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Loup e vourp (lupi e volpi) (il colpo alla nuca alla montagna)


Anna Arneodo gestisce con i figli una piccola azienda agricola con coltivazioni e pecore, unici abitanti  di una piccola borgata a 1200 m.  Nel febbraio 2017 scriveva su Ruralpini un duro j’accuse (“Ci uccidete senza sporcarvi le mani” qui) rivolto all’ipocrisia della società urbana che ha innalzato il lupo a bandiera della natura. Parole che hanno fatto breccia (24 mila condivisioni su facebook,  un’intervista sul Corrierone e articoli su vari media). Parole amare, difficili da contraddire. A quattro anni di distanza, il lupo – in quest’inverno nevoso – è ormai una presenza fissa sotto la casa di Anna. Ululati serali e resti di ungulati sbranati. All’amarezza fa posto lo scoraggiamento.  E’ quello che vuole il partito del lupo e del rewilding, il partito che vuole cancellare l’identità delle genti alpine, la loro cultura (come tutte e le culture). Per questo bisogna sostenere i pastori, gli allevatori, i contadini, coloro che resistono e continuano a vivere e a fare cultura “lassù”. A presidiare valori che sono di tutti.
  

di Anna Arneodo

(08/02/2021)  La montagna e i lupi: ci ripenso, in questa lunga storia, che mi scoraggia sempre di più. La diaspora, l’emorragia continua di gente dalla montagna verso la pianura prima, poi verso la città è una storia pesante, che ha segnato tutto il ‘900. Io sono nata e cresciuta in questo mondo, un po’ di tristezza, forse di rassegnazione, ma ancora carico di ricordi vivi, caldi; un clima pure interrotto di tanto in tanto da qualche sprazzo di energia, di ripresa di vita. Sulla montagna c’erano ancora vecchi, c’erano ancora testimoni vivi; e qualche giovane credeva di poter riprendere, di ripartire.


Rua di Martin Soubiran
C’era ancora nelle nostre valli una lingua nostra provenzale parlata da tutti, c’ era ancora la fierezza di una identità etnica alpina,c’erano ancora piccole scuole pluriclassi sparse qua e là nelle borgate, stalle, attività artigianali, qualche osteria, le chiese piene alla messa della domenica (che era il vero punto sociale di incontro!) …: sognavamo!Poi l’ inverno del 1972, con due-tre metri di neve nelle valli: le borgate più alte, che fino ad allora avevano resistito, si sono tutte svuotate dalla disperazione, la gente è scappata. Allora quasi in nessun comune c’era un servizio di sgombero neve, la gente si aggiustava come poteva, spalando a mano o con i primitivi spartineve trainati da asini e muli, dove si poteva. Poi quell’anno non si era più potuto. Nella borgata di fronte a noi un uomo era morto per una crisi di asma: non era stato possibile scenderlo a valle, a una quota più bassa. Sarebbe stato sufficiente, ma la strada era chiusa. La neve arrivava ai balconi del primo piano, ai tetti dei casolari più bassi. Avevamo dovuto spalare i tetti, molte case già un po’ trascurate erano rovinate, i travi non più sani sotto il peso della neve avevano ceduto.
Dopo quell’inverno molti se ne erano andati dalle borgate più isolate; senza troppi lamenti, rassegnati. Chi aveva potuto era sceso solamente alla “vilo”, nella frazione più a valle, dove c’era la chiesa, il negozio, la scuola. Sembrava che la comunità si fosse raccolta per darsi più forza, più coraggio. Ma era una illusione. Dopo poco i giovani avevano ripreso ad andarsene, i vecchi a morire, la nostra lingua era sempre meno parlata…
In campo politico erano nate – nel 1972 – le Comunità Montane, i politici dicevano che lo spopolamento si era fermato: sì, perché le Comunità Montane – la zona montana sulla carta – arrivavano a 6 km da Cuneo; dalle alte valli, dai valloni laterali più disagiati, la gente scendeva ad abitare nei paesi di fondovalle, sulla carta era sempre montagna! Poi la frana -una valanga che sta travolgendo tutto – degli ultimi venti anni. Corrisponde stranamente all’era informatica, al lavoro intelligente del nuovo secolo e millennio. Eravamo rimasti ancora alcuni sparsi qua e là: embrioni di comunità; avevamo una lingua, una cultura, una storia che ci univa: e speravamo ancora ( era una illusione forse) di poter sopravvivere.
Ed ora il lupo; il lupo in tutta questa storia è forse una briciola, un caso fortuito, un segno del destino. La montagna e la sua cultura millenaria sarebbero stati ugualmente destinati a sparire. Forse è vero. Ma quando sei solo al pascolo e ti trovi le pecore sbranate dai lupi e tu non puoi fare niente (ti è vietato dalle scelte politiche ed economiche del tuo stato, che dovrebbe tutelare te come cittadino, prima dei lupi), quando esci alla sera e senti i lupi che ululano appena lì di fronte, allora veramente ti chiedi se abbia ancora senso resistere. Cammini nelle borgate vuote, abbandonate (non ci sono nemmeno più i vecchi ad abitare questa nostra montagna), tra prati che si coprono di rovi e di frassini. Poi passi al cimitero: ce ne sono più lì dentro che in tutte le borgate messe assieme; e li conosci tutti, li conoscevi…Matè, Chafrè, Tantin, Neto, Marièt, Leno dormono tutti in quell’ orto di croci.

Lou sementieri dal Frise: “Li conosco tutti…”L’ ultimo lupo i nostri vecchi lo avevano ucciso a inizio novecento: allora la montagna era piena di gente e si poteva farlo. Nelle nostre favole il lupo fa sempre la parte di un animale stupido: è molto più furba la volpe! Ma ora mi viene da credere che siamo molto più stupidi noi a voler resistere, a farci mangiare dai lupi. Le volpi sono diventate ecologiste.

UBI SOLITUDINEM FACIUNT, PACEM APPELLANT

(17/02/2021) Una lettera che riflette lo scoraggiamento di chi resiste in montagna. Ci vuole tanta determinazione per farlo perché si ha a che fare con una corsa ad ostacoli: sempre nuove angherie burocratiche, controlli, certificazioni, messe a norma. E poi, naturalmente, il lupo che cinge d’assedio le borgate e le famiglie che vivono isolate come…

Lupo: la responsabilità è dei territori

Mariano Allocco torna sul tema del lupo, tornato incandescente in Piemonte con le dure critiche avanzate da Mauro Deidier, presidente del Parco Alpi Cozia, nei confronti del progetto WolfAlps. Lo fa chiarendo che non è il gioco solo la “questione lupo”, ma il governo del territorio che i forti centri del potere ambientalista intendono espropriare…

Pastori. Non ha molto senso parlarne bene a Natale ma poi stare dalla parte dei lupi per tutto il resto dell’anno

di Robi Ronza (26/12/2012) Come ogni anno a Natale tornano fra l’altro alla ribalta i pastori, primi destinatari dell’annuncio della nascita del Salvatore e primi ad essersi recati ad adorarlo. L’Epifania (= manifestazione) cui vennero invitati precede di molti giorni quella dei Magi. Credo che ad esempio Lorenzo Lotto nella sua famosa «Adorazione dei pastori», esposta…

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L’esodo culturale uccide la montagna


Con questo intervento il dibattito tra montanari sul futuro della montagna entra nel vivo. Rispondendo ad Andrea Aimar (val Maira, CN) , Carminati dalla valle Imagna bergamasca,  mette l’accento sui processi  culturali oltre che su quelli socio-economici. Vero che la montagna è colonizzata , che le normative la penalizzano, che è priva di rappresentanza politica, ma il problema è anche l’autocolonizzazione, l’esodo culturale che – altrettanto negativo dello spopolamento demografico – rende i montanari estranei alla montagna pur continuando a risiedervi, ma senza più legami concreti e  simbolici con il territorio, con la memoria della comunità

 

SPOPOLAMENTO E SPAESAMENTO.

RIQUALIFICAZIONE E RICOMPOSIZIONE
DEI FONDI PRODUTTIVI IN MONTAGNA
di Antonio Carminati

 

(21.12.19) Ho letto recentemente due articoli pubblicati sul blog Ruralpini Resistenza rurale di notevole interesse per coloro che della montagna non ne hanno fatto solo un caso di studio, bensì rappresenta il campo quotidiano di espressione della vita e del lavoro.

In Alta Val Maira un giovane, Andrea Aimar (vai a vedere qui l’intervento), si interroga sul futuro della montagna e denuncia lo stato di abbandono, da parte del mondo della politica e delle principali istituzioni sociali, in cui versano le vallate alpine e prealpine, con i rispettivi insediamenti umani che nei secoli hanno agito da presidio e centri di umanizzazione dell’ambiente. La montagna soccombe perché vengono meno i suoi abitanti, i montanari. Questo Andrea lo ha compreso bene. Il grande esodo verso le aree urbanizzate di recente formazione, distribuite nelle fasce pedemontane, le stesse periferie urbane e i principali centri industriali, è cessato nei recenti anni Ottanta del secolo scorso, quando intere famiglie hanno abbandonato le antiche contrade di monte per trasferirsi in città, soprattutto in forza della spinta propulsiva introdotta dai fenomeni di industrializzazione, urbanizzazione e scolarizzazione di massa. Quel vistoso fenomeno di spopolamento, registrato anche sul piano demografico, aveva sì saccheggiato alla montagna un’incredibile quantità di forza lavoro, ma soprattutto aveva sottratto alle terre alte quella centralità che avevano saputo costruire e mantenere nei secoli precedenti.


Emigranti dalla valle Imagna
Attualmente il processo in corso di rivisitazione della montagna non è più solo quello demografico – diverse aree montane registrano, infatti, un situazione di stasi – vistoso, concreto e drammatico, ma attiene più propriamente ai livelli di pensiero e soprattutto alla percezione da parte dei montanari del difficile rapporto con il loro ambiente di vita. Una relazione di appartenenza critica, con ferite che fanno ancora male, per certi versi invisibile, non per questo meno grave e pericolosa. Abbiamo ribadito più volte il concetto secondo il quale non basta vivere in montagna per considerarsi montanari. Anzi, accade a volte che i cittadini i me bàgna ol nas [ci bagnano il naso, ci superano], ossia risultano più attenti ai bisogni della montagna di quanto non lo siamo noi. Distratti. Assistiamo al giorno d’oggi non più a esodi fisici di persone, ma soprattutto di pensieri e progettualità: la montagna soffre, oltre che che per la malattia dello spopolamento, anche per quella dello spaesamento. Molti montanari hanno smarrito la strada, vivono una relazione di estraneità con il territorio, come se improvvisamente – dopo la spinta in avanti impressa dal boom economico del secondo dopoguerra e poi della crisi del modello di sviluppo industriale – si riscoprissero in un ambiente “altro” e quasi sconosciuto, difficile da governare senza applicare, anche quassù, i modelli di sviluppo e di governo propri della città. Viviamo in montagna, ma pensiamo e operiamo da cittadini.

Un centro commerciale in alta Valtellina
Le difficoltà rilevate dall’amico Andrea Aimar – che mi pare di aver sempre conosciuto – sono le stesse che viviamo tutti quanti, soprattutto coloro che dal lavoro in montagna devono ricavare un’entrata economica sufficiente, perché quassù non si può vivere solo di aria buona, per poi commuoversi di fronte a ineguagliabili paesaggi. Tali difficoltà riflettono l’atteggiamento di tipo coloniale messo in atto da realtà e forze esterne che non comprendono i bisogni reali dell’ambiente montano e delle popolazioni che lo abitano, tantomeno percepiscono il carico di umanità e di libertà delle espressioni culturali dei piccoli gruppi organizzati, resilienti sulle pendici delle loro montagne. Una politica coloniale che, negli ultimi settant’anni, ha interpretato la montagna come una terra di conquista, un serbatoio cui attingere robusta e generosa forza lavoro da trasferire altrove. Andrea, nella sua lettera accorata, ha elencato diverse criticità, soprattutto per il mancato riconoscimento, a tutti i livelli, della specificità della montagna, tanto sul piano produttivo, quanto su quello commerciale, amministrativo e dei servizi. Differenze e criticità dimenticate dalla politica. D’altra parte è pur vero anche che gli abitanti della montagna, oggi più che mai, appaiono disorientati, frazionati, si sentono soli e rinunciatari, in modo particolare quanti cercano di mantenere una relazione vitale e produttiva con il territorio. Privi di una loro specifica rappresentanza.

Processione nei prati a Fuipiano in alta valle Imagna
Quella che abbiamo oggi sotto gli occhi è una montagna già ampiamente saccheggiata e ancora assestata su posizioni difensive, che cerca disperatamente di sopravvivere, mantenendo quel poco che le è rimasto, aggrappata alle proprie rappresentanze municipali e alle organizzazioni sociali di base nei vari villaggi, la cui economia principale gravita ormai su centri occupazionali esterni. La sua posizione di retroguardia mette la montagna ancora nelle mani dei colonizzatori esterni, i quali la utilizzano per sperimentare i propri modelli di sviluppo, che il più delle volte con le terre alte hanno poco da spartire. Evidentemente l’abbandono delle attività agro-silvo-pastorali nel loro complesso, l’esodo fisico e culturale dei montanari, la perdita di memoria storica e il venir meno del bagaglio di conoscenze trasmesse dall’esperienza… costituiscono una grossa falla nei sistemi territoriali anche alle medie quote, impedendo o rallentando la generazione di nuove opportunità.

Sosta della transumanza verso la pianura a Locatello in valle Imagna
Ritengo che la montagna tornerà a vivere non tanto se le attività economiche e produttive sconteranno una diversa aliquota Iva, se ci saranno agevolazioni sull’acquisto e ricomposizione delle terre, oppure se il costo del lavoro dovesse essere abbattuto a favore dei piccoli allevatori o agricoltori,… – tutte questioni assai importanti e delicate, per l’ottenimento delle quali bisognerà ancora lottare – ma in primo luogo se i montanari riusciranno a recuperare la consapevolezza della loro esistenza, dei valori di cui sono portatori, nella continuità con una storia sociale ricchissima di situazioni, esperienze, conoscenze. Abbiamo di fronte a noi una montagna da ripensare e ricostruire pezzo per pezzo, dopo il terremoto sociale avvenuto nella seconda metà del secolo scorso, che ha letteralmente demolito il suo impianto costitutivo tradizionale, incominciando ad esempio, per quanto ci riguarda, dalle piccole pratiche zoo-casearie e agricole che, seppure sostenute in condizioni di svantaggio economico, hanno il pregio di segnare la strada e di dimostrare che non tutto è perduto. Dovranno essere innanzitutto i montanari a rigenerare la montagna e la politica dovrà rappresentare un accompagnamento graduale alle singole azioni di superamento delle condizioni generali di svantaggio. Per cui, carissimo Andrea, un’altra volta tocca ancora a noi rimboccarci le maniche – ma non è questo che ci preoccupa – per tenere aperti quegli spazi di autonomia, di libertà e di servizi che i nostri predecessori hanno saputo costruire da queste parti. Ostacolando quanti sostengono becere tendenze alla rinaturalizzazione di ampi territori, per i quali la presenza dell’uomo costituisce un problema: essi dimenticano che l’ambiente alpino e prealpino è un contesto fortemente antropizzato, dove i manufatti e la presenza dell’uomo, che ha modificato il volto dei versanti, costituiscono componenti essenziali e irrinunciabili del paesaggio. Facendo barriera contro coloro che riconducono l’esistenza solo ad una visione economicistica. Tutto ciò innesca processi pericolosi di marginalizzazione sociale, di degrado e dissesto ambientale, quando la montagna è interpretata come una grande periferia della città, una sorta di parco pubblico dove trascorrere il fine settimana o le vacanze. Nell’immediato tocca a noi sfruttare al meglio innanzitutto tutte le agevolazioni e le opportunità che ci si presentano dinnanzi. Se sapremo essere determinati e riusciremo a generare numerose micro azioni di economia in montagna, dal modesto allevamento zoo-ovi-caprino alle piccole colture estensive e alle numerose attività artigianali, sono certo che potremo coinvolgere tutta la popolazione alle nuove prospettive della centralità della montagna, dove dare vita a nuovi impulsi residenziali e produttivi richiamando pure l’attenzione di politici e istituzioni. C’è ancora molto da fare.

Mappa di comunità di Montenars, nel Gemonese
Un esempio di rigenerazione rurale è dato dalle Associazioni fondiarie, istituite e introdotte di recente per la ricomposizione dei fondi. Prendo spunto dal pensiero di Claudio Biei pubblicato di recente su Ruralpini (vai a vederlo qui). Non so se questo sia lo strumento migliore in montagna, sulla scorta, ad esempio, non proprio positiva, dei Consorzi forestali. Se non altro la questione solleva un problema non indifferente. Con la fine dell’antico mondo contadino e la consequenziale perdita della centralità della terra e del villaggio, a favore della fabbrica e della città, nella seconda metà del secolo scorso milioni di ettari di terra sono stati letteralmente abbandonati e ciò ha prodotto, in pochi decenni, due gravi guasto ambientali e sociali: la continua dequalificazione delle particelle catastali e la loro polverizzazione. In poco tempo i campi coltivati a vanga sono diventati prati, i prati stabili si sono trasformati in pascoli, i pascoli in boschi, i boschi un tempo oggetto di pratiche costanti di taglio colturale oggi sono diventate foreste impenetrabili e selvagge. Soprattutto il bosco oggi la fa da padrone sui versanti e arriva ormai a circondare e minacciare da vicino le contrade abitate. Insediamenti rurali robusti e ben compatti, come piccoli fortilizi contro il dilagare di evidenti situazioni di abbandono, molte volte essi stessi vengono attaccati dal medesimo triste fenomeno. La perdita di interesse verso la terra a scopo agricolo ha intensificato il processo di frammentazione degli antichi poderi, un tempo veri e propri centri di produzione familiare, in tante particelle catastali quanti sono stati gli eredi beneficiari, ciascuno dei quali divenuto proprietario di piccole porzioni di terra non più utilizzabili per la loro esigua dimensione. Ciò è avvenuto con la fine della famiglia contadina, quando cioè nessuno dei figli ha dato continuità al lavoro prevalente del padre nella stalla, nel prato o nel campo, preferendo l’occupazione in fabbrica, sui cantieri edili o nei servizi cittadini. Benvenuta sia, dunque, l’iniziativa delle Associazioni fondiarie, ma probabilmente da sola non basta, se non si introducono prima possibile azioni parallele di sensibilizzazione e interventi strutturali di sostegno ai singoli imprenditori agricoli, finalizzati alla riqualificazione fondiaria e a favorire la sua ricomposizione, per rimettere insieme i vari pezzi di un puzzle disfatto e ricostruire così il volto unitario di ambienti prossimi alla medesima proprietà.

Fienagione in valle Imagna
La montagna, si sa, è un ambiente fragile, ricco di ecosistemi locali generati pazientemente dall’uomo, quando nei secoli scorsi si è posto in relazione coerente con la natura, molti dei quali purtroppo oggi sono a rischio di scomparsa. È un ambiente da non sciupare, ma da conservare e difendere, per contenere gli effetti disastrosi prodotti tanto dallo spopolamento, quanto dallo spaesamento. La montagna continua a vivere in coloro che, nonostante le molte difficoltà, costruiscono col loro lavoro una relazione concreta e quotidiana con la terra e gli spazi della contrada dove essi abitano. Vive ogni qualvolta un montanaro, come ha fatto Andrea, s’interroga con onestà circa la propria collocazione nella storia e nella società rurale e riflette sulle condizioni più generali di resistenza. Vive quando il prato viene sfalciato, il bosco assorbe il rumore rabbioso della motosega e sui versanti l’estate pascolano le vacche. Continua a vivere quando genera relazioni solidali tra montanari, come il blog Ruralpini e altri canali di comunicazione, cui va la nostra gratitudine, si prefiggono tutti i giorni di promuovere e sostenere.