Approfittando del clima del post contagio l’Uncem torna a proporre le sue ricette di montagna “da bere”. L’Uncem (Unione dei comuni e delle comunità montane) è in realtà un’agenzia di professionisti della politica e di tecnocrati, pronti a farsi promotori e mediatori di interessi rampanti. Articolazione della borghesia svendidora urbana, ha l’impudicizia di rappresentare la montagna. Lo si è visto nel caso delle biomasse e della promozione di speculazioni immobiliari sulle borgate abbandonate. Ora vuole proporre un’operazione più vasta. Prima si costringe a fa scappare la gente (via i servizi, via i negozi, strade a pezzi, lupi, cinghiali, tasse, burocrazia) e si lascia che il patrimonio edilizio diventi fatiscente (anche grazie all’IMU), poi si acquistano per nulla gli immobili e se ne promuove la ristrutturazione come seconde case o abitazioni di ricchi cittadini che in montagna vanno a fare smart working ma che non contribuiscono a pulire un metro quadro di bosco o a sistemare un metro lineare di sentiero. Sarebbe più logico e più economico togliere un po’ di tasse e di bastoni tra le ruote ai montanari e dare loro incentivi a continuare a vivere in montagna. No, questo non va bene all’Uncem e alle sue teste d’uovo che vogliono (anche per finalità politico-ideologiche) “ripopolare” con “nuovi montanari” isole di montagna (in mezzo alla “natura tornata incontaminata”) azzerandole l’identità sociale e culturale. I bisogni dei “vecchi montanari”, però sono ben altri come ricorda Anna Arnodo
di Anna Arneodo
(16.06.20) L’UNCEM si sta rivelando – anche in questa nuova imprevista emergenza – l’ennesimo ente inutile preposto a occuparsi della montagna, che specula offensivamente sulla montagna. Leggo sul comunicato del suo presidente Bussone (montanaro di città), datato 12/5/2020: Ecobonus: importantissimo anche per le seconde case nei borghi alpini; e ancora concedere contributi sulle spese di acquisto e ristrutturazione di immobili da destinare a prime abitazioni a favore di coloro che trasferiscono la propria residenza. Noi montanari, che già viviamo quassù e presidiamo da sempre queste “terre alte” (come va di moda oggi chiamare la montagna) non meritiamo niente: abbiamo già la residenza, la casa, prati, campi, mucche e pecore, ricoveri per i “poveri vecchi”, pulmini per le deportazioni scolastiche a fondovalle…, baite cadenti e vecchie borgate in surplus da svendere ai mecenati che – bontà loro – verranno dalla città a investire in montagna, anche grazie alla funzione di agenzia immobiliare rivestita dall’UNCEM (v. il caso della borgata Batouira… di cui abbiamo parlato qui su ruralpini.it).
Questa è la considerazione in cui l’UNCEM tiene i montanari che già vivono in montagna! Non riesce ad immaginare, il Pres. Bussone, che tenere in piedi una casa, una stalla, un’azienda, una piccola attività costa, costa tanto, costa ancor di più quassù, dove le ore di lavoro sono infinite e continui a lavorare solo “malato” di passione. Noi montanari potremmo andarcene tutti (in fondo siamo da sempre figli di emigranti, abituati a partire) e lasciare il posto a chi – con gli incentivi statali perorati dall’UNCEM – verrà in montagna diventata luogo in cui vivere e lavorare grazie allo smart-working in condizioni più favorevoli rispetto alle aree urbane (v. comunicato UNCEM del 12/05/2020). L’UNCEM prevedesse almeno per noi, “vecchi” montanari, uno stipendio come giardinieri! Invece di darsi da fare per ecobonus a seconde case, premi per chi trasferisce da fuori la residenza, investimenti per creare parcheggi a pagamento (v. comunicato UNCEM del 28/05/2020) l’UNCEM in maniera molto più concreta, dovrebbe adoperarsi per chi in questo momento fatica per mantenere un presidio sulla montagna: Pensiamo alle strade (per le quali la Provincia in questo ultimo anno sostiene di non avere più soldi, nemmeno per la manutenzione ordinaria, pensiamo alla strada del Vallone di Elva in Val Maira, interrotta da anni, con aziende agricole giovani stabili a monte a 1500 m. di altezza); Pensiamo al problema dei registratori di cassa obbligatori dal 31/12/2020 per i piccoli negozi e le aziende agricole;Pensiamo all’assurdo di tanta burocrazia per i piccoli coltivatori, che obbliga – per esempio – ad avere un mezzo apposito autorizzato al trasporto animali per trasportare un agnello al macello;Pensiamo ai servizi veterinari ASL che stanno chiudendo ovunque nei paesi di fondovalle; Pensiamo ai piccoli negozi, agli uffici postali, alle scuole che hanno già chiuso o stanno chiudendo ovunque…Pensiamo ai lupi che hanno ricolonizzato le nostre valli e uccidono, assieme a pecore e mucche, anche la passione di chi ancora resiste ad ogni costo: ormai in montagna ci sono più lupi che bambini, come ha scritto qualcuno. Questi sono i bisogni della montagna vera, della montagna che scommette ogni giorno per vivere: NON la montagna degli ecobonus per la seconda casa, NON la montagna di parcheggi a pagamento, NON la montagna dello smart-working da un villaggio turistico, restaurato con fondi pubblici, dotato di tutti i servizi più moderni, perfetto ma finto, senz’anima, perso in deserto di abbandono tra rovi e cespugli, boschi che avanzano, prati e campi che scompaiono, senza più montanari veri. Ripensiamo le terre alte: ma ripensiamo davvero la montagna con gli occhi e il cuore, la storia, la cultura, la passione dei montanari. È inutile riportare in montagna i fallimenti della città.
Si avvicina la scadenza della gabella che colpisce immobili (ex fabbricati rurali) che, nelle condizioni attuali, non possono fornire alcun reddito. Imponendo aliquote da seconde case, i comuni (e lo stato che ha stabilito le norme per l’imposizione) impediscono la conservazione e il recupero di un patrimonio che ha in molti casi un valore culturale ma che potrebbe, cambiando le circostanze, tornare di utilità ai proprietari e alla collettività per iniziative di sviluppo agricolo e turistico. Imponendo il pagamento dell’IMU sulle baite e le costruzioni di cui era disseminata la montagna si costringono i proprietarli a scoperchiarle. Torniamo, questa volta a brevissima distanza , sull’argomento per alcuni chiarimenti e, soprattutto, per incitare tutti gli interessati a fare pressione, singolarmente e collettivamente, sui comuni perché applichino l’aliquota minima (come loro facoltà). In attesa di una riconsiderazione da parte dello stato della materia questa è l’unica iniziativa possibile.
di Michele Corti
(10.06.20 L’ Imu come sappiamo è una gabella il cui gettito è destinato al Comune. Lo stato ha previsto questa imposizione che i comuni non possono non applicare. Invece di spremere ulteriormente con altre tasse statali il cittadino lo stato centrale ha preferito ridurre i trasferimenti ai comuni del gettito raccolto con la fiscalità generale e far riscuotere ai comuni la gabella sulle case. I comuni, però, hanno la possibilità di ridurre al minimo consentito dalla legge statale l’aliquota, ovvero applicare quella del 4,6 per mille. Lo fanno in pochi (perché anche i comuni, come lo stato, sono spreconi con i soldi degli amministrati). Però, limitandoci alla montagna lombarda, vi sono comuni come Grosio (scarica il PDF con la delibera) e di Edolo (Bs) (scarica il PDF con la delibera) che hanno fatto questa scelta. Sono, purtroppo, molto più numerosi i comuni che tassano i fabbricati rurali come le seconde case, applicando l’ aliquota massima del 10,6 che puo’ arrivare al 12,6 con accorpamento Tasi. Per molti comuni l’entrata dall’Imu sui fabbricati rurali non è certo indispensabile. Utile è invece il mantenimento delle aree rurali con i prati sfalciati, i boschi puliti, non solo per la valorizzazione turistica del territorio ma anche per la prevenzione degli incendi. Al comune converrebbe rinunciare a parte dell’introito piuttosto che contribuire con una tassa all’abbandono e al crollo dei fabbricati che una volta allo stato di ruderi non procurerebbero più alcun gettito. Purtroppo, però, molto amministratori non guardano oltre … la scadenza elettorale.I comuni hanno poi la facoltà di rimborsare ai proprietari degli immobili quanto riscosso a titolo di contributi per la manutenzione delle coperture, prevenzione del degrado, conservare il patrimonio storico/architettonico e il paesaggio (i ruderi deturpano il paesaggio).I proprietari dei fabbricati rurali che non godono delle esenzioni e che. di solito devono rispondere per più fabbricati (numerosi in tutti i paesi di montagna per via delle successioni ereditarie e della disseminazione, funzionale all’attività agricola tradizionale, delle piccole costruzioni), che hanno la sfortuna di risiedere in comuni turistici che applicano l’aliquota massima (ma cosa ci guadagna il proprietario di un vecchio fabbricato rurale?) devono fare, secondo noi, l’unica cosa oggi possibile e utile: scrivere al comune o recarsi di persona dagli amministratori (meglio stampando copie delle delibere dei comuni che abbiamo sopra indicato in modo che non abbiano scuse di sorta) e spiegare loro quale danno stanno contribuendo a infliggere al patrimonio rurale, al paesaggio. Invitandoli, se hanno a cuore questi valori, a deliberare l’applicazione dell’aliquota minima.
Un problema che si trascina da diversi anni Ruralpini ha seguito il problema sin dall’inizio, quando è stato imposto l’accatastamento al catasto fabbricati urbani (sic) degli ex fabbricati rurali. Seguiro no le intimidazioni dell’Agenzia delle entrate contro i rententi, che si rendevano ben conto di quale stangata gli sarebbe piombata addosso. Ora non rinfocoliamo la polemica per il gusto sterile di farlo ma perché , dopo alcuni anni, stiamo assistendo alle pesanti conseguenza di queste politiche fiscali cieche sulle conseguenze sociali e territoriali. Un problema che si trascina dolorosamente da diversi anniUn problema che si trascina dolorosamente da diversi anni
Vessati dall’Imu i proprietari delle baite baite (che nei comuni dove applicano l’aliquota piu’ alta, pagano in media 100/ 200 euro, che nei comuni turistici arriva fino a -500 € per baita) per non essere assoggettati all’ IMU si puo’ fare la richiesta di ruralità, sono molti i casi di esenzione. Molti fabbricati possono essere accatastati come rurali, strumentali all’attività agricola nel caso posseggano i requisiti di ruralità, ai sensi dell’art. 9 del decreto legge 30 dicembre 1993, n. 557, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 1994, n. 133, e successive modificazioni. Non serve essere imprenditori agricoli per quelli non abitativi. Art. 9 – comma 3 – D.l. 557/93. Ai fini del riconoscimento della ruralità degli immobili, che rileva ai soli fini fiscali, i fabbricati o porzioni di fabbricati devono soddisfare congiuntamente le caratteristiche di cui all’art. 9, comma 3, D. L. 557/93 così come convertito e successivamente modificato ed integrato: c) il terreno cui il fabbricato è asservito deve avere superficie non inferiore a 10.000 metri quadrati ed essere censito al catasto terreni con attribuzione di reddito agrario. Qualora sul terreno siano praticate colture specializzate in serra o la funghicoltura o altra coltura intensiva, ovvero il terreno è ubicato in comune considerato montano ai sensi dell’articolo 1, comma 3, della legge 31 gennaio 1994, n. 97, il suddetto limite viene ridotto a 3.000 metri quadrati. Pertanto si ritiene che anche chi non è IAP (Imprenditore agricolo professionale) se la superficie dei terreni (che sembra possano essere anche in affitto) è conforme al DL 557/93, può; chiedere la ruralità dell’immobile rural agricolo con le conseguenti esenzioni/riduzioni Imu:
Per i fabbricati rural agricoli in sede di accatastamento all’urbano va chiesto al tecnico, se ci sono le caratteristiche di cui all’art. 9, comma 3, D. L. 557/93 così come convertito e successivamente modificato ed integrato, di eichiedere la sussisteza del requisito di ruralità per i fabbricati rurali strumentali all’esercizio dell’attività agricola (art.2, comma 6, decreto del M.E.F. 26/7/2012), anche se non siete IAP (qualora l’ immobile sia stato accatastato senza richiedere la ruralità, la sussistenza dei requisiti di ruralità puo’ essere richiesta successivamente all’ Ag. delle Entrate/Territorio, presentando i moduli di richiesta all’Ag. delle Entrate.
Per le unità immobiliari rurali a destinazione non abitativa, strumentali all’esercizio dell’attività agricola (art. 9, commi 3-bis e 3-ter, del DL n. 557del 1993) A differenza di quanto previsto per gli immobili ad uso abitativo, le costruzioni strumentali all’esercizio dell’attività agricola le disposizioni di legge non prevedono esplicitamente alcun requisito soggettivo in capo al possessore o all’utilizzatore della costruzione stessa (ad esempio, il possesso della qualifica di imprenditore agricolo, l’iscrizione al registro delle imprese o la prevalenza del volume d’affari derivante da attività agricola nella formazione del reddito complessivo). In linea generale, le attività ordinariamente esercitate nelle costruzioni devono essere effettivamente riconducibili all’attività agricola, cioè deve esistere la compatibilità delle caratteristiche tipologiche e funzionali del fabbricato con l’effettiva produzione del fondo al quale è asservito. Le costruzioni strumentali all’attività di allevamento e ricovero degli animali non è necessaria l’esistenza di terreni nell’ambito aziendale. l’art. 42-bis del DL n. 159 del 2007 ha eliminato, nel comma 3-bis dell’art. 9, il riferimento all’art. 32 del TUIR e ha introdotto, come criterio per il riconoscimento del carattere di ruralità alle costruzioni strumentali, il riferimento al solo art. 2135 del codice civile.
Altrimenti per sfuggire alla tassazione l’immobile deve presentare dissesti strutturali, pericolose crepe nelle murature, solai che crollano. Per la stragrande maggioranza dei vecchi fabbricati rurali, che non erano adibiti ad abitazione, non basta che non ci siano impianti (allacciamenti acqua, gas e luce) perché la loro presenza è requisito legato alle abitazioni. Molti optano per la trasformazione del fabbricato in un rudere (senza copertura) Ma è una soluzione? Si uccide il malato perché c’è una malattia. Perché è un grave errore, perché le condizioni possono cambiare e il fabbricato che aveva perso valore e che “serviva” solo a pagare tasse potrebbe recuperarlo. Fantascienza? No. Le dimostrazioni non mancano.
Nella foto sopra vediamo dei vecchi fienili della borgata Campofei di Castelmagno in val Grana (Cuneo). Indipendentemente da ogni altra considerazione sull’intervento, la borgata è stata recuperata e trasformata – mediante un restauro conservativo che ne ha mantenute le caratteristiche architettoniche in un agriturismo di lusso.
Purtroppo sono spesso società straniere o comunque investitori da fuori che credono in questi recuperi. Considerato, però, che molto fabbricati minacciati di trasformazione in ruderi si trovano spesso in località di valore paesaggistico, storico, ambientale (basti pensare alla miriade di muunt che si dispiegano lungo la via del Lario, con i suoi panorami (veramente) mozzafiato sul lago). Ma quante sono le valli legate a qualche aspetto che una “sana” valorizzazione potrebbe riportare in vita comiugando rinascita agricola e un turismo non invasivo, consumistico, impattante, congestionante? E’ un vero peccato lasciare andare alla malora un enorme patrimonio che rappresenta un aspetto peculiare della realtà delle montagne e delle capmpagne italiane (altrove, anche in Europa, non vi è questa capillarità, varietà di strutture, tutte armonicamente integrate con il paesaggio). Salvando i fabbricati rurali si getterebbero le premesse per un turismo diffuso capace di porsi come attrattiva mondiale. Concludiamo con qualche numero che formisce l’idea dell’immensità di questo patrimonio storico . Novant’anni fa vennero censite le case rurali in Italia. Esistevano allora 3,6 milioni di case rurali, case d’abitazione non fienili, baite ecc. Il CNR intraprese allora un grande progetto di studio di queste dimore che si protrasse nel dopoguerra sino agli anni ’80. Il risultato fu una serie di monografie “Ricerche sulle dimore rurali in Italia”, 30 volumi pubblicati dall’editore Olschki di Firenze. Un patrimonio di una ricchezza senza paragoni al mondo. Conservarlo dovrebbe essere un dovere per tutti.
Distruggere il patrimonio di edilizia rurale è un modo per cancellare una cultura, la memoria di un paesaggio umanizzato, per rendere impossibili “ritorni” e nuove piccole attività agricole e turistiche. Lo stato con l’Imu sui fabbricati non vuole solo fare cassa, vuole distruggere un pezzo importantissimo della cultura rurale (per non pagare una tassa pesante si scoperchiano gli edifici). Alla faccia delle convenzioni e delle leggi che tutelano il paesaggio, i valori materiali e immateriali della cultura rurale, alla faccia del registro nazionale dei paesaggi rurali. Tutte parole. E’ ora di tornare a ribellarsi. In questo articolo, oltre a esortare ad agire sui comuni (per quanto in loro facoltà) spieghiamo anche come ottenere le esenzioni. In attesa che la vergognosa tassazione dei fabbricati rurali (come seconde case o fabbricati urbani produttivi) sia cancellata. diSanto Spavetti
(07.06.20) Continua e accelera la scomparsa del patrimonio architettonico rurale per mancata manutenzione per l’ abbandono delle attivita’ agricole montane e l’ assoggettamento ad accatastamento e per Imu. Anche se, per l’Imu sono però molte le possibilità di esenzione, che bisogna conoscere. I ogni caso i fabbricati rurali/agricoli non si devono usare come bancomat dei comuni. E’ ridicolo e assurdo che i fabbricati rurali paghino l’ Imu come le seconde case, come gli immobili urbani, con i quali non sono palesemente rapportabili. Molti immobili sono abbandonati e inutilizzabili per altri scopi, per cui l’ imposizione di tasse patrimoniali Imu e Tasi insensata in assenza di potenzialità reddituale. Ciò fa si che i cittadini abbandonino gli immobili e non eseguano piu alcuna manutenzione conservativa agli stessi, abbandonando anche la coltivazione dei fondi agricoli, lasciando crollare i fabbricati rurali agricoli per non pagare più queste tasse. Queste piccole realtà agricole sono importanti anche, specie in montagna, per la manutenzione idrogeologica del territorio e la conservazione del paesaggio. La mancata tutela del patrimonio immobiliare rurale va in direzione opposta alla legge 24/12/2003 n° 378: Disposizioni per la tutela e la valorizzazione dell’ architettura rurale (G.u. n 13 del 17/01/2004) che, all’ art. 1. recita: La presente legge ha lo scopo di valorizzare le tipologie di architettura rurale, quali insediamenti agricoli, edifici o fabbricati rurali, presenti sul territorio nazionale, realizzati tra il XIII e il XIX sec. che costituiscono testimonianza dell’ economia rurale tradizionale. Cancellando per sempre, con una fiscalità insensta, manufatti di pregio ambientale, storico e architettonico si perde per sempre quello che le leggi dovrebbero tutelare. Sarebbe doveroso esentare dalla patrimoniale i cittadini almeno per i fabbricati legate a forme di piccola produzione agricola, non inquadrata come attività principale professionale (quindi senza codici Ateco e altre formalità). I contadini di montagna vendono i loro prodotti allo stesso prezzo sia che si trovino in località dove l’aliquota Imu è elevata che in altre, dove è tenuta al minimo. Si crea così una pesante ingiustizia e non si comprende perché, per evitarla, i fabbricati rurali non abbiano avuta assegnata una propria categoria catastale, equa e una base imponibile omogenea. Si consideri anche che molti cittadini/contribuenti hanno ereditato immobili da nonni e genitori coltivatori diretti, immobili utilizzabili solo nell’ambito dell’attività agricola, privi di qualunque potenzialità residenziale e turistica e privi di reddito sia all’attualità che in prospettiva, spesso, oltretutto, non vendibili o affittabili, in quanto non hanno un valore di mercato, perché in zone periferiche montane in cui non sono attuabili altri usi rispetto a quello agricolo. I proprietari di tali immobili, spesso giovani in cerca di occupazione, senza lavoro/incapienti, dovrebbero pagare migliaia di euro di Imu,dove dovrebbero trovare i fondi ? Lo vorrei proprio sapere. Si tratta di una tassa patrimoniale… sui poveri. Per fortuna alcuni comuni si limitano a chiedere di svolgere lavori socialmente utili. Ma le attuali norme stabiliscono l’esenzione solo per immobili con almeno 3.000 mq di terreno, se in comune montano, 10.000 mq negli altri, case previo domanda di ruralità all’ Agenzia delle entrate. Ma un cittadino che vuole mantenere le tradizioni locali e famigliari e il territorio, conservando gli antichi immobili rurali, deve essere lasciato in pace non gabellato. Sono i comuni che devono risparmiare, ma spesso e volentieri questi comuni gabellatori non fanno economia in aiole fiorite, addobbi natalizi, pavimentazione di strade e parcheggi in porfido, ecc. Cose velleitarie, non necessarie. E’ ora di finirla con questo pressapochismo impositivo iniquo che causa l’abbandono e la riduzione a ruderi pericolanti, con danno ambientale e al patrimonio storico. Lo stato è comunque il primo responsabile di questo disastro paesaggistico. Le stalle rurali non si possono classificare C/6 – come le autorimesse – e pagare Imu uguale. I fienili rurali non si possono classificare C/2 – come i magazzini urbani – e pagare Imu uguale. Per salvaguardare i fabbricati tipici e il paesaggio si invitano i comuni a deliberare l’equiparazione di tutti i fabbricati rurali alpini agricoli a quelli strumentali e a detassare tutti i rurali ancora agricoli (ancorché solo di fatto), in modo da evitare che fabbricati storici centenari in pietra/legno, siano abbandonati. Andrebbe inoltre favorito il riuso, incentivando piccoli allevamenti e altre attività agricole. I comuni, in attesa che lo stato modifichi le norme, possono però ridurre l’aliquota base di quelli tassabili con Imu, dello 0,3, portandola allo 0,46, come fatto dai comuni di Grosio (So) (scarica il PDF con la delibera) e di Edolo (Bs) (scarica il PDF con la delibera). Tale imposta minima, prevista dallo stato, è opportuno restituirla ai proprietari per opere di manutenzione e conservazione degli immobili r a salvaguardia del paesaggio (che con i ruderi non migliora di certo). Andate quindi nei vostri comuni e chiedete di abbassare al minimo l’Imu sui fabbricati rurali. Per rimediare, in tempi rapidi, alla situazione attuale basterebbe in ogni caso che si aggiungesse, per tutti i comuni, una classe aggiuntiva a quelle esistenti C/2 R e C/6 R, con tariffa d’estimo equa. Molti fabbricati possono essere accatastati come rurali, strumentali all’attività agricola, nel caso posseggano i requisiti di ruralità, ai sensi dell’art. 9 del decreto legge 30 dicembre 1993, n. 557, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 1994, n. 133, e successive modificazioni. Non serve essere imprenditori agricoli per quelli non abitativi. Ai fini del riconoscimento della ruralità degli immobili, ai soli fini fiscali, i fabbricati o porzioni di fabbricati devono soddisfare congiuntamente le caratteristiche di cui all’art. 9, comma 3, d. l. 557/93 così come convertito e successivamente modificato ed integrato. In particolare il terreno cui il fabbricato è asservito deve avere superficie non inferiore a 10.000 mq ed essere censito al catasto terreni con attribuzione di reddito agrario. Qualora sul terreno siano praticate colture specializzate in serra o la funghicoltura o altra coltura intensiva, ovvero il terreno è ubicato in comune considerato montano ai sensi dell’articolo 1, comma 3, della legge 31 gennaio 1994, n. 97, il suddetto limite viene ridotto a 3.000 metri quadrati; pertanto si ritiene che anche chi non è Iap se la superficie dei terreni (anche in affitto) è conforme al dl 557/93, può chiedere la ruralità dell’ immobile rural-agricolo con le conseguenti esenzioni/riduzioni Imu. Il fabbricato qui sopra è esente perché di altezza inferiore a 1,8 m e di superficie inferiore a 9 mq. Anche un casotto per gli attrezzi agricoli in campagna finisce comunque nelle mire del fisco rapace
Per i fabbricati rural-agricoli pertanto, in sede di accatastamento all’ urbano, chiedete al vostro tecnico, se ci sono le caratteristiche di cui all’art. 9, comma 3, d. l. 557/93 così come convertito e successivamente modificato ed integrato, di richiedere la sussistenza del requisito di ruralità per i fabbricati rurali strumentali all’ esercizio dell’ attivita’ agricola (art.2, comma 6, decreto del M.e.f. 26/7/2012), anche se non siete imprenditori agricoli professionali (Iap). Qualora l’ immobile sia stato accatastato senza richiedere la ruralità, la sussistenza dei requisiti di ruralità all’ agenzia delle entrate/territorio, può essere richiesta successivamente presentando i moduli di richiesta all’agenzia delle entrate. Il requisito soggettivo in capo al possessore o all’utilizzatore della costruzione stessa (ad esempio, il possesso della qualifica di imprenditore agricolo, l’iscrizione al registro delle imprese o la prevalenza del volume d’affari derivante da attività agricola nella formazione del reddito complessivo) vale solo per i fabbricati ad uso abitativo (per ulteriori chiarimenti scarica il Pdf con utili appunti sulla normativa).
Tra falsi risparmi e veri sprechi (come la politica persegue lo spopolamento montano)
Si chiudono gli asili e si fondono i comuni “per risparmiare”, minando i presupposti della “tenuta” delle comunità e dilapidando il capitale umano. Poi si sprecano milionate in opere faraoniche, frutto della gestione clientelare e di prestigio della politica locale. Le piccole opere utili, che premiano interessi diffusi, che contrastano lo spopolamento sono snobbate. Il caso esemplare (in negativo) di come il comune di Breno ha investito in grandi opere ben sei milioni del fondo per i comuni di confine (con il Trentino)
I ruderi imponenti e suggestivi della rocca di Breno. Prima di perdere la sua funzione militare, nel XVI secolo, quest’opera aveva conosciuto più di un assedio al tempo delle lotte tra Milano e Venezia , intrecciate alle sollevazioni camune contro il potere imposto da Brescia (sostenuta dai veneziani) sulla valle. Oggi il castello è protagonista – suo malgrado – di una telenevela delle grandi opere inutili: un milione di euro per un ascensore il cui cantiere è fermo per difficoltà tecniche e burocratiche, e intanto produce danni. Un triste apologo.
di Michele Corti (05.01.20) A Breno, “capitale” storica della Valcamonica e tutt’oggi sedi di uffici pubblici (anche se tribunale e ospedale sono stati chiusi da tempo), va in onda da diversi anni la telenovela di alcuni grandi cantieri inutili, dei cantieri interminabili, di interventi che hanno già prodotto danni prima ancora di essere realizzati. Interventi voluti dalla precedente giunta del sindaco Farisoglio e ora portati avanti (con difficoltà, varianti in opera e qualche imbarazzo non confessato) dalla giunta attuale guidata da quello che era il vice di Farisoglio, Panteghini. Va spiegato che in Valcamonica il Pd, Lega e Forza Italia vanno a braccetto in nome di un “compromesso storico” che sa più di “patto scellerato” per la gestione del potere locale. Un compromesso che vede la sinistra, invisa a livello di opinione popolare, attaccarsi agli strumenti clientelari mentre la Lega preferisce scendere a patti con i centri di potere locali.
Farisoglio (Pd) era sostenuto da Lega e Forza Italia. Non è un caso perché lo stesso equilibrio vale in valle per la Comunità Montana (della quale Farisoglio è ora presidente). Va tenuto presente che la politica locale camuna è molto più simile alle dinamiche del Sud Italia che a quelle della Lombardia. Una regressione politica e civile – culminata in epoca democristiana – seguita allo svuotamento, da parte dei vari regimi, delle antiche libertà e autonomie e delle forme di autogoverno incarnate dalle vicinie. Un altra premessa necessaria riguarda il Fondo per i comuni che confinano con le provincie autonome di Trento e Bolzano. Un fondo alimentato con 40 milioni annui da ciascuna delle due provincie, un prezzo pagato per mettere a tacere le imbarazzanti richieste di annessione al Trentino che molti comuni lombardi e veneti avevano avanzato negli anni. Una soluzione che “monetizza” il disagio delle aree venete e lombarde di confine dove, da anni, è in atto una fuga di aziende verso la Provincia autonoma di Trento. Una soluzione che fa contenta la “classe politica” locale ma non agisce realmente nel ridurre la penalizzazione di essere “dalla parte sbagliata del confine”.
Paroloni senza riscontro con la realtà
Il 15 novembre scorso a Roma vi è stata una riunione sul tema del Fondo per i comuni confinanti e limitrofi (ovvero confinanti con i confinanti). C’erano Boccia, ministro per gli affari regionali, Fugatti, presidente della provincia autonoma di Trento, Parolo, delegato per la montagna della regione Lombardia nonché il presidente del comitato paritetico di gestione De Menech. Nell’occasione i paroloni si sono sprecati. Il ministro ha sostenuto che dalla sua istituzione, nel 2009, il Fondo ha dimostrato di rappresentare un valido sostegno soprattutto per le piccole comunità, aiutandole a mantenere il proprio radicamento sul territorio, attraverso la realizzazione di infrastrutture o l’accesso a servizi di primaria necessità. Fugatti dichiarato nell’occasione a proposito del Fondo: “Se esso ha agevolato il mantenimento delle popolazioni che ne hanno beneficiato sulle proprie terre il Trentino continuerà a sostenerlo. E’ importante considerare che gli interventi realizzati possono e debbono andare a beneficio di tutti i soggetti coinvolti, soprattutto nelle zone di montagna, correggendo situazioni di disequilibrio e prevenendo eventuali conflittualità territoriali che metterebbero in dubbio la valenza equilibratrice del programma. Occorre poi fare in modo che i progetti siano portati a termine in tempi ragionevoli per dare ai territori le risposte anche economiche che aspettano. Una montagna abitata e ben mantenuta, infatti, è un patrimonio collettivo, a prescindere dai confini”. Si prega tenere a mente le parole chiave: “tempi ragionevoli”, “montagna abitata”, “radicamento sul territorio”, “servizi di prima necessità”.
Opere faraoniche Breno: sotto piazza Mercato spunta uno scheletro di 3.000 anni fa „Dopo aver minacciato la “secessione dalla Lombardia”, una “secessione” che, come ammesso anche dall’interessato, non aveva alcun altra giustificazione che l’accesso alla condizione privilegiata dell’autonomia trentina, l’ex sindaco di Breno aveva fatto rientrare subito la “minaccia” a fronte dei sei milioni piovuti dal cielo con il Fondo di cui sopra. Un assist insperato. Così l’amministrazione è rimasta assorbita dalla realizzazione di una serie di opere faraoniche che hanno vincolato anche quella a essa subentrata. Il tris di opere comprendeva il rifacimento di Piazza Ronchi (piazza del mercato) con un parcheggio sotterraneo, una mega piscina olimpionica (dal costo lievitato da 2,7 a 3,4 milioni di euro), un ascensore-mini funicolare per la salita al castello (1 milione di euro). Delle tre opere la meno assurda è il rifacimento della piazza (1,2 milioni) . La sistemazione della piazza (lo scavo dei parcheggi sotterranei) ha però comportato un cantiere interminabile perché a Breno la storia (e la preistoria) sono un’eredità importante, sebbene non molto valorizzata e rispettata. Così quando la Soprintendenza ha iniziato le sue prospezioni ha ritrovato reperti di vario tipo dell’età del bronzo e uno scheletro dell’età del ferro e poi resti di muri e di selciature stradali. I lavori hanno così subito uno stop.
I lavori per la “riqualificazione” della piazza del mercato a Breno
Molto peggio stanno andando le cose con l’ “ascensore”. Un progetto nato male. Esso ha incontrato e incontra molti ostacoli tecnici e burocratici. L’Ufficio speciale impianti fissi del Ministero dei trasporti ha richiesto delle modifiche, gli uffici si sono rimpallati carte tra Milano e Roma.
Nell’estate del 2016 veniva annunciato che l’ascensore sarebbe stato pronto entro un anno, per la stagione turistica 2017. Ora nessuno scommette su quella 2010. Un bell’esempio di leggerezza nell’investire risorse “piovute dal cielo” che avrebbero potuto essere impegate per obiettivi meno di prestigio, meno suscettibili di grandi giri di denaro ma più utili alla vivibilità locale.
Di certo l’opera va a impattare su rocce fragili (che hanno comportato gli interventi di consolidamento dei rocciatori) e manufatti vincolati dalla soprintendenza imponendo – anche a seguito di modifica del tracciato originario – soluzioni poco convenzionali che hanno sollevato le perplessità degli uffici del ministero dei trasporti. Intanto il cantiere fermo provoca cadute di fango e detriti che possono minacciare edifici sottostanti e manufatti storici. Molti si sono chiesti se per valorizzare il castello non fosse meglio investire altrimenti, ovvero in allestimenti museali e informativa turistica (oltre che in servizi per i cittadini, decoro urbano, “piccole opere”). I critici della politica “faraonica” fanno anche notare, restando sul terreno del turismo e delle cultura, come il museo di Breno che ospita, in una dimora storica di epoca tardo quattrocentesca, importanti opere pittoriche è stato lasciato per anni senza fondi per realizzare i necessari restauri conservativi di opere di grande pregio (Romanino, Callisto Piazza).
Il fianco della rocca con indicato il punto di risalita dell’ascensore. Un impatto sicuramente non indifferente anche solo dal punto di vista prospettico
A suo tempo il “Palazzo della cultura” ha catalizzato forti investimenti, ma quando si tratta di fare manutenzione, conservare in efficienza, operare spese che non provocano titoli di giornali e lucrosi appalti, allora un certo tipo di politica, poco sollecita per il bene comune, molto lontana dalla serietà del buon padre di famiglia, si tira indietro (anche se le spese sono di ordini di grandezza inferiori).
La crocefissione del Romanino al Museo di Breno
Ma chi garantisce che l’ascensore e la piscina olimpionica da 3,4 milioni di euro al momento delle future necessarie manutenzioni non subiranno il degrado? E inoltre: se i fondi per le grandi opere pescano da risorse “aggiuntive” così non sarà per le spese di funzionamento. Come è noto più le opere sono faraoniche più costa mantenerle in efficienza e sicurezza. Purtroppo c’è chi si fa bello con le realizzazioni lasciando in eredità le spese. Si potrebbe aggiungere che, dopo qualche critica iniziale, Legambiente, come sempre succede quando le iniziative provengono dalla parte politica amica, ha messo il silenziatore.
Popolazione in calo
Pur rappresentando un comune che aveva superato i 5 mila abitanti, pur rapresentando un centro di servizi, una “capitale dello shopping”, Breno, dal 2008 sta perdendo popolazione, perde giovani famiglie come succede nei piccoli centri di montagna. Ci sarebbe da interrogarsi su questa tendenza e da calibrare le politiche per contrastare il declino demografico invece che lanciarsi in grandi opere.
Le grandi opere non aiutano le famiglie. La difesa potrebbe però obiettare che l’ascensore, il parcheggio sotterraneo, la piscina attirano turismo e, indirettamente, creano condizioni per frenare il declino. Ma basterebbe l’esempio del Museo per chiarire che una politica per la cultura e il turismo non è la priorità della politica locale. Il turismo in Valcamonica, come in Valtellina, è concepito solo in funzione delle ski area, ovvero in funzione degli impianti di Pontedilegno- Tonale. Essi, a loro volta, sono concepiti in funzione dei valori immobiliari, delle seconde-case più che in funzione dell’ospitalità diffusa. La Valcamonica ha, invece, risorse turistiche molto più preziose del circo bianco. Ci si dimentica che le incisioni rupesti camune sono state il primo, meritatissimo, sito Unesco italiano nel 1979. Meritatissimo perchè al mondo non esiste un’area con così tanti siti incisi, con centinaia di migliaia di incisioni e, soprattutto, con un arco temporale così lungo (dall’epipaleolitico el medioevo). Oltre a molti altri siti ci sono otto parchi attrezzati per le visite ma, il turismo indotto – che portava un buon flusso sino a qualche anno fa – è scemato. Valcamonica significa anche una lunga serie di edifici religiosi monumentali, dalla romanica Pieve di San Siro a Capo di Ponte alle chiese del centro valle con cicli pittorici del Romanino e Giovanni Pietro da Cemmo a Esine e Bienno al santuario di Cerveno con le straordinarie 198 statue lignee a grandezza naturale.
Vi è poi tutta una serie di tradizioni e di riti che si sono conservati spontaneamente e rappresentano altrettanti patrimoni culturali. Anche il turismo eno-gastronomico potrebbe disporre di importanti risorse. Se qualche progresso è stato fatto nell’ambito della ripresa delle viticoltura poco è stato fatto per assecondare la ripresa della castanicoltura, nulla per valorizzare veri e propri giacimenti gastronomici a base di carne ovina come il cuz e la bèrgna (che richiederebbero iniziative in ambito della trasformazione artigianale per fornire la ristorazione con prodotti semi-elaborati). L’amara considerazione, che tutti possono verificare interpellando gestori di alberghi e strutture para-alberghiere è che il turismo camuno langue. Cosa servono allora ascensori e piscine olimpioniche?
Ricette diverse
Le scelte locali, in modo non dissimile da altre valli alpine lombarde, hanno privilegiato i centri commerciali e il turismo della neve. La politica dei centri commerciali e dei discount è stata seguita pesantemente anche a Breno secondo il “modello Valtellina”, un modello che, chiudendo i negozi di prossimità dei centri più piccoli, ha parecchio contribuito – insieme alla chiusura delle scuole, anche quando i bambini ci sono – a favorire l’esodo a valle della popolazione. A Breno c’è una concentrazione di discount parossistica, una vera e propria colonizzazone di marchi tedeschi e di cinesi. Una politica di “porte spalancate” che porta profitti a gruppi esteri e sostituisce con posti – per lo più poco qualificati – quelli nel lavoro autonomo nel commercio di prossimità. Breno riceve traffico, perde negozi (come altri paesi vicini), il comune incassa imposte.
Gli interventi di riqualificazione dei centri storici sono stati attuati in modo non sistematico (dove, per esempio c’erano ingenti risorse dalle concesisoni idroelettriche); l’espansione edilizia (residenziale e commerciale) avviene ancora con spreco evitabile di territorio, a differenza del Trentino le strade del fondovalle continuano a essere deturpate da una giungla di cartelli pubblicitari e di insegne sguaiate e incongrue con il contesto montano. La cura del paesaggio, sempre confrontata al Trentino – per non parlare della Svizzera -, mostra evidenti segni di trascuratezza. Non servirebbero ingenti investimenti per aumentare il decoro urbano (e rurale), per il recupero abitativo dei centri storici concedendo condizioni particolari per l’insediamento di nuove famiglie con figli piccoli, per gli asili, per tutti quegli interventi che migliorano la qualità della vita e trattengono le famiglie o ne attirano di nuove. Su alcune di queste voci vi sono anche bandi regionali. Ma si fa troppo poco. Perché troppi amministratori sono concentrati su altro.