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Ridar vita alla montagna

(serve una svolta)

Da dove cominciare nell’individuare gli strumenti, i soggetti, i percorsi di una rinascita montana? Un dibattito che oggi non può essere lasciato agli “esperti”, non deve “saltare” a forme di progettazione – più o meno estemporanee – che servono solo a far girare risorse che non toccano terra dove realmente serve. Gestire il territorio, i servizi, rianimare la socialità, il senso di appartenenza, ridare in mano alle comunità insediate, anche le più piccole, il diritto-dovere di decidere e gestire i piccoli-grandi problemi  della loro vita. Associarsi per vivere, nelle forme originali, spontanee e autonome che ogni comunità sceglie come adeguate, fuori dalle gabbie imposte dalla complessificazione della civiltà urbana. Fuori dalla gabbia di una divisione tra ambiti  (“economia” / “impresa”, “servizi sociali”, “pubblico” e “privato”) che è stata calata sulla montagna, che qui è artificiosa e la paralizza. Non si tratta di inventare nulla. Basta capire come le comunità si sono autogestite prima della modernità disgregatrice e colonizzatrice.

di Michele Corti

(02.02.2020) Quello che sta succedendo alla montagna è un ritorno alla situazione prima dell’anno 1000, forse peggio. I boschi si rimangiano millenni di colonizzazione agricola e pastorale, lupi, cervi, cinghiali proliferano. Non ci si rende conto dei patrimoni che si perdono ubriacati, narcotizzati dalle perverse ideologia ambientaliste, abilmente utilizzate dagli interessi più forti e aggressivi (che del bene comune se ne fanno un baffo e che perseguono solo i loro obiettivi di profitto e potere).

La montagna ha futuro (se non ce lo si lascia rubare da chi ha interesse a farla morire)

D’altra parte molti fattori che hanno “condannato” la montagna della modernità e della contemporaneità a una situazione di svantaggio stanno forse venemdo meno.  Va anche detto che lo svantaggio della montagna non è mai stato assoluto, “naturale”. In molte epoche si è vissuto meglio in montagna, la montagna era più progredita della pianura (basti pensare come, ancora nell’Ottocento il tasso di analfabetismo fosse molto più elevato in pianura che in montagna).  Oggi la “smaterializzazione” dell’economia (un po’ mitizzata peraltro) e la rivoluzione dei sistemi di movimento di informazioni, oggetti, persone sta rivoluzionando ancora una volta lo svantaggio relativo. Una volta superato il problema della banda larga (con diverse soluzioni oggi possibili) l’ “internet divide” che ha penalizzato la montagna, dopo i primi entusiasmi, un fattore di svantaggio (nel telelavoro ecc.) sarà archiviato. La grande penalizzazione della montagna è stata legata dai primi dell’Ottocento in avanti ai collegamenti stradali, una penalizzazione accentuata con la motorizzazione. In un mondo di mobilità a piedi, a dorso di cavallo o di mulo la differenza tra muoversi in pianura e in montagna non era sostanziale. In pianura  c’erano pochi ponti  e pochi traghetti a fune (uguali a quello che c’è ancora a Imbersago sull’Adda), in caso di piene, i  fiumi dilagavano e i guadi (che cnsentivano l’agevole passaggio di fiumi come il Serio) erano impraticabili. I boschi lungo i fiumi erano infestati dai briganti (sino ai primi decenni dell’Ottocento).
Tra il trasporto su carri in pianura e con le carovane di muli c’era una differenza di costi importante ma non abissale. Con lo sviluppo delle rete stradale e poi della motorizzazione i paesi sono stati collegati ma, spesso, con un’unica strada che porta in fondovalle.  I collegamenti con altri paesi, al di là dei versanti che un tempo erano affrontati a piedi, sono venuti meno. I paesi delle alte valli sono diventati cul de sac, periferia, margine, quando, invece erano al centro di collegamenti intervallivi. In pianura, invece, con la rete stradale ci si sposta ovunque con mezzi pubblici o privati. Ciò ha creato isolamento e svantaggio, tanto che la famosa e sospirata strada, spesso è arrivata… per facilitare il trasferimento a valle della popolazione.  Ma oggi il trasporto sta svincolandosi dai tracciati stradali. In caso di emergenza arriva un elicottero (che oggi presta anche già parecchi servizi di trasporto) e la tecnologia dei droni è già pronta per il trasporto di pacchi, corrispondenza mentre si sperimentano i droni-taxi. La l’elemento verticalità con il trasporto aereo è superato. Pensiamo anche agli effetti del cambiamento climatico. Laddove alla preoccupazione per gli inverni gelidi è subentrata quella per le estati torride. Non rappresenta questo un fattore di vantaggio, sempre relativo, per la montagna? Condannare a morte la montagna a fronte di queste trasformazioni è non solo un errore per la perdita di patrimoni, per le conseguenze in termini di calamità naturali del mancato presidio di ampie fasce di territorio ma è anche un errore in un mondo in profondo rivolgimento in cui lo svantaggio della montagna può essere in parte ribaltato.

Invertire una secolare tendenza privatistica e individualistica

Realisticamente, però, non è pensabile che, spontaneamente, le nuove opportunità di futuro per la montagna contrastino i fattori di crisi in atto. Primi tra tutti la crisi demografica e l’inselvatichimento del territorio.  Per far fronte a questa situazione occorre rimettere in discussione l’assetto della montagna che abbiamo ereditato da epoche di forte popolamento, culminate nel XIX secolo. Epoche che avevano portato a un uso intensivo delle superfici agropastorali, di conserva con la privatizzazione delle risorse. Quest’ultima fu saggia e entusiasticamente accolta dai montanari nell’epoca di espansione medioevale, prima della peste ma, nel XVIII secolo, fu imposta dall’alto, dall’ideologia illuminista e dai concreti interessi della borghesia rampante rappresentata in montagna dai proprietari delle miniere e dei forni fusori, dagli speculatori che si accaparravano le risorse boschive sottoponendole a uno sfruttamento insensato. Uno sfruttamento che poi fu attribuito, falsamente, ai montanari sottoposti a una feroce (spesso insensata) disciplina forestale imposta dall’alto con strumenti tecnocratici e  polizieschi (le capre, strumento di autosufficienza indipendenza vitale del contadino di montagna furono le prime a farne le spese).
Questi precedenti dovrebbero, già da soli,  mettere in allarme di fronte alle ricette ambientaliste (sono la versione odierna della solita arrogante e aggressiva politica tecnocratica delle élites) fatte di “rewilding”, proliferazione di orsi, lupi, linci, sciacalli, ghiottoni, gipeti e quant’altro, abbandono dei boschi a loro stessi (salvo praticare tagli a raso per alimentare le centrali a biomassa speculative e inquinanti – molto care all’Uncem – che con rese elettriche ridicole immettono gocce nel calderone delle “reti nazionali”).

Pannicelli caldi

A fronte della minaccia di uno spopolamento che porta indietro la montagna di oltre mille anni (con conseguenze che è difficile prevedere) la cultura e la politica urbane intervengono con i pannicelli caldi. Hanno emanato una legge di facciata per i “piccoli borghi montani”, quelli che soddisfano all’esigenza estetizzante del borghese bohemien (il bobo come in Francia vengono sprezzantemente definiti i radical-chic): una manciata di milioni per un ventaglio di interventi. Fuffa. Le leggi che,  dalla passata legislatura, sono state presentate a favore dell’ “agricoltura contadina” rappresentano un’altra risposta parziale e insufficiente. Non distinguono tra montagna e pianura, rischiano di crare divisioni all’interno del mondo contadino favorendo aziende “bio e biodinamiche”, spesso trastullo dei borghesi, ed escludendo aziende contadine vere, magari con più unità lavorative attive secondo il modello dell’azienda famigliare non ancora morto.  

Una società di mercato dove, se non fai profitto, sei l’eccezione che deve trovarsi la sua nicchia da “terzo settore”

La civiltà urbana dell’ “occidente avanzato” ha creato una serie di istituzioni che dovrebbero rispondere all’esigenza di rendere meno feroci, in termini sociali, gli effetti di una economia di mercato che ha debordato ovunque, che ha modellato la società alle esigenze di del mercato e del profitto (viviamo in una società di mercato, non in un’economia di mercato). Di qui tutta una serie di istituti che, in qualche modo, prevedono che – al di là dell’azione pubblica – vi siano soggetti privati che in qualche modo perseguono finalità sociali fornendo utilità sociali dove l’impresa e il pubblico non  riescono a farlo.  Si tratta del terzo settore, dell’associazionismo, delle fondazioni, delle imprese sociali e cooperative “sociali”. E’ curioso che si parli di cooperative “sociali” tenendo conto che la cooperazione è nata nell’Ottocento per finalità sociali. Poi, però, nella prima metà del Novecento, essa, nel momento che è stata riconosciuta dallo stato e fatta oggetto di agevolazioni, è stata anche ricondotta alla fondamentale dimensione dell’impresa. Quanto rimane di “spirito sociale” della cooperativa è spesso qualcosa di formale e di facciata. Vediamo anche come le cooperative siano divenute lo strumento dell’esternalizzazione e della precarizzazione della forza lavoro in diversi settori.
La forma della cooperativa, nella versione “di comunità” o “di paese” (una fattispecie che in realtà non esiste) è stata suggerita come strumento idoneo a gestire le attività produttive e di servizi delle piccole comunità. Senza escludere che in alcuni contesti la cooperativa possa rappresentare una soluzione anche per i problemi della vitalità delle piccole comunità ci si chiede quanto possano pesare i vincoli della forma cooperativa, che è a tutti gli effetti un’impresa economica che deve fare bilancio. D’altra parte, anche se guardiamo alle possibilità previste per il “terzo settore” è giocoforza convenire che la scelta di una o più di queste forme di aggregazione può rispondere ad alcune esigenze ma non ad altre. In una piccola comunità una pluralità di associazioni può rappresentare una ricchezza ma servirebbe anche una struttura unificante. Questa non può essere il comune inteso come istituzione politica- amministrativa, caricata di crescenti funzioni burocratiche con la complessificazione della società urbana e della macchina pubblica ma anche impossibilitata,  per legge, ad assolvere a quei compiti di intervento più direttamente economico e sociale che sono stati assegnati nel tempo ad altri enti e al “terzo settore”.  E’ sintomatico per esempio come il comune abbia perso quelle competenze in materia agricola che pure aveva in passato. Il comune non ha smesso di influire sull’agricoltura ma lo ha fatto – quasi sempre con effetti negativi – utilizzando lo strumento urbanistico.
Vi è poi il ventaglio delle possibilità offerte dal “Terzo settore” (associazioni, fondazioni, società di mutuo soccorso, imprese e cooperative sociali, organizzazioni di volontariato). Molte delle attività comunitarie in materia di servizi sociali, cultura, sport, attività ricreative possono essere gestite da questi soggetti che , con la cosidetta “riforma del terzo settore” hanno anche più possibilità di svolgere attività economica sia pure senza scopo di lucro. Nessuna di queste forme di aggregazione può rispondere all’esigenza di gestire al tempo stesso attività agricole, forestali e di trasformazione alimentare, di distribuzione di merci, di organizzazione di servizi socio-sanitari, culturali, ricreativi.

Estendere il modello dell’associazione fondiaria

Pensare che una piccola comunità possa auto-organizzarsi per gestire tutti gli aspetti della vita che la modernità urbana ha segmentato artificialmente (contribuendo non poco con questa frammentazione e compartimentalizzazione a mettere in difficoltà le piccole comunità) è utopistico?  Nell’ambito della gestione dello spazio agro-silvo-pastorale esiste uno strumento, Associazione fondiaria che risponde all’esigenza di contrastare gli effetti della polverizzazione fondiaria e dell’abbandono organizzando in forma associata (i soci sono i tanti possessori di particelle fondiarie) la gestione agrosilvopastorale. Una rivoluzione copernicana che, in realtà, rappresenta un ritorno alle gestioni collettive. Non si “collettivizza” la terra, non la si espropria. Sarebbe un errore gravissimo. Chi abita in montagna (tutto l’anno o una parte dell’anno), chi si è allontanato ma mantiene delle proprietà “terriere”, è coinvolto in vario grado. Può partecipare attivamente alla gestione o limitarsi ad essere socio con il suo pezzo di terra. Un fatto importantissimo perché un giorno un socio, il figlio di un socio potrebbero tornare a fare i contadini, i boscaioli, i pastori o, meglio, gli operatori multifunzionali della montagna (come sono sempre stati i montanari prima che la modernità imponesse l’aut aut: “o ti trasformi in impresa o fai l’esodato rurale”). Potenzialmente l’associazione fondiaria può intervenire anche sulla valorizzazione congiunta delle produzioni dei terreni che ad essa fanno riferimento. E qui si apre il discorso della “filiera rurale”, della riattivazione di quei nessi tra i campi, i prati, i pascoli, i boschi da una parte e il tessuto comunitario dall’altra, nella sua dimensione di famiglie, di persone, di piccole attività economiche (commerciali, artigianali) ma anche di edifici, di manufatti, di patrimonio costruito. 

Un auspico di 64 quattro anni fa

Le idee alla base delle Associazioni fondiarie non sono certo nuove. Il ritardo con il quale si perviene a queste soluzioni spiega molti dei problemi della montagna. L’esigenza dell’associazionismo fondiario era già sentita molti anni fa. La soluzione prospettata dai tecnici era però prematura: il contadino di montagna ben difficilmente avrebbe rinunciato a coltivare la sua terra per entrare in una cooperativa di conduzione unita. Le Associazioni fondiarie hanno potuto affermarsi solo con l’abbandono, solo con la perdita di contatto della maggior parte dei proprietari delle “loro terra”, sono con i passaggi di proprietà a generazioni che quei fazzoletti di terra, acquistati magari con inauditi sacrifici dai vecchi, non hanno coltivato. In uno dei tanti convegni “sui problemi della montagna”, tenutosi a Sondrio nel 1956, uno dei relatori, il capo dell’Ispettorato delle foreste di Sondrio, dott. Feliciani esponeva quelle che erano idee correnti tra gli “esperti”: Noi pensiamo che si possa pervenire ad un risultato conveniente attraverso una particolare forma di Cooperazione agricola: L’affittanza collettiva su terre proprie con conduzione unita. E’ risaputo infatti che la polverizzazione la dispersione della proprietà fondiaria impongono un lavoro mal ricompensato a tutti i proprietari che provvedono singolarmente alle diverse operazioni agricole e che impediscono, o perlomeno limitano, iil ricorso a  mezzi tecnici progrediti e specialmente al meccanizzazione. L’affittanza  collettiva su terre proprie con conduzione unità significherebbeebbe la costituzione di una cooperativa tragli stessi proprietari della terra.  La cooperativa dovrebbe provvedere all’esecuzione collettiva delle operazioni agricole con un certo numero di unità lavorative scelti esclusivamente, o almeno prevalentemente, tra i soci e lasciando che gli altri possono dedicarsi differente attività. I prodotti verrebbero distribuiti assegnato una quota della terra conferita, una quota al lavoro prestato e trattenendo altra quota per le spese generali. stante gli aspetti numerose completi dell’economia montana, la cooperativa dovrebbe prevedere molte attività e cioè funzionare non soltanto come semplice associazione per la coltivazione della terra, ma anche come società d’alpeggio, come ente per l’esecuzione di miglioramenti fondiari ed anche come organizzazione per seguire i soci o di lavori loro familiari che non potendo essere convenientemente occupati nelle operazioni agricole, avessero necessità di dedicarsi ad altre attività..

Abbiamo esempi di queste forme di associative per la gestione della vita della comunità? Certamente. Negli Stati Uniti ci sono città intere che non appartengono a un comune (il territorio non è tutto suddiviso in comuni) ma direttamente alla contea. Si autogestiscono in forma privata. E funziona. In Italia è citato il caso di Partigliano, una frazione di 200 abitanti di un comune della provincia di Lucca dove diverse associazioni, operando di conserva, hanno assunto la gestione dei servizi, di fatto svuotando il comune (che ha sede in pianura e che, come spesso succede, delle frazioni “periferiche” si interessa poco).  E’ stata la modernità, con la sua ossessione per le gestioni individuali, con la sua ossessione per organizzare ogni attività conomica in forma di impresa a fine di lucro, che ha distrutto le forme di gestione collettiva, comunitaria, delle risorse. L’istituto che rappresentava l’associazione tra gli abitanti era la Vicìnia (assume anche altre denominazione). Era limitata alle famiglie “originali”  perché queste, spesso, avevano a suo tempo riscattato dai signori feudali a suon di moneta sonante i diritti di possesso di boschi e pascoli. Vi erano, però, grazie alla corresponsione di una quota e alla residenza prolungata, delle possibilità di accesso a queste associazioni. Gestite nella forma della democrazia diretta (si conservano ancora le macchine per votare in forma segreta, ovvero per inserire palle di colore diverso per approvare o respingere una proposta)  queste associazioni  non solo gestivano i beni silvopastorali (quelli agricoli erano stati privatizzati nell’epoca delle colonizzazioni medievali in coincidenza con l’intensificazione agricola e l’aumento della popolazione) ma anche le strutture di trasformazione e distribuzione dei prodotti: i mulini, le cantine, le osteri, le segherie. Non solo ma le Vicìnie gestivano spesso anche le scuole e delle forme di assistenza, contribuivano al mantenimento della chiesa ecc..

Lasciate che la piccola comunità si gestisca come una famiglia, senza burocrazia, senza tasse

Oggi la sopravvivenza di funzioni minime per la sopravvivenza delle piccole comunità è legata alla possibilità di gestire il bar-trattoria-negozio, un centro di servizi comunitario dove poter disporre di attrezzature per lavorare i prodotti agricoli (anche dell’attività di coltivazione e allevamento  “hobbistica”  sia per autoconsumo che per la vendita nel bar-trattoria-negozio), dove poter praticare attività artigianali (legno, lana). Queste strutture comunitarie, come i vecchi mulini, segherie, osterie, caneve, sono il trait d’union tra la vita del paese e la rinascita delle superfici agrosilvopastorali. Tutte queste attività devono essere totalmente defiscalizzate e deregolamentate. Si deve equiparare la piccola comunità  a una famiglia. Va precisato che il “quanto piccolo” non può essere definito solo in base non solo a numero abitanti ma anche a parametri di spopolamenti, distanza dai centri con servizi, perdita di superfici agropastorali.  Sono a volte fuorvianti i caratteri puramente fisici, primo fra tutti l’altimetria perché da lungo tempo è noto che la fascia di maggior sofferenza è quella della bassa-media montagna.
Il criterio guida di questa “rivoluzione” è che non devono essere richiesti adempimenti e requisiti diversi da quelli per lo svolgimento delle stesse attività nel chiuso dell’abitazione famigliare, del contesto “hobbystico”. Ciò è un passo avanti rispetto alla semplice riduzione degli adempimenti per le aziende “contadine” (vedi le proposte di legge da due legislature attendono di essere discusse in parlamento). Qui non si parla di aziende ma di comunità che sono (o possono tornare a essere) “grandi famiglie” e che solo attraverso la cooperazione, il passaggio dalla chiusura individualistica a una dimensione mutualistica e socializzante possono recuperare motivi per volere un futuro. 
Ma non basta ancora. Serve poter organizzare in forma comunitaria le attività di recupero del patrimonio edificato, di manutenzione. Tornando all’esecuzione dei lavori in economia e in forma mutualistica. Anche in  presenza di necessari specialisti questi ( e non solo chi ha la fortuna di avere in famiglia il muratore, l’elettricista ecc.) operando nel contesto della loro comunità, devono poter essere sollevati da oneri fiscali e adempimenti burocratici. Lo stesso per i servizi sociali, educativi, assistenziali tenendo presente che già oggi è possibile organizzare le scuole parentali e che questo modello può servire per altri ambiti.  Assistenza infermieristica, trasporto ammalati (ma anche altri trasporti di persone e merci) dovrebbero rientrare nella sfera operativa di questa “società di abitanti” che autogestisce i “servizi per vivere”. Per ricollegarci malle prospettive offerte dai nuovi sistemi di trasporto, l’associazione di comunità potrebbe gestire un servizio di drone-taxi (a Torino entreranno in funzione l’anno prossime e quindi non è fantascienza) che ampia enormemente le possibilità di trasporto (anziani, ammalati, urgenze “minori”) rispetto all’elicottero.

Utopia perché non passa dalle app?

A chi obietta che si tratta di “utopie” basterebbe ricordare che in città, grazie a delle app, funzionano le banche del tempo, i servizi di sharing, di baratto e altre forme che non sono null’altro che il ritorno al mutualismo spontaneo della società contadina. Se funzionano con delle app in un ambiente dove tutti sono sconosciuti agli altri non dovrebbero funzionare dove a oliare e rinforzare i meccanismi della cooperazione vi è ancora la relazione fisica, calda di prossinità? Prossimità che diventa prigione e fonte di tensioni se c’è disgregazione, se non ci sono speranze comuni, se non c’è la prospettiva dell’aiuto reciproco sincero, ma che diventa sicurezza, sostegno, consolazione se i meccanismi di relazione sono caratterizzati da esperienze positive.

E Livigno allora?

Quando si avanzano proposte di defiscalizzazione della  montagna in sofferenza  non si attenta al bilancio dello stato, non si incita alla sovversione fiscale. La zona franca a Livigno è intoccabile e muove un gigantesco giro d’affari, Livigno è una delle migliori località turistiche alpine e prospererebbe anche senza la zona franca che alimenta  attività speculative. Lo stato perde parecchio in termini di iva non riscossa ma nessuno osa eliminare un anacronismo che è privilegio. Per i piccoli centri di montagna si auspica una defiscalizzazione che aiuterebbe la sopravvivenza e stimolerebbe flussi turistici di minima entità.

Nuovi insediamenti, giovani famiglie

In una comunità che riesce a auto-ri-organizzarsi secondo questi modelli si può prevedere di operare al contrario rispetto al passato. Ovvero, invece di chiedere una “quota di ingresso” nella associazione si potrebbe offrire alloggi recuperati senza canoni di affitto e la possibilità di inserirsi nei circoli di autoconsumo (prodotti agricoli, legna da ardere) e autofruizione di servizi locali in cambio dell’impegno (per un numero minimo di anni) a prestare l’opera di uno o più membri della famiglia nelle attività agrosilvopastorali gestite in modo associativo e nelle altre attività di servizio (manutenzioni, servizi di megozio-bar-trattoria, servizi assistenziali) prevedendo comunque la “presa in carico” di una superficie anche piccola di terreno da coltivare direttamente. Come per tutti gli altri “soci” della comunità anche i nuovi arrivati, a fronte del sostegno ricevuto, saranno chiamati a prestare “giornate” di lavoro volontario secondo le proprie capacità o compensate altrimenti (non è del resto consuetudine del tutto abbandonata in parecchi comuni, almeno con riguardo alle strade).

I rapporti con lo stato

In questo schema lo stato rinuncia a tassare e sottoporre a oppressiva regolazione piccole attività che vanno poco al di là di quelle svolte nell’ambito domestico e dell’ hobbismo. In compenso non è difficile valutare quale risparmio in termini di interventi per calamità naturali esso possa conseguire a seguito del mantenimento del presidio e della manutenzione di ampie superfici territoriali. Non solo, favorendo il solidarismo spontaneo, il mutualismo, la soddisfazione di molti bisogni e servizi in forma autonoma da parte delle piccole comunità, lo stato (inteso anche il comune) risparmia ingenti risorse (pensiamo solo quanto costa  l’invio nei paesini di assistenti sociali, e poi il trasporto di alunni e malati, quelle manutenzioni che diverebbero superfle in un contesto edificato e silvopastorale “usato e vissuto”). In  corrispettivo di tutti questi risparmi  lo stato, oltre a rinunciare alle varie forme di oppressione fiscale di realtà minime  (vedi il sadismo dei registratori di cassa, delle fatture elettroniche ecc.), dovrebbe riconoscere alla “società degli abitanti”, attraverso il comune, un corrispettivo forfettario a titolo di “contratto di manutenzione e cura del territorio” a riconoscimento delle utilità sociali e dei servizi ecosistemici forniti alla più ampia collettività dalla presenza (a questo punto non più stile dormitorio) delle piccole comunità dei territori di montagna, alta collina, zone interne svantaggiate. Non mettiamoci altri sessant’anni, però, a mettere in pratica queste (o altre) soluzioni. La montagna sta morendo velocemente e non c’è consapevolezza sufficiente, anche per colpa di distorte ideologie ambientaliste di matrice urbana, delle gravi conseguenze di questo fenomeno per tutta la società.

Una graduazione

Tutto o nulla? Questa “utopia” si può applicare solo alle piccole comunità di poche centinaia di abitanti. No, perché non risolveremmo il problema della montagna. Per i centri più grandi (e/o meno svantaggiati) vanno comunque avanzate proposte di semplificazione della giungla regolativa pubblica, defiscalizzazione, stimolo all’associazionismo di comunità. Posto che nei piccoli centri non può esservi l’obbligo di passare a una gestione comunitativa, in quelli più grandi ciò deve comunque essere possibile e incoraggiato. Misure di semplificazione sono state previste nella citata legge sui piccoli borghi e sono contenute in altre proposte legislative, così come misure di defiscalizzazione.  Fuori da queste provvidenze va lasciata la montagna  senza svantaggio, quella Istat. Qui ci sono più voti e voce in capitolo ma se non si ragiona, schematizzando, sulle “tre montagne”: quella che non necessità di uno status diverso dalla pianura, quelle con maggior svantaggio, spopolamento, che necessità di un’approccio radicale, quella “intermedia”, cosa succede? Che la calata a valle, verso i centri pedemontani (non importa se perimetrati nella montagna e nelle comunità montane) continuerà, che l’emorragia dei centri minori continuerà. Ecco perché ci vuole un intervento coraggioso che non guarda al consenso immediato.

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La vera resistenza

Vera resistenza è far vivere la montagna colpita dallo spopolamento. Ma vera resistenza fu anche quella dei montanari che, durante la guerra civile, furono vittime delle opposte fazioni. Fazioni della stessa matrice ideologica urbana, ugualmente distanti dai valori della gente di montagna.

I tedeschi e i militi delle varie formazioni della Rsi bruciavano le stalle e le baite occupate dai partigiani. Questi ultimi, con le loro azioni – di dubbio (a dir poco) significato militare – esponevano consapevolmente la popolazione civile a dure rappresaglie, alle quali essi stessi si sottraevano spostandosi altrove e lasciando gli inermi a patire le conseguenze. Glorificati come eroi da una vulgata a senso unico, derubavano, armi alla mano, i montanari di animali e di cibo ed esercitavano soprusi. Anche dopo la fine della guerra commisero atrocità che non potevano non far inorridire il senso di pietà cristiana dei montanari.  Nonostante Pansa, tra i pochi testimoni rimasti vi è ancora oggi chi ha paura a parlarne.

Sulla sinistra, indicata dalla freccia la grossa borgata dei Damian bruciata il 12 gennaio 1944. Sulla destra coperto di neve, il dosso de l’Aut (sulle cartine Alpe di Rittana) dietro il quale, sul pendio verso la valle Stura, si trova il gruppo di baite denominato Paraloup, che diventò la nuova sede delle bande partigiane, luogo diventato ora famoso legato al nome di Nuto Revelli

Gennaio di tanti anni fa. Siamo in val Grana, in provincia di Cuneo, nel 1944. Il 12 del mese,  durante il rastrellamento tedesco, furono bruciate le borgate dei Damian e dei Vero sul versante destro della Coumboscuro (la “Vallescura”, valle laterale della valle Grana in provincia di Cuneo), il versante opposto ai Marquion, dove abita Anna Arneodo con la sua famiglia, autrice del breve racconto che segue (e di altri “pungenti” interventi su Ruralpini). In queste borgate avevano trovato rifugio, dopo l’8 settembre, le bande partigiane di Giorgio Bocca, Cipellini… (personaggi che, grazie alle benemerenze partigiane, hanno fatto brillanti carriere giornalistiche e politiche).

Appena prima di Natale questi partigiani avevano compiuto un furto di benzina vicino a Mondovì; poi si erano di nuovo ritirati in valle Grana, portando con sé due prigionieri tedeschi. I tedeschi avevano minacciato serie rappresaglie, ma i partigiani, non dando retta a nessuno, avevano ucciso i due prigionieri.  I tedeschi, agendo di conseguenza, fecero scattare il rastrellamento bruciando le borgate di San Matteo di Valgrana, Sen Pìe/San Pietro Monterosso, Damian e Vero in Coumboscuro.La vera resistenza

di Anna Arneodo

(17.12.19) Quando aveva aperto la porta gli era venuta incontro quella gran luna: con la sua gran faccia rotonda, piena di luce, appesa lassù, sopra la cresta. E guardava curiosa, con la sua luce chiara che rotolava giù dal prato fin dentro casa, oltre la porta aperta. Era rimasto lì, meravigliato: non aveva mai visto una luna così chiara, così vicina. E pian pano si abbassava – la luna -, un piccolo passo verso la cresta della montagna e allora l’ombra del costone a sinistra faceva anche lei un passo avanti, verso destra. Era rimasto un bel po’ a guardare: un passetto della luna verso il basso, un gran passo dell’ombra verso destra. Poi la luna era stata mangiata dalle dita secche degli alberi che crescono ormai dappertutto quassù, fin sulla cresta alta della montagna e anche l’ombra aveva coperto la ruà (borgata). Allora si era accorto del freddo dell’inverno: la terra è gelata, dura al mattino, specialmente quest’anno che non c’è neve.
Non c’era neve nemmeno quell’altro anno. Era il 12 gennaio: 12 gennaio 1944. Allora di qua, dalla sua borgata all’ adrech (versante solatio), aveva ben visto il fuoco là di fronte, quando le ruà dei Damian e dei Vero erano bruciate dopo Sen Pìe e San Maté.
Ma allora la montagna era ancora pulita, non c’erano tutte quelle dita secche, nere, intrecciate spesse attorno alle borgate: solo prati e òuche (terrazzamenti) e lime (rive) e qualche filare di frassini a tenerli su, i lime.
Si vedevano bene le case rosse, i tetti che crollavano, il fumo spesso del fieno che bruciava sui fienili; ed era rimasto a chaumar per giorni l’odore del fieno che si consumava piano.
Povera gente: in pieno inverno avevano perso tutto!

Situazione attuale della borgata dei Damian, bruciata e poi ricostruita, ora nuovamente disabitata

Dicevano che fossero stati i tedeschi a dare fuoco: ma prima lì c’erano i partigiani. Lui li conosceva bene: ragazzi giovani venuti dalla città, salivano, scendevano di continuo e poi si presentavano sovente anche nella sua borgata a farsi dare uova, burro, pane, con maniere non sempre gentili.


Aurelio Verra, partigiano della formazione di Bocca e Cipellini

Avevano sempre la pistola in tasca. Un giorno avevano preteso di prelevare un vitello dal suo vicino – il solo vitello che aveva nella stalletta -, ma lui s’era messo sulla porta con il tridente… e loro se ne erano andati!
Non era giusto, rimanere senza casa, senza bestie, senza fieno, senza più niente, in pieno inverno; appesi a queste rive, questi prati magri, dove la roba tribula a crescere e la fatica non conta.
Eppure i tedeschi avevano detto che qui c’erano i “ribelli”: era vero. Ma i “ribelli” se li erano trovati in casa, senza volerli.
Ed ora che le case erano bruciate, i “ribelli” se ne erano andati, avevano passato la cresta e si erano sistemati in altre grange (cascine di montagna), lì dietro. Loro non avevano fienili, mucche, case da proteggere: se ne erano andati con i loro piccoli fucili in spalla e noi eravamo rimasti qui.


I partigiani durante uno spostamento nella zona

E nemmeno i soldati tedeschi erano così cattivi: piangevano quando ci aiutavano a slegare le mucche e portarle fuori dalla stalla…
Poi anche i tedeschi se ne erano andati; i partigiani se ne erano andati e noi eravamo rimasti quassù, su queste nostre povere montagne, a ricostruire le case, a resistere.

È stata questa la vera resistenza.

Nuvole rosse, di fuoco, riempiono il cielo sopra le creste dei Damian e si leggono le trame nere sottili dei rami contro il cielo sopra il crinale. Ormai il bosco ha mangiato prati e pascoli, l’intero versante degli Issart (borgate di DamianVeroPoulin) non ha più un solo abitante.
San Maté di Valgrana è deserto, completamente abbandonato; l’Eschaleto (di Pradleves) è vuota, in rovina…
Santo Lucìo conterà sì e no 30 abitanti, altrettanti Frise, poche decine l’intero comune di Castelmagno…

Fino a quando riuscirà ancora a resistere la nostra montagna?

Anna Arneodo
Borgata Marchion 8/A- COUMBOSCURO
12020 Monterosso Grana- CN
017198744
meirodichoco1@gmail.com