato tollerato (“neutralizzato”) come una eccezione un po folkloristica. Ma la scuola di Dalpero, che ha anche tentato di sopravvivere come “parentale”, era un centro di iniziative culturali e pedagogiche avanzate (vedi qui). Come spesso accade le soluzioni “arretrate”  sono le più innovative, il che da fastidio a chi vuole imporre, dai centri di comando (più o meno lontani), la propria volontà sulle “periferie”.

Alberto è tutt’ora insegnante di una pluriclasse, al passo del Tonale. Trasferito nel 2017 a una scuola della val di Non per “incompatibilità” con il dirigente scolastico della val di Sole, è tornato al Tonale per sentenza della corte di appello di Trento del febbraio 2019.  Dalpero è  impegnato  in diverse iniziative culturali (organizzatore di cori e della Libera Università di  Pejo).

L’alta val di Sole era terra di transumanza: attraverso il Tonale le pecore solandre scendevano nella bassa bresciana. Quelle camune, in estate, alpeggiavano da queste parti, oltre che in alta Valtellina. A Pejo le pecore (e le capre) ci sono ancora (foto sopra).

A buon patrimonio buon matrimonio

di Alberto Delpero

(04.02.20) L’UNESCO è diventato una specie di Vittorio Emanuele II°. Ricorderete dai libri di storia che il nostro Padre della Patria elargiva con prodigalità riconoscimenti e decorazioni per garantirsi la stima del suo popolo. Un diploma di cavalierato e un sigaro toscano non si nega a nessuno spiegava ai suoi ministri.

Tale è la politica attuale dell’agenzia dell’ONU creata per tutelare il patrimonio culturale (assieme agli ambienti naturali, alle scienze e all’educazione – ambizione altina?). Partita da egida per i monumenti che nel divenire storico dell’umanità hanno rappresentato testimonianze di civiltà universali è arrivata ad essere il cappello di manifestazioni che appartengono a singole comunità o addirittura a sparuti gruppi di interesse. Specialmente da quando (2001) si sono istituiti i certificati per i beni immateriali la cosa è sfuggita un po’ di mano.

Ogni popolo ha la sua cultura e nessuno l’ha meno di un altro ha scritto un prete antipatico e reazionario (don Milani). Sottoscriviamo. Perché il canto georgiano dovrebbe avere un pedigree che lo classifica più importante per l’umanità rispetto alla tradizione orale dogon [ I Dogon sono un popolo del Mali, un popolo contadino orgoglioso ], sono ben noti agli antropologi per la loro complessa e originale cosmogonia? E perché la pizza napoletana è più densa di valori alimentari e culinari per l’umanità rispetto allo stoccafisso?

Lo stesso vale per i paesaggi. Le Dolomiti valgono più del Cerro Torre per l’umanità? Suvvia. Siamo di fronte a un mercato politico (le nomine UNESCO sono governative) che mira a potenziare il proprio bacino elettorale con patenti di autenticità e purezza culturale rilasciate dall’autorevole agenzia ONU la quale, per inciso, ci costa 12 milioni di euro all’anno solo per l’ordinario.

La medaglia va ora alla transumanza. Proposta da Italia, Grecia e Austria. Vale a dire paesi dove anche questa nomade forma di allevamento si è meccanizzata e sempre più spesso i greggi transumano stando fermi sui tir con la scritta Trasporto Animali Vivi. Cioè non è più transumanza. Anche per conseguenza di politiche agricole che hanno trasformato in colture intensive aree storicamente interessate dal pascolo. Interrotta la continuità dei tratturi, il gregge è obbligato a “saltare” da un’area pascolo all’altra. Ma non è questo il problema, si può omaggiare anche un valore storico. Il fatto è che l’onorificenza è una pura patacca se non è seguita da azioni concrete dei governi, specialmente di quelli che l’hanno promossa. Contestualmente alla premiazione si deve assistere all’incentivazione di prodotti ovi-caprini che (ri)portino il prezzo del latte a quote dignitose. Come? Obbligando per legge le mense pubbliche (specie scolastiche ed ospedaliere) ad inserire nei menù carni e formaggi di pecora e capra. Fatto questo si prescrive l’obbligo per comuni e regioni di ricorrere al gregge per gli interventi di recupero e cura del paesaggio come lo sfalcio dei prati incolti.

I pastori tengono i piedi per terra prima di respirare. Non se la sono fatta raccontare. Più la predica è magniloquente più fiutano l’inganno. La nostra Anna Arneodo ha colto nel segno: quella riconosciuta dall’UNESCO è una transumanza virtuale; non sporca, non puzza e, aggiungo io, non blocca le strade se il latte di pecora viene pagato meno dell’acqua.


Popolo alpino … a rischio estinzione

Le “piccole” cose che stanno uccidendo la montagna (nessuno potrà dire: “non sapevo, non ce l’aveva detto nessuno”)

Un insieme di  scelte deliberate, l’indifferenza,  gli automatismi burocratici, l’applicazione ottusa di regole pensate per la prevalente realtà urbano-industriale, stanno uccidendo la montagna. Non più lentamente, velocemente. Forse in modo radicale, epocale. Si sta tornando indietro di 1500 anni (forse di più). 

Andrea Aimar, un giovane di 25 anni dell’alta val Maira – in provincia di Cuneo-, torna sul tema del futuro della montagna. Se, per gli anziani, riflettere su questo è motivo di rimpianto e di malinconia o, al massimi, di sordo rancore contro non si sa bene chi, un giovane o fugge o si ribella. In ogni caso vuole capire chi gli sta rubando la possibilità di un futuro dove è nato e vorrebbe restare. Ribellione in che forme? Non lo sappiamo ancora, però dal Veneto al Piemonte non si odono più solo le voci di rassegnazione, la lamentosità che viene sempre rinfacciata ai “villici”, agli “agricoli”. Si moltiplicano le voci che denunciano come la “morte della montagna” sia voluta, perseguita consapevolmente. Ancora isolate ma se si unissero in coro... E chi asseconda l’andazzo è colpevole e deve sapere che non resterà anonimo, nascosto tra i cespugli del “sistema”. 

Non si accettano più come “calamità naturali” i processi di sempre più marcato controllo del territorio da parte di poteri esterni (“le convenzioni internazionali”, “gli ambientalisti”, la “commissione europea”). Ci si rende conto che il processo di esautorazione, di espropriazione, iniziato con la modernità e lo “stato nazionale”-  con la sua burocrazia ancora “artigianale” – oggi sta arrivando a compimento.  Ma non sarà come far bollire la rana a fuoco lento, addormentandola nell’acqua tiepida, che gradualmente va a ebollizione e lessa la vittima. No. Oggi gli interessi che perseguono la morte della montagna (e non solo della montagna, di tutte le comunità che voglio continuare a vivere con un minimo di autonomia e mantenendo i propri valori e tradizioni), sono costretti a metterci la faccia. Pochi giorni fa gli ambientalisti saliti dalla città hanno marciato sulla Lessinia (Vr) in settemila per dire no a quanto deciso (la perimetrazione di un parco inutile come tanti altri) da un Consiglio regionale democraticamente eletto da (potenzialmente) TUTTI, una decisione sostenuta dalla stragrande maggioranza della popolazione locale. Hanno contestato propalando miserabili bugie (quasi Attila fosse alle porte, i boschi rasi al suolo, le montagne cementificate (tipo piastra Expo dell’ambientalista Sala), hanno creato un clima di odio tale che al mercato a Verona i contadini della Lessinia sono stati insultati quali “parcocidi”.

I parchi e i lupi – con quale accanimento e livore li difendono! – sono la punta di diamante, gli aspetti più evidenti e aggressivi della volntà di pulizia etnica della montagna. Ma non sono quelli decisivi, sono la goccia che fa traboccare il vaso e apre le porte alla soluzione finale.

Andrea individua alcune “piccole cose” che, messe insieme (e unite a tante altre) rappresentano altrettante micidiali pugnalate: un quadro normativo e fiscale che condanna i pastori a  smaltire la lana come rifiuto speciale con pesanti costi (o rischio sanzioni), le truffe legalizzate (dalle norme europee) sui pascoli che penalizzano margari e pastori a volte privandoli delle montagne, gli adempimenti che ammazzano il piccolo commercio valligiano (già massacrato dalla politica di concessioni a go go per la GDO al piano), i divieti di… transumanza, le fatture elettroniche. E poi Andrea tocca un tasto decisivo: si chiudono i servizi, per risparmiare si dice, ma girano ancora un sacco di soldi “per la montagna” che vanno spesi “come vuole Bruxelles” che alimentano, per l’appunto, “giri” che non toccano terra in montagna, che alimentano tutt’altro di quello che ci vuole per tenere le famiglie in montagna e curare il territorio.

di Andrea Aimar

(29.01.20)  Sono belle le montagne viste come un’oasi di benessere, dove regna la tranquillità in una natura incontaminata, con paesaggi stupendi in ogni stagione, fatti di sentieri, flora, fauna, laghi e cascate, rifugi e bivacchi, creste e vette maestose. Ma poi c’è la montagna, a volte poco considerata, che va’ oltre all’estetica, agli scenari e panorami da togliere il fiato. Quella montagna tenuta in vita da gente che su quei pendii ci abita, ci lavora e si prende cura tutti i giorni, silenziosamente, di quell’immenso territorio, con un legame particolare chiamato “attaccamento”, sinergia unica tra l’uomo, e la “propria” terra


Negli ultimi decenni si è fatta un’importante rivalutazione del paesaggio montano dove intere borgate sono state recuperate onorevolmente, come in provincia di Cuneo le frazioni di Chiappera in alta val Maira, Chianale in val Varaita, Campofei e Valliera in val Grana ed Ostana in val Po. Ma contemporaneamente molti più borghi sono stati lentamente abbandonati, lasciando alla vista un rilevante patrimonio architettonico, disabitato per la maggior parte dell’anno. Se da un lato ci sono state innumerevoli riconsiderazioni sulla pulizia di molti sentieri, decine e decine di prati un tempo falciati sono diventati una foresta impenetrabile.
Non basta proclamare la transumanza “Patrimonio dell’ UNESCO” se poi molti alpeggi vengono assegnati per i contributi, a gente che in montagna non investe neppure un centesimo, indebolendo maggiormente i piccoli pastori e gli allevatori locali. È ridicolo, ed inquietante, come la lana non sia considerata prodotto agricolo, con un’IVA al 22%, mentre i tartufi solamente al 4%! Non solo non si trova più a venderla, ma bisogna pagare lo smaltimento perché considerata rifiuto speciale.

Alcune foto di Luca Degiovanni, 27 anni, uno degli ultimi pastori della valle Maira

Oggi, più che mai, ciò che tiene attivi i pastori è la passione per il proprio lavoro. Salvare la transumanza? O salvare i pastori ed il loro mestiere?

C’è differenza… Perché i pastori sono in un numero così irrilevante rispetto ai margari? Perché la nostra Regione Piemonte vuole tutelare maggiormente la razza bovina? Logicamente molto diffusa nella pianura… Cercano di resistere, invece, i piccoli Consorzi locali, come quello dell’ “Escaroun”, in alta valle Stura, alla tutela e valorizzazione della pecora Sambucana. A loro sì che andrebbe affiancata un energico e mirato sistema da parte della politica!

Finché in paesi di fondo valle avremo la Conad aperta 24h e nelle valli la guardia medica dalle 17 alle 19, dove andremo a finire? Non basta divulgare slogan “comprate in valle” se poi agli ultimi esercenti rimasti dei borghi viene imposta la fatturazione elettronica, penalizzando ulteriormente il settore con spese e disagi. Poco tempo fa in Valle Maira c’è stato un controllo della Guardia di Finanza a diverse attività. Sarebbero ben altre le persone da ispezionare, che non quei montanari che ogni mattina alzano la serranda del proprio negozietto ai 1200 metri, cercando con tutto l’impegno possibile di tenere aperta una piccola attività, cuore pulsante di molti paesini di montagna! Finché si continuerà a investire patrimoni alla tutela dei dialetti, come l’Occitano, senza rendersi conto che ora come ora, in interi comuni praticamente più nessun bambino è in grado di parlarlo (che è diverso dal semplice capirlo), a cosa sono serviti tutti questi milioni negli ultimi 20 anni?

C’è diversità dall’abitare in montagna, all’essere montanari. È vergognoso come la montagna sia, a volte, un grande giro di soldi dietro le quinte. Discorso che non si vuole accennare ovviamente. È ormai consuetudine prediligere le favole, dove tutto è bene e pochi possono interferire.
Ci sarebbero ancora parecchi fondi a disposizione dei montanari, ma dall’alto vengono gestiti in malo modo?
Finché si continuerà a guardare la montagna come una fotografia panoramica mettendo in risalto spesso il contenitore e poche volte il contenuto, quale avvenire per la gente di montagna, popolo alpino?

Andrea Aimar con i suoi intagli
Immagini della val Maira

L’esodo culturale uccide la montagna


Con questo intervento il dibattito tra montanari sul futuro della montagna entra nel vivo. Rispondendo ad Andrea Aimar (val Maira, CN) , Carminati dalla valle Imagna bergamasca,  mette l’accento sui processi  culturali oltre che su quelli socio-economici. Vero che la montagna è colonizzata , che le normative la penalizzano, che è priva di rappresentanza politica, ma il problema è anche l’autocolonizzazione, l’esodo culturale che – altrettanto negativo dello spopolamento demografico – rende i montanari estranei alla montagna pur continuando a risiedervi, ma senza più legami concreti e  simbolici con il territorio, con la memoria della comunità

 

SPOPOLAMENTO E SPAESAMENTO.

RIQUALIFICAZIONE E RICOMPOSIZIONE
DEI FONDI PRODUTTIVI IN MONTAGNA
di Antonio Carminati

 

(21.12.19) Ho letto recentemente due articoli pubblicati sul blog Ruralpini Resistenza rurale di notevole interesse per coloro che della montagna non ne hanno fatto solo un caso di studio, bensì rappresenta il campo quotidiano di espressione della vita e del lavoro.

In Alta Val Maira un giovane, Andrea Aimar (vai a vedere qui l’intervento), si interroga sul futuro della montagna e denuncia lo stato di abbandono, da parte del mondo della politica e delle principali istituzioni sociali, in cui versano le vallate alpine e prealpine, con i rispettivi insediamenti umani che nei secoli hanno agito da presidio e centri di umanizzazione dell’ambiente. La montagna soccombe perché vengono meno i suoi abitanti, i montanari. Questo Andrea lo ha compreso bene. Il grande esodo verso le aree urbanizzate di recente formazione, distribuite nelle fasce pedemontane, le stesse periferie urbane e i principali centri industriali, è cessato nei recenti anni Ottanta del secolo scorso, quando intere famiglie hanno abbandonato le antiche contrade di monte per trasferirsi in città, soprattutto in forza della spinta propulsiva introdotta dai fenomeni di industrializzazione, urbanizzazione e scolarizzazione di massa. Quel vistoso fenomeno di spopolamento, registrato anche sul piano demografico, aveva sì saccheggiato alla montagna un’incredibile quantità di forza lavoro, ma soprattutto aveva sottratto alle terre alte quella centralità che avevano saputo costruire e mantenere nei secoli precedenti.


Emigranti dalla valle Imagna
Attualmente il processo in corso di rivisitazione della montagna non è più solo quello demografico – diverse aree montane registrano, infatti, un situazione di stasi – vistoso, concreto e drammatico, ma attiene più propriamente ai livelli di pensiero e soprattutto alla percezione da parte dei montanari del difficile rapporto con il loro ambiente di vita. Una relazione di appartenenza critica, con ferite che fanno ancora male, per certi versi invisibile, non per questo meno grave e pericolosa. Abbiamo ribadito più volte il concetto secondo il quale non basta vivere in montagna per considerarsi montanari. Anzi, accade a volte che i cittadini i me bàgna ol nas [ci bagnano il naso, ci superano], ossia risultano più attenti ai bisogni della montagna di quanto non lo siamo noi. Distratti. Assistiamo al giorno d’oggi non più a esodi fisici di persone, ma soprattutto di pensieri e progettualità: la montagna soffre, oltre che che per la malattia dello spopolamento, anche per quella dello spaesamento. Molti montanari hanno smarrito la strada, vivono una relazione di estraneità con il territorio, come se improvvisamente – dopo la spinta in avanti impressa dal boom economico del secondo dopoguerra e poi della crisi del modello di sviluppo industriale – si riscoprissero in un ambiente “altro” e quasi sconosciuto, difficile da governare senza applicare, anche quassù, i modelli di sviluppo e di governo propri della città. Viviamo in montagna, ma pensiamo e operiamo da cittadini.

Un centro commerciale in alta Valtellina
Le difficoltà rilevate dall’amico Andrea Aimar – che mi pare di aver sempre conosciuto – sono le stesse che viviamo tutti quanti, soprattutto coloro che dal lavoro in montagna devono ricavare un’entrata economica sufficiente, perché quassù non si può vivere solo di aria buona, per poi commuoversi di fronte a ineguagliabili paesaggi. Tali difficoltà riflettono l’atteggiamento di tipo coloniale messo in atto da realtà e forze esterne che non comprendono i bisogni reali dell’ambiente montano e delle popolazioni che lo abitano, tantomeno percepiscono il carico di umanità e di libertà delle espressioni culturali dei piccoli gruppi organizzati, resilienti sulle pendici delle loro montagne. Una politica coloniale che, negli ultimi settant’anni, ha interpretato la montagna come una terra di conquista, un serbatoio cui attingere robusta e generosa forza lavoro da trasferire altrove. Andrea, nella sua lettera accorata, ha elencato diverse criticità, soprattutto per il mancato riconoscimento, a tutti i livelli, della specificità della montagna, tanto sul piano produttivo, quanto su quello commerciale, amministrativo e dei servizi. Differenze e criticità dimenticate dalla politica. D’altra parte è pur vero anche che gli abitanti della montagna, oggi più che mai, appaiono disorientati, frazionati, si sentono soli e rinunciatari, in modo particolare quanti cercano di mantenere una relazione vitale e produttiva con il territorio. Privi di una loro specifica rappresentanza.

Processione nei prati a Fuipiano in alta valle Imagna
Quella che abbiamo oggi sotto gli occhi è una montagna già ampiamente saccheggiata e ancora assestata su posizioni difensive, che cerca disperatamente di sopravvivere, mantenendo quel poco che le è rimasto, aggrappata alle proprie rappresentanze municipali e alle organizzazioni sociali di base nei vari villaggi, la cui economia principale gravita ormai su centri occupazionali esterni. La sua posizione di retroguardia mette la montagna ancora nelle mani dei colonizzatori esterni, i quali la utilizzano per sperimentare i propri modelli di sviluppo, che il più delle volte con le terre alte hanno poco da spartire. Evidentemente l’abbandono delle attività agro-silvo-pastorali nel loro complesso, l’esodo fisico e culturale dei montanari, la perdita di memoria storica e il venir meno del bagaglio di conoscenze trasmesse dall’esperienza… costituiscono una grossa falla nei sistemi territoriali anche alle medie quote, impedendo o rallentando la generazione di nuove opportunità.

Sosta della transumanza verso la pianura a Locatello in valle Imagna
Ritengo che la montagna tornerà a vivere non tanto se le attività economiche e produttive sconteranno una diversa aliquota Iva, se ci saranno agevolazioni sull’acquisto e ricomposizione delle terre, oppure se il costo del lavoro dovesse essere abbattuto a favore dei piccoli allevatori o agricoltori,… – tutte questioni assai importanti e delicate, per l’ottenimento delle quali bisognerà ancora lottare – ma in primo luogo se i montanari riusciranno a recuperare la consapevolezza della loro esistenza, dei valori di cui sono portatori, nella continuità con una storia sociale ricchissima di situazioni, esperienze, conoscenze. Abbiamo di fronte a noi una montagna da ripensare e ricostruire pezzo per pezzo, dopo il terremoto sociale avvenuto nella seconda metà del secolo scorso, che ha letteralmente demolito il suo impianto costitutivo tradizionale, incominciando ad esempio, per quanto ci riguarda, dalle piccole pratiche zoo-casearie e agricole che, seppure sostenute in condizioni di svantaggio economico, hanno il pregio di segnare la strada e di dimostrare che non tutto è perduto. Dovranno essere innanzitutto i montanari a rigenerare la montagna e la politica dovrà rappresentare un accompagnamento graduale alle singole azioni di superamento delle condizioni generali di svantaggio. Per cui, carissimo Andrea, un’altra volta tocca ancora a noi rimboccarci le maniche – ma non è questo che ci preoccupa – per tenere aperti quegli spazi di autonomia, di libertà e di servizi che i nostri predecessori hanno saputo costruire da queste parti. Ostacolando quanti sostengono becere tendenze alla rinaturalizzazione di ampi territori, per i quali la presenza dell’uomo costituisce un problema: essi dimenticano che l’ambiente alpino e prealpino è un contesto fortemente antropizzato, dove i manufatti e la presenza dell’uomo, che ha modificato il volto dei versanti, costituiscono componenti essenziali e irrinunciabili del paesaggio. Facendo barriera contro coloro che riconducono l’esistenza solo ad una visione economicistica. Tutto ciò innesca processi pericolosi di marginalizzazione sociale, di degrado e dissesto ambientale, quando la montagna è interpretata come una grande periferia della città, una sorta di parco pubblico dove trascorrere il fine settimana o le vacanze. Nell’immediato tocca a noi sfruttare al meglio innanzitutto tutte le agevolazioni e le opportunità che ci si presentano dinnanzi. Se sapremo essere determinati e riusciremo a generare numerose micro azioni di economia in montagna, dal modesto allevamento zoo-ovi-caprino alle piccole colture estensive e alle numerose attività artigianali, sono certo che potremo coinvolgere tutta la popolazione alle nuove prospettive della centralità della montagna, dove dare vita a nuovi impulsi residenziali e produttivi richiamando pure l’attenzione di politici e istituzioni. C’è ancora molto da fare.

Mappa di comunità di Montenars, nel Gemonese
Un esempio di rigenerazione rurale è dato dalle Associazioni fondiarie, istituite e introdotte di recente per la ricomposizione dei fondi. Prendo spunto dal pensiero di Claudio Biei pubblicato di recente su Ruralpini (vai a vederlo qui). Non so se questo sia lo strumento migliore in montagna, sulla scorta, ad esempio, non proprio positiva, dei Consorzi forestali. Se non altro la questione solleva un problema non indifferente. Con la fine dell’antico mondo contadino e la consequenziale perdita della centralità della terra e del villaggio, a favore della fabbrica e della città, nella seconda metà del secolo scorso milioni di ettari di terra sono stati letteralmente abbandonati e ciò ha prodotto, in pochi decenni, due gravi guasto ambientali e sociali: la continua dequalificazione delle particelle catastali e la loro polverizzazione. In poco tempo i campi coltivati a vanga sono diventati prati, i prati stabili si sono trasformati in pascoli, i pascoli in boschi, i boschi un tempo oggetto di pratiche costanti di taglio colturale oggi sono diventate foreste impenetrabili e selvagge. Soprattutto il bosco oggi la fa da padrone sui versanti e arriva ormai a circondare e minacciare da vicino le contrade abitate. Insediamenti rurali robusti e ben compatti, come piccoli fortilizi contro il dilagare di evidenti situazioni di abbandono, molte volte essi stessi vengono attaccati dal medesimo triste fenomeno. La perdita di interesse verso la terra a scopo agricolo ha intensificato il processo di frammentazione degli antichi poderi, un tempo veri e propri centri di produzione familiare, in tante particelle catastali quanti sono stati gli eredi beneficiari, ciascuno dei quali divenuto proprietario di piccole porzioni di terra non più utilizzabili per la loro esigua dimensione. Ciò è avvenuto con la fine della famiglia contadina, quando cioè nessuno dei figli ha dato continuità al lavoro prevalente del padre nella stalla, nel prato o nel campo, preferendo l’occupazione in fabbrica, sui cantieri edili o nei servizi cittadini. Benvenuta sia, dunque, l’iniziativa delle Associazioni fondiarie, ma probabilmente da sola non basta, se non si introducono prima possibile azioni parallele di sensibilizzazione e interventi strutturali di sostegno ai singoli imprenditori agricoli, finalizzati alla riqualificazione fondiaria e a favorire la sua ricomposizione, per rimettere insieme i vari pezzi di un puzzle disfatto e ricostruire così il volto unitario di ambienti prossimi alla medesima proprietà.

Fienagione in valle Imagna
La montagna, si sa, è un ambiente fragile, ricco di ecosistemi locali generati pazientemente dall’uomo, quando nei secoli scorsi si è posto in relazione coerente con la natura, molti dei quali purtroppo oggi sono a rischio di scomparsa. È un ambiente da non sciupare, ma da conservare e difendere, per contenere gli effetti disastrosi prodotti tanto dallo spopolamento, quanto dallo spaesamento. La montagna continua a vivere in coloro che, nonostante le molte difficoltà, costruiscono col loro lavoro una relazione concreta e quotidiana con la terra e gli spazi della contrada dove essi abitano. Vive ogni qualvolta un montanaro, come ha fatto Andrea, s’interroga con onestà circa la propria collocazione nella storia e nella società rurale e riflette sulle condizioni più generali di resistenza. Vive quando il prato viene sfalciato, il bosco assorbe il rumore rabbioso della motosega e sui versanti l’estate pascolano le vacche. Continua a vivere quando genera relazioni solidali tra montanari, come il blog Ruralpini e altri canali di comunicazione, cui va la nostra gratitudine, si prefiggono tutti i giorni di promuovere e sostenere.

TRANSUMANZA AMARA

 

Cosa serve proclamare la transumanza “patrimonio dell’umanità”? I pastori se lo chiedono, con molta amarezza, quando viene vietato a questo “patrimonio”, fatto di concrete vacche, pecore, capre, di transitare sulle strade (“per non sporcare”). Se lo chiedono anche quando i pascoli sono – grazie alle regole europee – accaparrati dagli speculatori. La transumanza che piace è quella che non disturba, che attira il turismo con eventi folcloristici, che catalizza i finanziamenti, che – come scrive Anna Arneodo –  “scorre con bellissime immagini sui media, che non puzza, che non sporca, che non porta con sé fatica, sudore, sofferenza, stanchezza”. Un intervento, quello di Anna, che merita di non rimanere un grido di dolore ma di  dar vita a un franco dibattito.

Transumanza: patrimonio UNESCO!

di Anna Arneodo (di Coumboscuro)


(17.12.19) Ho sentito con piacere la bella notizia: è un bel regalo di Natale! Mi riconosco in questo sogno di conquista di civiltà, di riconoscimento culturale, di riappropriazione di identità, di rimpianto “pietoso” di un mondo che non c’è più, ma che nostalgicamente ci appartiene.

Ma cos’è questa transumanza? È il ricordo scolastico di versi dannunziani “Settembre, andiamo. È tempo di migrare. Ora in terra d’Abruzzi i miei pastori lascian gli stazzi e vanno verso il mare”?


È una bella foto di un fiume di schiene lanute o il suono festoso dei campanacci sbatacchiati da prospere vacche valdostane?


Oppure è la festa similfolcloristica di una finta transumanza ad una fiera di paese con finti pastori vestiti di camicie a scacchi e cappelli da cowboy?

Una transumanza che scorre con bellissime immagini sui media, che non puzza, che non sporca, che non porta con sé fatica, sudore, sofferenza, stanchezza.
 
La transumanza reale è fatta di pastori, di uomini e donne che ogni giorno faticano, si appassionano, si sporcano, si arrabbiano, si scontrano di continuo con questa società che corre in una direzione opposta e contraria alla loro, che li costringere ad essere – i pastori e non più i lupi – in via d’estinzione.


I pastori vorrebbero poter sognare un mondo bello di montagne verdi, fiumi di pecore, mucche, agnelli e vitelli, cani, campanacci, ma poi si scontrano con la burocrazia, i divieti, le tasse da pagare. «Sulle strade statali, dell’ANAS, con le bestie non puoi più passare!». Ma la transumanza, patrimonio dell’UNESCO, dove passa? Su Google, sul cellulare, sullo smartphone?

Nel momento stesso in cui il sistema costringe noi pastori e montanari a scomparire, a morire, innalza la nostra immagine stereotipa a “patrimonio dell’umanità”. Vergogna!
 
Anna Arneodo
Borgata Marchion 8/A- COUMBOSCURO
12020 Monterosso Gana- CN
017198744
meirodichoco1@gmail.com


Il grido di un pastore: “Non ci vogliono più!”


di Giuseppe “Pinoulin” (di Roaschia)


(20.09.19) Ho letto su La Guida, il nostro settimanale, che non vogliono più lasciar fare le transumanze. Io sono pastore, nato in transumanza tanti anni fa (e se le conto supero le 150: penso sia un record).

Ma quelli che fanno queste leggi sanno cosa sono e cosa vogliono dire? Sanno chi sono i veri custodi delle nostre montagne? Sono i pastori, i veri amanti degli animali, non gli animalisti che non hanno mai avuto una gallina, ma solo cani. Essere pastori vuol dire fare un lavoro duro senza mai fare ferie per amore degli animali. Ma sapete cosa vuol dire vietare una tradizione fatta da migliaia di anni? Le nostre città in questi anni sono piene di cani e i muri delle case sono tutti gialli e c’è una puzza che fa male. Però se non hai un cagnolino non sei nessuno e – lasciatemelo dire – è uno schifo anche per la salute dei bambini.


Sulle montagne abbiamo già il problema dei lupi che i miei colleghi pastori devono già mantenere. A me i lupi non piacciono, ma meno ancora sopporto chi li protegge. Sono un nostalgico, pastore e ho pagato anch’io le stragi fatte dai lupi.

Le nostre montagne, coltivate da contadini, margari e pastori, dai veri montanari, erano belle non distrutte dal turismo o patachin di massa. Ora, abbandonate da pastori e montanari, divengono pericolose per incidenti e alluvioni. La montagna è bella ma non va solo calpestata e si devono rispettare anche le persone che lavorano, con poche comodità e tanta fatica e con affitti mostruosi e come tetto le stelle, sempre al pericolo di fulmini o massi che ti vengono addosso.

Le industrie inquinano l’aria e i fiumi, ci fanno respirare veleni, l’odore di una mandria o di un gregge è un profumo, non adoperi la mascherina, perché è salute.
Voglio dire ai nostri amministratori: fate cose belle, meno scandali, amate e non sprecate il denaro pubblico che non è vostro, siate responsabili e pensate anche a chi, meno fortunato, mangia la paglia, ma forse vi ha anche votati.

Nelle ultime transumanze ho notato tanti giovani non del mestiere che per un giorno sono felici di fare un lavoro che noi facciamo tutti i giorni. Ricordate che il pastore e il margaro non vanno in ferie: le ferie le fanno tutte quando sono anziani e non possono più lavorare. E non fanno Natale, per servire chi mangia il
latte anche quel giorno, alle bestie non puoi portare il giornale e la TV al posto del fieno.