Danni da lupismo


la pericolosa fiera del lupo, tra simil-lupi e lupi esotici
   

A Grugliasco, periferia di Torino, in un bilocale di condominio, una donna di 74 anni è stata sbranata dai cinque cani lupo cecoslovacchi della figlia, di una linea francese sospetta di reibridazione con il lupo. La signora, nonostante la morte della madre, ha chiesto al magistrato di riavere i cani. Ai primi di ottobre, a Saint Martin Vesubie, nel Parco del Mercantour, al confine con la provincia di Cuneo, sette luponi neri canadesi sono scappati dalla Disneyland dei lupi dove erano detenuti. Cosa c’entrano le due notizie e perché mettono in bella evidenza i danni gravissimi del lupismo? Scopriamolo.

di Michele Corti




I cani lupo cecoslovacchi (CLC) sono tornati al centro dell’attenzione per il tragico episodio di Torino (una donna di 74 anni, Mariangela Zaffino, sbranata dai cinque CLC). Inizialmente si sapeva solo che erano tenuti in un bilocale di un condominio e che erano in cinque (una famiglia di CLC al completo con tre cuccioloni di nove mesi), il che è già un fatto assurdo.
Tutti i cani derivano dal lupo; alcune razze, però, sono frutto di ibridazioni del cane domestico con il lupo. Frutto di ibridazioni antiche sono: il pastore tedesco, l’husky, l’alaskan malamute. Nel Novecento si cercò di creare (anche in Italia) nuove razze. Come vedremo più avanti il CLC non è la sola razza. La formazione di queste razze ha dato esiti più o meno problematici per la difficoltà di stabilizzazione dei caratteri comportamentali anche dopo parecchie generazioni. Tendenza generale di questi cani-lupo è la diffidenza verso gli estranei, l’istinto predatorio, la necessità di essere gestiti da chi ne conosce bene le caratteristiche. In anni recenti, però, sono stati praticate numerose ibridazioni deliberate tra cani di queste razze e il lupo selvatico, oggetto di un vero e proprio culto. Di qui la presenza di linee ancora più problematiche.
La coppia di cani adulti di Grugliasco era nella disponibilità della figlia della vittima, Simona Spataro, una donna di 48 anni. La signora secondo quanto apparso inizialmente su Torinotoday, farebbe parte parte di un’associazione di volontariato (Coda di lupo rescue) che ricolloca cani CLC e altre nate da ibridazioni con il lupo. Pare, invece, che la sorella ne facesse parte e questo può aver indotto in confusione i giornalista.  L’associazione ha comunque smentito che la signora sia loro socia, pur precisando che “la famiglia è di amici carissimi” (vedi Fanpage, che riporta che la proprietaria dei cinque CLC comunque “aiutava” l’associazione Coda di lupo). Essa smentisce però categoricamente che i cani detenuti dalla Spataro fossero quelli ricollocati dall’associazione stessa  e sostiene che erano stati acquistati presso un allevamento (Colosimo). Quest’ultimo ha allevato soggetti di una linea francese sospetta di recente ibridazione. La Spataro aveva acquistato uno di questi soggetti “sospetti” dall’allevatore, poi pare (non ci sono riscontri) che avesse ricevuto in dono la femmina. I due cani erano mezzi fratelli e di linea sospetta ma la signora li ha fatti accoppiare, ha ceduto le femmine della cucciolata e si è tenuta tre maschi.
I soggetti di questa linea “francese” non sono stati cancellati dal libro genealogico ma sono sospesi (in attesa di verifiche sul dna). L’associazione proclama di avere a che fare solo con cani “puliti” (ricordiamo che il club degli allevatori CLC è stato, per anni e sino a due mesi fa, commissariato dall’Enci inseguito all’inchiesta della forestale).
Il problema dell’abbandono o comunque della rinuncia alla detenzione di questi cani (anche “puliti”) deve essere di una certa entità se vi sono associazioni appositamente dedite all’attività di ricollocazione, un’altra infatti è CLC rescue, presente in tutte le regioni e in gran parte delle provincie italiane. Coda di lupo, da parte sua, così inquadra il problema:Il fenomeno delle razze ibridate dal lupo é in piena espansione: complici i vari film e serie televisive con questi splendidi esemplari protagonisti, il fascino misterioso e selvaggio del lupo, la voglia di approcciarsi ad esemplari di razza dall’indiscussa bellezza e l’arroganza dei neofiti, siamo arrivati al punto in cui gli abbandoni di questi animali é in continuo aumento e purtroppo crescerà ancora anche per colpa di “cagnari” che svendono in rete esemplari frutto di cucciolate non testate e di dubbia genealogia che portano ad abbassare il prezzo di mercato rendendo questi cani alla portata di cialtroni privi di qualsiasi cultura cinofila che alla prima difficoltà se ne disfano.Coda di lupo sostiene di volersi differenziare dal marasma delle associazioni animaliste. E ne prendiamo atto, anche sutto il mondo che ruota intorno al CLC (come a molta cinofilia) appare torbido. I servizi veterinari assillano con controlli gli allevatori di animali da reddito mentre nel condo della cinofilia ne succedono di tutti i colori.
Da quello che si è appreso i CLC di Grugliasco vivevano in un bilocale e gli spazi all’aperto erano il cortile del condominio e i giardinetti. In queste condizioni i cani sono stati fatti riprodurre. Va detto che i soggetti frutto di reincroci recenti e illegali, come quegli oltre 200 esemplari di CLC sequestrati nel 2017 dai forestali (vedi oltre) ma anche i soggetti problematici e di dubbia origine dovrebbero essere sterilizzati. A parte la vicenda di Torino che comunque solleva numerosi interrogativi sull’attività di queste associazioni, ci si chiede che tipo di vigilanza sia stata esercitata sugli oltre 200 cani sequestrati ma riaffidati (per il benessere animale) ai loro detentori. Ma facciamo dei passi indietro.
Sopra e sotto: due modi di dare una notizia: sopra la parola CANE non è utilizzata, sotto – all’opposto – non è utilizzata la parola LUPO. Evidentemente Repubblica, che in Italia è testata ammiraglia del politically correct entro il quale (sullo sfondo del capitalismo neoliberale) il lupismo si colloca, non vuole in nessun modo associare con il lupo il fattaccio :il lupo è buono, innocuo e innocente per definizione. Eppure, se la gente acquista i CLC è per la diffusa lupofilia/lupomania e se il CLC non è un “cane per tutti” è perché ha una componente genetica lupesca recente, che qualcuno tende a “rinfrescare”.



Nel 2013 Ruralpini, con un articolo che aveva irritato alquanto i lupisti, (Lupomania e fabbriche dei lupi fanno male al lupo) si era occupato di una prima operazione condotta dai forestali che avevano sequestrato decine di CLC. Nel gennaio 2017, i medesimi, nel frattempo divenuti carabinieri, hanno eseguito una nuova vasta operazione di sequestri di cani in diverse regioni. Furono sequestrati in tutto oltre 270 esemplari di CLC “taroccati” (o almeno presunti tali).  “Taroccare” un CLC  che scopo ha? Farlo assomigliare di più al lupo, quello vero, quello selvatico quello che eccita il lupomane. 


Nelle pubblicità della Brondi, i CLC, come in questo caso, ma anche altri cani – lupo (o lupo -cani?)  sono diventati protagonisti di una serie interminabile di “cappuccetto rosso e il lupo”, molti in versione sexy

I lupomani sono disposti a spendere migliaia di euro per avere un lupo, il più possibilmente “vero”… al guinzaglio. Una situazione che riflette bene la schizofrenica natura dell’animal-ambientalismo, figlio della società industriale e post-industriale che ha smarrito il senso spontaneo ma al tempo stesso profondo del rapporto uomo-animale e uomo-natura ma sale in cattedra e vuole imporre le sue contraddizioni a chi quel rapporto, alm,eno in parte, non ha perso. Amano tanto, dicono loro, la natura “libera e incontaminata”, che vorrebbero chiudere un lupo in un loculo di condominio per la loro soddisfazione egoistica e capricciosa. Ma si sa: torturatori assassini sono i pastori. La moda è imperante. Le motivazioni sono state espresse da Ilaria Boldrini che, da lupofila, è divenuta allevatrice di CLC.
Insomma, un giorno all”esposizione di Firenze abbiamo visto una coppia di CLC. E sia io che Francesco li abbiamo trovati bellissimi! Davvero la razza per noi, in tutto e per tutto! Premetto che siamo amanti del lupo selvatico da anni; per me il massimo è il lupo canadese. E quando li abbiamo visti per la prima volta il sogno si è avverato. Dopo un anno un “lupo” è entrato a far parte del nostro piccolo branco. (…) Come vedi morfologicamente il CLC?  “Lo vedo sempre più simile al lupo. lo Standard dice che questo cane deve assomigliare al lupo. Tutti i segni caratteristici del Pastore Tedesco sono da considerare un difetto. Quindi la groppa scesa, la canna nasale non a punta, ma rivolta verso il basso, le orecchie grandi, gli occhi tondi e scuri, le angolazioni da Pastore Tedesco. (…) Il CLC è semplicemente unico nella specie canina! Io ho letto e visto tanto sui lupi, e posso dire che questi cani sono decisamente simili all’antenato lupo. Di “cane” c’è davvero poco. E adesso, dopo tante selezioni, l’aspetto morfologico è più del lupo che del cane.
In un recente lavoro sulla genetica del CLC dal titolo significativo “Lupo fuori e cane dentro?” (R. Caniglia, et al. Wolf outside, dog inside? The genomic make-up of the Czechoslovakian Wolfdog. BMC genomics, 2018, 19.1: 533), gli autori concludono che l’apporto genetico del lupo all’identità genetica della razza è però tutto sommato modesto. Interessante, però come inquadrano il problema; Nel corso del tempo, un numero crescente di specie è stato selezionato attraverso incroci controllati con lo scopo di fissare artificialmente, o migliorare, tratti morfologici considerati necessari e/o comportamenti desiderati e questo, con il passare delle generazioni, ha portato alla nascita di un’enorme varietdi razze utili all’uomo sempre più distanti dai progenitori selvatici dai quali era partita la loro selezione. Al giorno d’oggi, tuttavia, si può notare una tendenza inversa. Si sta cercando di ottenere razze che abbiano caratteristiche sempre più simili ai loro antenati selvatici che ai loro corrispettivi domestici. Un esempio evidente di tale tendenza è rappresentato dalla crescente popolarità di razze di cane lupo disponibili al grande pubblico, come ad esempio il Cane Lupo di Saarloos, il Lupo Italiano, il Cane Lupo di Kunming, gli American Wolfdog e il Cane Lupo Cecoslovacco, tutti creati dall’incrocio voluto e deliberato tra razze lupoidi o antiche (il Pastore Tedesco, l’Husky o l’Alaskan Malamute) con lupi selvatici e che, quindi, rappresentano casi estremi di ibridazione antropogenica.“Dentro”, il CLC non è molto lupo. Però, la lupofilia/lupomania, fomentata dalla propaganda finanziata da decine di milioni di progetti pro lupo gestiti dalla lupologia/lupocrazia, ha spinto – sulla base della legge del mercato, in cinofilia è particolarmente spregiudicato – perché  il CLC diventasse ancora più lupo, più prestante, più gagliardo, più esteticamente simile al lupo. I militari e la protezione civile volevano un lupo dai dai sensi più acuti, più resistente alla fatica, dai piedi più forti. I lupofili un lupo-cane, che si confonda al massimo con un lupo vero, i lupomani un cane che sia anche dentro più lupo possibile.  Dei vari cani lupo il CLC è il più diffuso, almeno in Italia. 

Altro che Rin-tin-tin o il Commisario Rex! Oggi il cane lupo dev essere molto più lupo. Non sono più i tempi che il solo nome “cane lupo” metteva una gran paura ai bambini (me compreso); oggi la gente vuole accarezzare i simil-lupo e persino i lupi veri, come quell’automobilista che, qualche settimana fa, accarezzava un lupo ferito vittima di un incidente stradale non rendendosi conto che ciò provoca uno stress  ulteriore all’animale. Ma queste sono le conseguenze della propaganda che assimila i lupi ad agnellini, che presenta il selvatico in forme accattivanti, domesticate, infantilizzate attraverso una propaganda strumentale da parte di chi la fauna dovrebbe conoscerla e che distorce strumentalmente e sistematicamente l’informazione e la comunicazione per i propri fini (anche economici).

Il CLC è sotto i riflettori ma, a dimostrazione della diffusione del fenomeno, conviene ricordare che non mancano  gli appassionati detentori del meno popolare e più problematico cane lupo di Sarloos (razza riconoscita dall’Ente nazionale cinofilia italiana alla pari del CLC, e dell’American Wolf Dog, una razza non riconosciuta dalla Federazione cinogenica internazionali per via del ricorso al re-incrocio con il lupo ma allevata in Italia dove esiste un’associazione di Amici allevatori del Wold Dog. Il Lupo italiano è partito da una ibridazione deliberata negli anni ’60. Esiste un registro ufficiale ma i cani non sono in vendita e sono affidati dall’associazione che lo tutela solo a aspiranti detentori selezionati (prima c’era un Ente lupo italiano). Non è riconosciuto a livello internazionale ma il governo italiano l’ha sostenuto ed è in dotazione ai forestali. Un vero cane lupo di stato.
Gli autori del sopracitato studio sul CLC osservavano anche, a proposito del CLC e degli altri cani lupo che: L’ ultima problematica, infine, è rappresentata da incroci illegali con lupi che mirano a creare animali con un aspetto ancora più simile al lupo, e che quindi, spesso, vengono venduti a prezzi molto più alti della media di razza. Questi ibridi presentano, ovviamente, anche una gestione molto più complessa causata spesso da temperamento molto meno prevedibile (sono, di fatto, più soggetti a risposte istintive a determinati stimoli e motivazioni) a sua volta causato, probabilmente, dalla rottura della composizione genetica e delle interazioni epistatiche (ossia quando un gene influenza l’espressione fenotipica di un altro gene) stabilite durante diversi decenni di selezione artificiale dei tratti comportamentali del CLC. La preoccupazione maggiore è che, se questi incroci venissero abbandonati in natura o fuggissero, potrebbero più facilmente ibridarsi con i lupi rispetto ad altre razze, contribuendo all’immissione degli alleli del cane nel genoma del lupo, dando vita quindi a un serissimo problema di conservazione delle diverse popolazioni di lupo.Quanto è ipotetica questa possibilità che questi cani lupo reincrociati con lupi veri si ibridino con la popolazione selvatica? Il problema dell’ibridazione del lupo è enorme. La lupologia sa bene che è scottante. La lupologia è quella componente del mondo scientifico che, abusando dell’autorità scientifica, ha spregiudicatamente cavalcato la lupofilia e l’animal-ambientalismo per sviluppare il lupomarketing, incassare decine di milioni di euro, e sviluppare una rete di potere intorno al lup, ovvero creare un’incipente lupocrazia. Veri apprendisti stregoni, i lupologi, a partire dal lupologo-maximo (Boitani). Nel breve-medio periodo la lupologia, che tende, sempre più oliata dai finanziamenti e sull’onda della lupofilia, a una vera e propria lupocrazia (ovvero a creare centri e reti di potere, veri network istituzionali de facto ma sempre più riconosciuti come “pezzi” degli apparati),  ha incassato altri progetti su tema ibridazione (Mirko-lupo, Hybrid-wolf) e sta proponendo altri sviluppi del tema.
L’ibridazione mette a ko però la legittimazione biologica naturalista della super-protezione del lupo quale specie autoctona originale “pura”, specie se, oltre all’ibridazione con il cane domestico, emergesse quella con lupi esotici extra-europei. Specie se emergesse che è il lupismo, nel suo seno, a promuovere certi attentati all’integrità genetica del lupo.
Il tema dell’ibridazione è servito egregiamente a intorbidare le acque in un periodo recente di espansione dei lupi. Oggi con il lupo che copre quasi tutto il territorio nazionale, la subdola tattica di utilizzare gli ibridi come capri espiatori non serve più (nemmeno quella, in realtà, di additare quale fake ogni avvistamento di lupi in aree antropizzate riconducendolo ai CLC, che fanno comodo quindi al lupismo). I lupi-lupi, per quanto geneticamente largamanete compromessi), selvatici al 100% ( in base quantomeno alle definizioni di legge), si trovano ormai alle periferie cittadine e nella pianura padana.
Qualche anno fa i lupisti (i lupologi “scientifici” più i lupofili militanti) sostenevano che i lupi erano diventati “confidenti” perché non erano lupi ma ibridi e che l’ibrido è pericoloso per l’uomo mentre il lupo “vero” lo teme (che balla!). O non ci sono più lupi “veri” o quelli che ci sono hanno proprio perso la paura dell’uomo per il semplice farro che quest’ultimo non rappresenta ormai più una minaccia per il canide selvatico. Boitani, che nel tempo ha dichiarato tutto e il contrario di tutto, già parecchi anni fa asseriva che: nel giro di poche generazioni lupine se il lupo non è più sparato ce lo troviamo nelle case.

Ormai il lupo, per la gioia dei lupofili e lupomani è ovunque. Inevitabile un significativo grado di ibrifdazione che non può che aumentare.

L’estesa ibridazione (i lupologi, come i virologi non concordano neppure su punti cruciali: per alcuni è arrivata all’80% dei “lupi” italiani, per altri è limitata al 20-30%) è comunque il risultato di una politica di sostegno in tutti i modi all’espansione territoriale del lupo. Il canide, da specie opportunista, non legge le cartografie dei lupologi e ha già colonizzato spazi dove non era più presente da secoli. Non solo, ma sta dimostrando di gradire le zone di pianura e densamente antropizzate.  Il lupo ha dimostrato di essere bravissimo a oltrepassare le barriere naturali e artificiali e a trovare in ogni ambiente prede di cui sfamarsi. Sta arrivando dove i lupologi non prevedevano. Ovviamente nelle zone pianeggianti e antropizzate l’interazione (predatoria e riproduttiva) con il cane è frequente, l’ibridazione inevitabile. Troppi lupi, niente lupi veri. Ma al lupismo interessa qualcosa della biodiversità? Il lupo è solo uno strumento, una testa d’ariete, un grimaldello per obiettivi di potere, controllo del territorio, business.


Uno dei temi più controversi riguarda l’acquisizione di certi caratteri fenotipici (esteriori), molto più facili da verificare che le mappature del Dna. I lupi bianchi, neri, grigi, sono l’effetto degli incroci con grossi cani di razze lupoidi asiatico-americane o c’è di mezzo dell’altro? Se la responsabilità della diffusione di certi caratteri (eventalmente confermata dall’analisi genetica) fosse riconducibile all’ibridazione con certe razze di cani domestici e se fossero individuabili degli “untori”, l’inquietante presenza di luponi avrebbe i suoi responsabili, i suoi capri espiatori.
E arriviamo così alla grande operazione dei forestali. Operazione molto mediatizzata, molto enfatizzata, con una gragnuola di ipotesi di reato: detenzione illegale di fauna selvatica, violazione convenzione CITE sulle specie a rischio di estinzione, violazione della legge sulla tutela della fauna selvatica, falso ideologico, frode in commercio. Fuochi d’artificio, conditi con perquisizioni all’alba di ignari detentori di cani, svegliati da pattuglioni di forestali armati. Come finirà? Le norme sulla detenzione degli ibridi sono in contrasto tra loro e le sentenze tendono a ritenere che un ibrido nato in cattività da genitori in cattività non possa esere equiparato a un selvatico. Facile che resti solo la falsificazione dei pedegree dei cani. Il reato di detenzione di animale selvatico verrebbe limitato a lupi-lupi eventualmente detenuti come stalloni/fattrici e, forse, ai prodotti di prima generazione
Quanto agli ibridi F2, F4, F4 (o presunti tali) sequestrati essi sono stati lasciati in custodia e in uso ai detentori “per il benessere animale”. Ma non sono pericolosi? Non possono accoppiarsi con i lupi? Non sono valide quindi le motivazioni alla base della definizione del reato?  Il caso è stato montato a partire da un soggetto femmina di nome Ave lupo (di qui il nome della grandiosa operazione dei forestali). Nata in repubblica ceca da un accoppiamento non legale tra una lupa canadese e un pastore tedesco. Poi la fattrice, che il repubblica ceca era stata prima iscritta al registro dei cani sanza pedigree poi depennata privando i detentori della possibilità di utilizzarla per la riproduzione… appare in Italia, dove le schiere lupofile e lupomani bramano di possedere un lupo, quasi vero, tutto per loro (sono quelli che amano la natura ma ci vanno preferibilmente in fuoristrada, amano il lupo … al guinzaglio).Ave Lupo, una volta in Italia è stata fatta riprodurre con uno stallone dell’allevamento Passo del lupo  ottenendo diversi prodotti (F2). Tutti i 272 cani sequestrati dai forestali sono F3 e F4 di questa discendenza? Nella discendenza di Ave lupo sono stati utilizzati ancora dei lupi e degli ibridi? Sarà interessante scoprirlo.

 Veniamo ai lupi di Saint Martin Vesubie. Il parco Alpha (i nomi non si scelgono a caso: i lupofili/lupomani sono tendenzialmente dei frustrati, magari mobbati dal capufficio, che si vogliono immedesimare con un meccanismo di transfer abbastanza palese nel “capo-branco”, nel lupo alfa dominante). Il parco Alpha è uno dei tanti luna park del lupo. Il lupo è un business. Eco come si promoziona sul suo sito nella cattiva tradizione dal francese:
Ogni giorno di apertura, i badanti-animatori spiegano ai visitatori la vita dei branchi e presentano il comportamento di ciascun lupo durante l’alimentazione. Il parco Alpha consente anche ad alcuni di accedere al loro sogno: diventare badante per un giorno. Accompagnato dai professionisti del parco, il badante per un giorno si mette nella pelle di un animale affiancandosi ai lupi da vicino. Una merenda e un’area di picnic vi permetteranno di migliorare la splendida giornata trascorsa al parco Alpha.La gente non si accontenta di film e di romanzi sul lupo (ne scrivi uno mediocre con il lupo nel titolo e sei sicuro di vendere). Il bombardamento mediatico pro lupo è incessante ed è ovvio che l’offerta di lupo trova sempre una domanda ricettiva. Più i luponi dei centri-lupo sono esotici e fustacchioni (ripetiamo: ma le balle sulla biodiversità autoctona?) e più il centro incasso. Ergo ci deve essere una bella domando di lupi di ogni razza e ogni provenienza. Quello che è successo ai primi di ottobre potrebbe succedere altrove nei tanti centri italiani.

Nel Mercantour, il grande parco dove il 5 novembre 1992 venne annunciato l’arrivo dei lupi (con sei mesi di ritardo e nel silenzio del personale del parco stesso e di un giornalista, in quest’ultimo caso ottenuto con le minacce). Le alluvioni (Tempesta Alex) che hanno sconvolto la Provenza ai primi di ottobre ha provocato una frana che ha danneggiato la recinzione e consentito ai lupi di scappare. Erano sette lupi neri e un lupo bianco artico. Il branco dei lupi neri, di grossa taglia, è stato visto unito qualche giorno dopo. Il 18 ottobre ne è stato catturato uno, a novembre altri due. Ai primi di dicembre è filtrata la notizia che un fuggitivo sarebbe stato abbattuto da ignoti.
Uno dei lupi fuggitivi catturati con il dardo narcotico ancora nella spalla

Ne restano ancora quattro in libertà. Gli allevatori di Cuneo sono preoccupati che, se sopravviveranno all’inverno   possano incrociarsi con i lupi stanziali e dar luogo a degli ibridi ancora più feroci  (è vero che sono nati in cattività e quindi “imbranati” ma è anche vero che sono lupi provenienti da aree molto fredde capaci di sopravvivere se riescono a procurarsi cibo) .

Quanti lupofili da tastiera sarebbero felici di incontrarlo a tu per tu di notte in un bosco?

Ma se quanto accaduto al Parco Alpha è finito sotto i riflettori, cosa accade nei tanti centri di recupero dove vengono accudini amorevolmente i lupi? E cosa succede nei tanti parchi faunistici? Alcuni di questi “centri” sono (o erano) localizzati in aree che sono poi diventate strategiche per la nuova colonizzazione dell’Italia del Nord da parte della specie. Più o meno accidentalmente o deliberatamente da tutta questa rete opaca di centri lupo dove i controllori e i controllati si confondono all’insegna del lupismo militante e conclamato o celato dietro ruoli di funzionari pubblici e di divise. Ai tempi del primo sequestro dei CLC “sospetti”, nel 2013, Duccio Berzi, moderatore del forum Canis lupus – non mancava di notare le contraddizioni del Centro lupo di Popoli gestito dal Corpo forestale dello stato che, nel mentre sequestrava gli ibridi…. li produceva esso stesso.
Alcune cose ascoltate al convegno mi hanno fatto accapponare la pelle… Nella presentazione della dr.ssa Mattei, si indica che i lupi nelle aree faunistiche della Majella vengono fatti riprodurre. Questi sono poi utilizzabili per altre aree faunistiche o in vista di reintroduzioni in natura (…). Sempre a Popoli tempo fa è arrivata una femmina di CLC gravida probabilmente di un lupo (accoppiamento programmato da un allevatore). E’ stata fatta figliare. Ora hanno un nuovo gruppo di ibridi in cattività che non sanno come gestire.
Ma come? La forestale mette in moto la grande operazione Ave lupo e poi  le fattrici CLC ibridate intenzionalmente vengono fatte partorire? E se questo succede nei centri dell’ex Corpo forestale dello stato figuriamoci dove i lupisti che li dirigono non sono neppure frenati (un pochino) da una divisa. Dobbiamo credere che solo i cattivoni allevatori di  CLC giochino sporco? Che non possano manipolare le carte anche chi gestisce centri recupero o zoo vari? Il lupista, anche se pubblico ufficiale, veterinario, funzionario ritiene che per “salvare” il lupo il fine giustifichi i mezzi.


Cauda

Un lupo nero avvelenato a Imola nel 2010. La narrazione lupologica vorrebbe far credere  che i lupi neri derivino da ibridazioni con il cane di 10 mila anni fa e che l’Appennino settentrionale, insieme al Nord-America sia l’unica area al mondo dove il carattere si è fissato nella popolazione lupina autoctona da migliaia di anni. Ne raccontano tante di favole!  Anzi di balle. Perché se osservate la cartina della diffusione del lupo negli anni ’70,  vedrete che  sull’Appennino settentrionale il lupo era estinto. La lupologia ortodossa continua a sostenerlo. Ora ci debbono spiegare come fa il carattere “mantello nero” ad essere fissato da migliaia di anni nella popolazione attuale se: 1) in Europa era tipico solo nella sotto popolazione appemminica settentrionale, 2) nell’Appennino settentrionale il lupo si è estinto e la ricolonizzazione è avvenuta a partire da centri dell’Appennino centro-meridionale. Si contraddicono essi stessi. Come quando qualche anno fa, Apollonio, sulla base di un monitoraggio aveva stimato la popolazione lupina toscana di consistenza superiore al migliaio di individui mentre Boitani, per poter avallare l’idea del lupo a rischio di estinzione e incassare le milionate, dava una stima per l’Italia inferiore a quella di Apollonio per la Toscana. Chiamatela scienza, se volete. Se siete lupisti irrecuperabili.


Glossario di una patologia sociale post-moderna

Lupismo ideologico: Ideologia che associa alla reintroduzione del lupo proprietà taumaturgiche di ricostituzione degli equilibri ecologici, di promozione della biodiversità. In forza di queste premesse assiologiche essa rivendica la protezione “a prescindere” del lupo, la necessità della sua espansione, ma anche, senza proclamarlo apertis verbis, la prevalenza dell’interesse alla proliferazione del lupo rispetto ad ogni altro interesse (anche costituzionalmente garantito). Nelle sue forme più aggressive l’ideologia lupista si presenta come testa d’ariete del rewilding e esalta nel lupo il “vindice” della natura corrotta dall’uomo (ma qui si sconfina non la lupomania, vedi oltre).

Lupismo organizzato: L’insieme dei soggetti che esercitano l’azione di lobby nel quadro dell’adesione all’ideologia lupista.
Lupologia: la componente scientifica del lupismo finalizzata a costruire legittimazioni al lupismo sfruttando l’autorità accademica, diffondendo informazioni parziali o manipolate, confutando e delegittimando le obiezioni degli interessi lesi dal lupismo.
Lupocrazia
: Il lupismo organizzato oltre a conseguire forti posizioni nelle istituzioni e negli organismi consultivi e tecnici (tanto da poter muoversi entro un’ampia sfera di autoreferenzialità) si fa istituzione, come nel caso del Centro grandi carnivori in Piemonte (autority regionale del lupo), la rete creata attraverso i vari progetti Wols Alps all’interno delle istituzioni coinvolte (istituzione ombra all’interno delle istituzioni). Nel piano lupo si auspicava la creazione di autority locali del lupo (in analogia ad altre agenzie con potere di regolare e vincolare attività di uso del territorio). Governance del lupo come tassello cruciale di governance del territorio espropriativa delle istituzioni elettive.
Lupofilia:
 Il sentimento, gli atteggiamenti di simpatia e pregiudiziale  favore nei confronti del lupo e delle iniziative a suo favore che porta a schierarsi per la sua protezione assoluta )indipendentemente da ogni considerazione sociale, storica, ambientale) e a una forte propensione a un consumo culturale specifico (libri, narrativa, gadget, abbigliamento, spettacoli).
Lupomania: La forma ossessiva di lupofilia che porta a detenere un cane più possibilmente lupo, a tatuarsi con immagini del lupo, a partecipare a gruppi social di lupomani, a svolgere attivismo pro lupo, a utilizzare fototrappole per immortalare gli oggetti del culto.
Lupomarketing: Lo sfruttamento a fini di lucro della lupofilia e della lupomania nonché delle posizioni acquisite dal lupismo organizzato e dalla lupocrazia (il business dei progetti Life, i centri faunistici del lupo, il turismo del lupo, la letteratura e le produzioni audiovisive).

UBI SOLITUDINEM FACIUNT, PACEM APPELLANT

(17/02/2021) Una lettera che riflette lo scoraggiamento di chi resiste in montagna. Ci vuole tanta determinazione per farlo perché si ha a che fare con una corsa ad ostacoli: sempre nuove angherie burocratiche, controlli, certificazioni, messe a norma. E poi, naturalmente, il lupo che cinge d’assedio le borgate e le famiglie che vivono isolate come…

Lupo: la responsabilità è dei territori

Mariano Allocco torna sul tema del lupo, tornato incandescente in Piemonte con le dure critiche avanzate da Mauro Deidier, presidente del Parco Alpi Cozia, nei confronti del progetto WolfAlps. Lo fa chiarendo che non è il gioco solo la “questione lupo”, ma il governo del territorio che i forti centri del potere ambientalista intendono espropriare…

Pastori. Non ha molto senso parlarne bene a Natale ma poi stare dalla parte dei lupi per tutto il resto dell’anno

di Robi Ronza (26/12/2012) Come ogni anno a Natale tornano fra l’altro alla ribalta i pastori, primi destinatari dell’annuncio della nascita del Salvatore e primi ad essersi recati ad adorarlo. L’Epifania (= manifestazione) cui vennero invitati precede di molti giorni quella dei Magi. Credo che ad esempio Lorenzo Lotto nella sua famosa «Adorazione dei pastori», esposta…

Montagna accessibile (per contrastare l’abbandono)


In passato, la realizzazione di strade in alta montagna si è prestata a critiche: opere realizzate con caratteristiche non congrue con l’ambiente alpino e le reali necessità delle attività silvo-pastorali, interventi eseguiti laddove non vi era possibilità di recupero degli alpeggi. Oggi, però, la realizzazione di strade di accesso alle alpi pascolive che ne sono ancora prive, va valutata positivamente anche dal punto di vista ambientale. Le regole sul transito sono infatti diventate rigorose e la rete delle piste solvo-pastorali favorisce un turismo “dolce” (escursionisti, biker, equiturismo). Ciò che ancor più conta, il mantenimento della pratica alpicolturale produce servizi ecosistemici importanti. Dalla val Maira un esempio virtuoso di rilancio di un alpeggio a vantaggio della comunità degli allevatori locali.

di Andrea Aimar

(26.10.20) La montagna è un luogo gestito dall’uomo fin dall’antichità, dove lo spirito del montanaro ha saputo conservare intatto il patrimonio ambientale per millenni, a differenza di molte zone della pianura che con il tempo sono diventate, in molti casi, un ammasso obbrobrioso di asfalto e cemento. Una valorizzazione, quella del “monte”, che ha saputo mettere in risalto gli aspetti ecologici ed antropologici creando un’importante relazione territorio-culturale. Con l’avvento del progresso le Alte Terre hanno dovuto adattarsi però al cambiamento acquisendo nuove metodologie di lavoro, rispondendo a esigenze ineludibili, a partire da quelle di crescita ed espansione aziendale, in particolar modo del settore agricolo boschivo, rimasto pressoché inalterato per secoli. Tutt’ora le aree marginali non servite da strade di accesso non possono essere ragionevolmente gestite e di conseguenza tutelate perché, dove è impedito l’uso della meccanizzazione, i boschi sono abbandonati ed i prati incolti, innescando così un lento ed irreversibile progredire di conseguenze anche negative, dall’aspetto estetico dove i prati un tempo falciati si riempiono di rovi e arbusti, agli effetti pericolosi dell’instabilità del suolo , senza dimenticare gli incendi, in cui le borgate ormai soffocate dagli alberi, corrono rischi non indifferenti.L’opera dell’uomo nelle aree montane, se fatta con anima e attenzione, è il tassello fondamentale per il presidio dell’ambiente. Lo stesso vale per i pascoli, dove i margari e pastori necessitano degli accessi diretti alle proprie baite per assecondare i bisogni aziendali con il trasporto di materiale sugli alpeggi garantendo il mantenimento di un’importante filiera agro-alimentare con prodotti di nicchia a km 0.  Il collegamento mediante piste agro-silvo-forestali, auspicabile ovunque vi siano le condizioni per realizzarlo,  consente anche di superare una condizione di isolamento oggi difficilmente accettabile e alla quale l’elicottero può compensare solo parzialmente le strade agro-silvo-pastorali.


L’esperienza di Prazzo. Le piste agro-silvo-pastorali sono un prezioso strumento per contrastare lo spopolamento dei territori montani soddisfando reali necessità di chi in questi luoghi vive e lavora. Queste strade, per lo più sterrate, hanno creato  una fitta rete di viabilità, anche in alta quota, rilevante anche dal punto di vista turistico, componendo così circuiti adatti a tutti, dall’escursionismo allo sci, all’utilizzo delle biciclette per favolosi percorsi immersi nel verde.Da alcuni anni l’amministrazione comunale di Prazzo ha intrapreso una meritoria opera per il miglioramento dell’Alpe Giàs Vecchio, alpeggio comunale a monte del vallone di San Michele, un centinaio di ettari di estensione pascoliva distribuita tra i 2200 e 2700 metri. Dopo aver censito gli usi civici comunali, diritto inalienabile e non usucapibile (un lavoro iniziato nel 2014 dalla precedente amministrazione), grazie all’assegnazione di un bando di 149 mila euro per il miglioramento dei fabbricati d’alpeggio (sostenuto per il 90% a fondo perduto dalla Regione) , il piccolo Comune montano è riuscito a ridar vita e importanza al vallone di Giàs Vecchio (comunemente noto in occitano come Gì Vièc), ristrutturando completamente la baita. Un intervento (pista e ristrutturazione del fabbricato) che va valutato alla luce dell’estensione e della qualità dei pascoli, nonché dalla loro eccentricità e distanza rispetto alla parte abitata del comune che rimarca il valore del collegamento realizzato. La recente ristrutturazione ha rimesso a nuovo l’edificio rurale a partire dal rifacimento del tetto, coibentando l’opera per il risparmio energetico, adattandola con pannelli fotovoltaici, ripristinando l’acqua corrente, sia per uso civico che per l’abbeveramento del bestiame. Sono stati anche rimessi a nuovo i locali per una futura possibile lavorazione lattiero-casearia in loco. I lavori sono stati eseguiti dalla ditta Ivan Costruzioni snc di Villar San Costanzo. «Un’ opera vigorosa, viste le numerose difficoltà economiche e burocratiche dei piccoli comuni montani — spiega Fortunato Bonelli, amministratore e saldo locomotore del progetto —.  L’intento è dare un servizio maggiore alle aziende agricole del luogo, ai “nostri” montanari, presidio autentico del territorio. Sarebbe stato un peccato lasciar andare in rovina un’Alpe così». 

Per 35 anni, fino al 2000, la baita, di proprietà comunale, era stata mantenuta in buone condizioni grazie al lavoro e all’impegno del margaro Biagio “Biasin” Ellena. Contemporaneamente nel 2019 sono giunti al termine i lavori di accesso alla baita tramite la costruzione di una strada agro-silvo-boschiva, che ha comportato complessivamente un investimento di 52 mila euro, 15 mila per la realizzazione, e 37 mila di spese tecniche. L’intervento è stato sostenuto in parte con contributi ministeriali ed in parte dal Comune con fondi propri: il materiale é stato trasportato in loco in un primo tempo con l’elicottero, quando ancora non c’era la strada e quando la strada é arrivata con mezzi gommati, generando un’economia di 15 mila euro rispetto all’ipotesi iniziale. E i fondi risparmiati sono stati investiti nella ristrutturazione dell’annessa piccola stalla e tettoia, lavori non contemplati nel progetto iniziale. L’accessibilità é stata garantita con mezzi comunali e dell’Unione montana, in tre lotti, affidati ai cantonieri Marco Pasero ed Ettore Isaia. Prazzo é attualmente la realtà agricola più forte della vallata: sul suo territorio sono presenti 15 aziende stanziali con un carico di 500 bovini permanenti, 5 aziende transumanti per una monticazione di altri 1000 animali e 6 aziende esterne. Tra le aziende stanziali (5 delle quali hanno aderito) è stata costituita un’associazione temporale di scopo (ATS), una cooperativa semplificata per l’utilizzo comune dell’Alpe di Giàs Vecchio ad uso essenzialmente civico. Si é trattato di un doveroso investimento per venire incontro alle esigenze di quei montanari che presidiano, con dedizione, il paesaggio. L’iniziativa é nata anche per contrastare la speculazione degli alpeggi che negli ultimi anni ha visto l’arrivo in valle di aziende della pianura, interessate ad accedere ai contributi Pac, che hanno comportato rincari d’asta assolutamente non accessibili alle piccole realtà agricole di montagna.«L’associazione e l’utilizzo dei beni comuni, con l’affitto reinvestito sul territorio, è nata dalla collaborazione tra noi aziende che viviamo in montagna tutto l’anno. — racconta Michele Balma, 36 anni, presidente dell’associazione – Ora i nostri animali sono in Gì Vièc tutti insieme, ci alterniamo per accudirli organizzando meglio i lavori della campagna, soprattutto quando in estate tutti siamo impegnati con la fienagione». Come sarà usata la baita? «La baita potrà essere utilizzata per il ricovero in caso di maltempo o per la permanenza stanziale, tenuto conto anche del problema lupo, pensiero fisso che condiziona il futuro delle piccole aziende di montagna». La realtà di Prazzo è un’esperienza innovativa che merita di essere conosciuta. Rappresenta una montagna viva, fatta di tradizioni e di gente che ci crede. Gente che conosce la montagna perché la vive tutto l’anno. Una montagna autentica, di chi lavora quassù da generazioni. Ed un esempio di come, trovando nuove forme di collaborazione, si possa tentare di dare un futuro possibile a queste terre meravigliose. 



TESTIMONIANZA DI BIASIN, BIAGIO ELLENA, CLASSE 1935, MARGARO STORICO «La baita di Gì Vièc era stata costruita nel 1960 – racconta Biagio Ellena, noto come Biasin, storico margaro classe 1935. – Allora era forse la più imponente baita d’alpeggio costruita in alta valle Maira. Sia per la grandezza, che per l’inaccessibilità. All’epoca era distante 3 ore di cammino dalla carreggiata che si fermava in paese e tutto il materiale per erigerla venne trasportato a dorso di mulo, per un dislivello anche di 1.200 metri!». «Io sono nato a Elva ma a tre anni la mia famiglia si é trasferita a san Michele dove mio papà intraprese l’attività di margaro, attività che io continuai andando per 35 estati consecutive all’Alpe Gias Vecchio: conosco ogni pietra, quanti passi ho fatto a piedi lassù…  – prosegue Biasin – D’inverno scendevamo in pianura e giravamo le cascine del saluzzese, Racconigi, Cervignasco, Scarnafigi, e qui ho preso la cascina stanziale. Lassù era un alpeggio grande ma molto scomodo, dava lavoro ad una bella azienda, con la possibilità di crescere anche una famiglia. Ma era un alpeggio molto scomodo, non c’era la strada, non c’era la luce, erano altri tempi, tutto il materiale veniva trasportato a dorso di mulo. La legna, la poca che c’era, si andava a recuperare rami secchi e arbusti (così facendo Biasin ha contribuito a tenere pulita la zona, ndr), serviva a far scaldare il latte per fare i formaggi. Anche perché allora la rendita del margaro era mungere: si mungeva mattina, sera, si partiva anche di notte per andare a mungere. Era l’unica rendita, non c’erano contributi. L’alpeggio era senza telefono, si lavava tutto al fiume, l’acqua era gelata». Se Biasin dovesse raccontare tutti i dettagli di quella vita non basterebbe una collana di libri. «I primi anni che scendeva in pianura non c’erano ancora i camion, anche di macchine ce n’era poche. Quando si scendeva da san Michele si faceva tutta la valle a piedi passando da Dronero, sul ponte del diavolo, per arrivare in cascina a Pratavecchia».Ora anche l’attività di margaro é cambiata. Ci sono i servizi, con la macchina si arriva davanti alla casa… «Una volta non c’era il filo elettrico, si stava tutto il giorno al pascolo ed era anche un impegno». Al fianco di Biasin ha sempre collaborato la moglie Maria, di un anno più giovane, originaria di borgata Raina, sempre di San Michele. Oltre a dare una mano al marito come margara ha anche cresciuto 5 figlie lassù nella baita. Figlie che sono diventate grandi, hanno la loro famiglia: Biasin e Maria sono diventati nonni di 13 nipoti ed anche bisnonni. Quest’autunno hanno festeggiato 62 anni di matrimonio .Nel racconto di Biasin accanto alle soddisfazioni ci sono anche tante rinunce perché, dice, «con le mucche sei impegnato mattina e sera, soprattutto a quell’epoca. Mi sarebbe piaciuto anche fare altre cose: quando c’erano le forze, mancava il tempo, ora che c’é il tempo le forze non sono più quelle di una volta». Quando era giovane suonava la fisarmonica alle leve e non erano molti a suonare, avere una fisarmonica era sempre un momento di festa. Biasin Ellena scolpisce il legno molto bene, ha sempre avuto la passione artistica per la scultura su legno, le gambise, le canaule, i collari per le mucche. Negli ultimi vent’anni non è più andato in alpeggio a Gias vecchio ma ad Alpe Coronata, più facilmente raggiungibile, vista anche l’età. Lassù, dopo 35 anni, il margaro ha anche realizzato un’edicola incastonata nella roccia per ringraziare la Madonnina: «In 35 anni tra fatiche, sacrifici e difficoltà, ma anche soddisfazioni… è sempre andato tutto bene, ho voluto rendere omaggio alla Madonna che ha protetto la mia famiglia su queste montagne». La soddisfazione più grande? «Diventare anziani tra le nostre montagne; siamo rimasti qui, non siamo andati in una fabbrica di città come hanno fatto tanti in quel periodo, andavano alla Michelin, a Torino, alla Fiat. Siamo sempre rimasti lassù ed abbiamo visto com’è cambiata la montagna». Alcuni dei loro nipoti continuano a fare i margari, altri hanno radicato lo stile di vita in montagna, altri hanno preso strade diverse. La loro vita é lassù. Biasin alleva ancor oggi le mucche, a 85 anni…… perché se gli togli le mucche gli togli la vita.

Contenere il lupo si può (le norme vigenti)

Tra le tattiche del partito del lupo, vi è anche la bufala dell’intoccabilità della loro “gallina dalle uova d’oro”. Sono stati abili (e disonesti) a celare i dati reali sulla consistenza della specie, a fare in modo che gli allevatori si scoraggiassero e non denunciassero più le predazioni. Sono stati abili a convincere le regioni…

Loup e vourp (lupi e volpi) (il colpo alla nuca alla montagna)

Anna Arneodo gestisce con i figli una piccola azienda agricola con coltivazioni e pecore, unici abitanti  di una piccola borgata a 1200 m.  Nel febbraio 2017 scriveva su Ruralpini un duro j’accuse (“Ci uccidete senza sporcarvi le mani” qui) rivolto all’ipocrisia della società urbana che ha innalzato il lupo a bandiera della natura. Parole che hanno…

Emergenza lupo: finalmente decolla un’iniziativa politica

In pochi giorni si sono registrati diverse iniziative politiche contro la politica lupista che mette in ginocchio gli allevamenti estensivi, la montagna le aree interne. Dopo la lettera durissima contro una politica regionale appiattita su WolfAlps, redatta da comuni e unioni dei comuni della provincia di Torino e della val Maira (qui) è arrivata la…

Si allarga alla Valsesia il movimento NO LUPI

“O noi o i lupi”. WolfAlps  –  sempre più autority del lupo istituzionalizzata – e la Regione Piemonte sono stati contestati anche in Valsesia (dopo la protesta in Ossola). Nessuna fiducia nell’opportunismo della politica e delle istituzioni. Va intensificata la protesta per rompere la cappa di piombo di censura e menzogna



di Michele Corti

Oggi 29.07.2010, a Varallo Sesia, si è ripetuta la protesta contro le liturgie lupiste delle istituzioni. Chi si confronta quotidianamente con il problema non si lascia imbrogliare dalle “soluzioni” (i pannicelli caldi) invocati dall’Uncem – che si sveglia solo oggi dopo tanti anni che in Piemonte il problema è drammatico – e dalla serafica Regione Piemonte (appiattita su WolfAlps). La montagna non ci sta a fare la rana bollita e reagisce, prima di perdere del tutto le sue forze sociali. Il lupismo, da punta di diamante, diventa forse così un boomerang per la politica e i poteri forti del capitalismo finanziario (che dettano la linea anche ai media). Chi pensava a una montagna e a un mondo rurale ormai esausti, rassegnati, domi,  si trova a fronteggiare una inattesa attivazione contestativa da ambiti sociali e territoriali snobbati e sottovalutati. Mentre a livello di culture urbane prevale il conformismo, la passività, l’anestetizzazione.


(29.07.20) La notizia del giorno è la nuova contestazione nei confronti degli incontri di “informazione e confronto” messi in atto dalla Regione Piemonte con WolfAlps. Intanto ci si chiede perché, se si tratta di confronto, WolfAlps non rappresenti solo una delle parti in causa, alla pari di associazioni di allevatori, organizzazioni agricole, comuni di montagna. La scelta di lasciar gestire la partita lupo a WolfAlps da parte della giunta di centrodestra la dice lunga. All’incontro di  Varallo c’era il vice-presidente della regione, Carosso (foto sotto), e il solito  parterre degli espertoni e “scienziati” della lupologia che si fa lupocrazia.



 Come a Villadossola, nel contesto blindato dell’emergenza infinita, chi contesta alla base le narrazioni sulla “convivenza”, sulle misure che dovrebbero attutire il conflitto, chi vuole testimoniare le situazioni impossibili determinate dalla presenza dei lupi, che non si fanno tema di predare sotto le case, è costretto al “parlare” con i cartelli di protesta, con i campanacci. Una protesta nel solco di quella tradizione rurale che vedeva l’organizzazione di sonore manifestazioni di dissenso organizzate da giovani con campanacci (chiarivari). Era una sorta di “polizia dei costumi” che sanzionava comportamenti che potevano compromettere la riproduzione sociale della comunità (adulteri ecc.). In tempi recenti questa tradizione si è  riproposta nelle “proteste delle pentole” che hanno assunto carattere politico di contestazione di regimi oppressivi (da Pinochet a Maduro). Quando il dissenso è fatto tacere si protesta così.  Voi sonerete le vostre trombe noi suoneremo i nostri … campanacci.


Caracas: manifestazione popolare contro il dittatore Maduro

Come in Ossola, anche in Valsesia le istituzioni del territorio, quelle più vicine alla gente del posto, sono apparse al fianco degli allevatori. Erano presenti infatti i sindaci di Alagna e di Carcoforo e l’assessore all’agricoltira dell’Unione montana dei comuni valsesiani.  Continuando così le cose i sindaci (ma anche i parroci, le associazioni) dovrebbero farsi promotori di proteste di massa.  Per far capire a Torino che qui ci sono comunità intere, piccole, ma decise a farsi sentire. Comunità non ancora liquefatte.

Siamo ancora alle veline del ventennio fascista (in realtà è un nuovo totalitarismo che avanza)

“Se mandiamo dei comunicati a certi organi di informazione locali non lo pubblicano finché non arriva una replica lupista”, ci diceva qualche settimana fa Gesine Otten del Comitato difesa allevatori Ossola). E’ perciò importante diffondere queste notizie con i canali dei samizdad del XXI secolo, con i blog, con facebook (censure permettendo). Tanti piccoli canali, tanti piccoli gruppi alla fine riescono, con pazienza, a fare controinformazione (un po’ come i dissidenti russi che trascrivevano a mano i loro “post” si fogli di carta).
Se si legge cosa riportano i media di questi “incontri” ufficiali sul lupo ne esce un quadro idilliaco o, al massimo, di una conflittualità facilmente rientrabile. La realtà sanguinosa, feroce, vissuta ogni giorno in certe valli, lo strazio continuo di animali domestici, la paura per l’avvicinamento dei predatori agli abitati, gli ululati, la rabbia per non essere capiti, sono espurgati dalla narrazione lupistica politically correct.



Il regime della censura e del pensiero unico lupista

Non si ritenga esagerato il riferimento (i samizdad, i dissidenti)  con l’Unione Sovietica. Oggi viviamo in una dittatura soft, capace però, non solo di oscurare la verità ma di capovolgerla. Molto efficacemente. Non si ritenga esagerato neppure fare il confronto con quanto avveniva nel ventennio fascista. Le “brutte notizie” semplicemente scomparivano, tutto era edulcorato, tutto andava bene, non c’erano conflitti. La stampa andava persino oltre in zelo adulatorio, autocensorio, apologetico, rispetto alle stesse direttive del PNF. Anche durante il ventennio c’erano proteste.  Ma i media tacevano e, se proprio dovevano parlarne (perché ne erano a conoscenza in molti), le attribuivano a circostanze assolutamente locali se non a beghe personali (anche quando si protestava per ragioni economiche di carattere generale e con qualche sfumatura politica). A leggere certi articoli in tema lupo della Busiarda (ma anche di alcuni siti di informazione locale) pare di vivere ancora nel ventennio. C’è una tesi: “la convivenza” che nasconde con la solita ipocrisia la realtà della insostenibilità del lupo in certe valli e quindi la certezza di effetti di abbandono delle attività tradizionali.  Nessuno dice: “Vogliamo cacciare i montanari, le attività tradizionali”. Ma l’obiettivo è quello.  Sulla capacità di censura e di ribaltamento della verità del sistema dovremmo, però, aver avuto già abbastanza lezioni, eppure… Ci siamo dimenticati le guerre in Irak, nei Balcani?



Le guerre pacifiste “per esportare la democrazia e i diritti umani” a colpi di bombardamenti di obiettivi  civili (anche da parte di aerei militari d’attacco di un paese, il nostro, che nella sua costituzione “ripudia la guerra”). La ripudia con le bombe dei cacciabombardieri e a colpi di proiettili a uranio impoverito?  Ci siamo dimenticati le guerre “giuste”, “legittimate” dalle menzogne – rilanciate dai TG e giornaloni italiani – delle inesistenti armi chimiche di distruzione di massa di Saddam?



La favola della “convivenza”, del lupo buono, che porta pace e amore e biodiversità per tutti non è affatto diversa. Le azioni militari  mettono in riga chi non si adegua alla globalizzazione, al monoteismo del mercato, alla open society dove i prodotti finanziari tossici e ogni altra merce, uomo compreso, devono poter circolare liberamente su un pianeta ridotto a piano liscio, senza corrugamenti, senza confini, senza diversità fastidiose.  Il potere sul cibo delle multinazionali deve poter crescere e i contadini inefficienti devono togliersi di mezzo, come gli artigiani e tutti i piccoli residui di un passato pre-tecnologico. Le risorse naturali devono concentrarsi (ne va dell’efficienza e della sostenibilità, dicono loro) sempre più in poche mani ed essere gestite attraverso derivati finanziari. I popoli tribali, i popoli indigeni, le comunità rurali tradizionali devono levarsi dai piedi e consentire la “libera” (per il neoliberalismo, ovviamente) valorizzazione delle risorse da sottrarre alle forze del localismo, dell’ignoranza, del tradizionalismo, della scarsa sensibilità ambientalista.
Così come si esporta la “democrazia” a colpi di bombe e di missili sganciate e lanciati da aerei e da droni, così si deve (sono sempre tutti imperativi categorico del sistema neoliberale) esportare il conservazionismo e il reintroduzionismo. Il conservazionismo euroamericano (più americano che euro, in realtà) esporta le ideologie della wilderness e dei parchi, perfettamente speculari a quelle tarocche della liberaldemocrazia.

Il lupo produce la biodiversità come le bombe la democrazia

Con la scusa di elefanti e tigri e con la violenza aperta (deportazioni, torture, omicidi) il sistema neoliberale rappresentato dalle ong ambientaliste (vere multinazionali) esporta il “conservazionismo” in Africa, Asia, America Latina. Con la scusa del lupo lo esporta nelle “aree periferiche” europee da “rinaturalizzare”, operando una pulizia etnica strisciante, e poi da sfruttare come riserve d’acqua pulita e altre risorse. La logica neocolonialista è identica. Il fine è sempre lo stesso. In Europa è perseguito a colpi di aggiramenti della democrazia, di colpi di mano tecnocratici, di una governance opaca. I lupi sono uno degli strumenti tecnici (ben poco pacifici, anzi sanguinari). Il tutto reso possibile dall’ignavia della politica di cui sopra, dalla cooptazione dei chierici conformisti e non disinteressati (intellettuali, burocrati).  Le montagne rappresentano un “corrugamento” che ostacola la creazione di quel piano liscio dove far scorrere le merci, da dove estrarre risorse, senza attriti. L’attrito è rappresentato da comunità locali, sia pure indebolite dai processi di burocratizzazione/perdita di autonomia/proliferazione regolativa e dalla contrazione demografica (genocidio silenzioso ma voluto).
La montagna che suscita indipendenza e autonomia, come condizione necessaria dell’esser-ci, dell’essere in questo posto, è un “corrugamento” spiacevole. Lo sapevano anche i poteri imperiali del passato, consapevoli che il montanaro o si sottomette con la forza o lo si elimina fisicamente o gli si concede spazi di indipendenza (a pochi montanari è facile bloccare punti critici nelle valli e tendere imboscate agli eserciti). Il feudalesimo ha avuto poca presa nelle Alpi e, in epoca comunale, le popolazioni alpine avevano acquisito un forte controllo sulle proprie risorse .  Mentre le comunità rurali di pianura sono state espropriate delle terre comuni (pascoli e boschi) già nel basso medioevo, le comunità di montagna hanno avuto il loro momento d’oro nel Cinquecento secolo e hanno tenacemente contrastato poi i tentativi di controllo e di esproprio durati secoli. Nell’Ottocento, quando lo stato si era rafforzato enormemente rispetto all’ancient regime, era già utilizzato il pretesto ambientalista. Si diceva che le montagne erano state disboscate per colpa dei montanari (non era vero) e che gli andava tolta l’autonomia. Non importava se era stato il fabbisogno di legna e carbone di legna (ancora nel Settecento l’unica fonte energetica insieme all’acqua e al vento e alla forza animale) delle proto-industrie e delle città a impoverire i boschi. Grazie all’ideologia forestalista dominante (che incolpava le comunità del disboscamento) le amministrazioni forestali centralizzate e le polizie forestali decidevano se il montanaro poteva tagliare una pianta per rifarsi il tetto. Ieri bisognava proteggere il bosco, sulla base di presupposti falsi, oggi bisogna reintrodurre il lupo. Pretesti legittimati dalla potenza di fuoco degli apparati ideologici del sistema.Paga il più debole. Vince la menzogna.



In questi giorni i mandarini dell’Uncem Piemonte hanno diffuso presso gli enti locali un ordine del giorno tartufesco fatto delle solite parole:  “la situazione è insostenibile”, “serve pensare a un piano di contenimento”. Parole ipocrite perché poi Bussone, interpellato dalla Busiarda, mostrando il coraggio del coniglio, si affrettava tosto a confermare il solito cerchiobottismo: “Valutiamo senza pregiudizi e senza parlare di abbattimento”. Come si vogliano contenere i lupi senza un controllo numerico, senza il prelievo, senza gli abbattimenti, è però un mistero. Si pensa forse di distribuire condom, spirali, pillole anticoncezionali? Gli ignavi (gli opportunisti, quelli che non si schierano) rappresentano una  categoria sovrarappresentata presso i nostri politici. Agli ignavi Dante – uomo che considerava la morale del suo tempo (di impetuosa crescita economica e di sviluppo della finanza e della crematistica) già molto “liquida” – riservava, tra i peccatori, i giudizi e le punizioni più dure agli ignavi, collocati nel terzo girone infernale.



Gli ignavi corrono dietro a una banderuola che gira vorticosamente (evidente contrappasso per chi nella vita “fa la banderuola” e va dove spira il vento della convenienza e del potere). Sono punti ferocemente da vespe e calabroni e dei vermi schifosi si nutrono del sangue che cola.   Le attuali prese di posizione dell’Uncem rappresentano solo parole. Non serve a nulla, è aria fritta, auspicare genericamente un “contenimento”, bisogna colpire i presupposti dell’inganno lupista. Se i numeri continuano ad essere quelli falsi di Costa, se si continua a ritenere che la stima “cautelativa” dei lupi italiani, (sulla base del quale il piano lupo Boitani-Galletti ammetteva una percentuale del 5% di prelievo massimo teorico) rimane quella di  1500 lupi (verosimilmente un quarto del numero attuale di esemplari, nel frattempo raggiunto in forza di una crescita che si registra in molte regioni), non ci sarà mai nessun contenimento. Osserviamo che in Francia si applica attualmente un prelievo effettivo di oltre il 20% (rispetto al dato verosimile di popolazione non a uno miniaturizzato) e i lupi aumentano lo stesso.
Bisogna realizzare censimenti eseguiti da chi li sa fare, non affidati a WolfAlps che è la parte pro lupo essendo, in origine, un progetto per la diffusione del lupo sulle Alpi.  Un “censimento”  fatto sulle direttive WolfAlps con la manovalanza del Cai (senza competenze specifiche) è una burla. Bisogna poi cambiare radicalmente le regole delle denunce di predazione e di liquidazione dei danni che spingono gli allevatori a tacere, lamentarsi, imprecare e… a non segnalare le perdite. I costi, la trafila burocratica, le clausole inserite per evitare di riconoscere i danni provocati dal lupo, sono tali da dissuadere anche i più decisi (specie se si tratta di uno stillicidio di pochi capi ovicaprini alla volta). L’ Italia, dove la mancanza di senso dello stato è diffusa prima di tutto nelle istituzioni, nei politici, nella burocrazia e nella paraburocrazia e dove il cittadino è sempre rimasto un suddito (mentre si blaterava di democrazia “avanzata”), è l’unico paese europeo con significativa presenza di popolazioni lupine dove non c’è alcun dato attentibile circa i danni reali provocati dalla specie in questione e circa la sua  consistenza. Una situazione dolosa perché ha consentito di continuare a incassare in modo surrettizio finanziamenti per progetti a volte ripetitivi, a volte pretestuosi, con il canale privilegiato della specie “a rischio di estinzione”, della specie “prioritaria”. Finanziamenti investiti in larga misura per campagne di disinformazione e indottrinamento ideologico dell’opinione pubblica (oltre che favendo fluire denaro ad associazioni, enti, singoli esperti).

Bastano i cani e le reti, poi l’agnello e il lupo convivono


 
Ora l’Uncem, resasi conto della crescente esasperazione in tutte le provincie piemontesi, finge di attivarsi sul tema lupo ma, sino ad oggi, era schierata dall’altra parte della barricata. Era allineata e coperta con il politically correct che impone lo slogan ipocrita e beffardo (nei confronti degli allevatori e della gente di montagna e delle aree rurali) della “pacifica convivenza”. L’Uncem ha avallato per anni le menzogne della propaganda lupista: “Bastano i cani e le reti per risolvere il problema, chi ha ancora predazioni è un incapace”.

  Ecco cosa ha detto per anni l’Uncem: i cani sono una buona soluzione. Un po’ di autocritica no? La convivenza delle pecore con l’agnello? Ma quella è solo una metafora escatologica biblica. C’è da vergognarsi a scrivere certe cose.

La politica della banderuola (che va dove gira il vento)

Per par condicio dobbiamo anche dire qualcosa sulla Lega. Oggi, a commento delle prese di posizione dell’Uncem, la Lega in regione, ha rilanciato il tema del “contenimento del lupo”. Ma le regioni hanno il diritto-dovere, confermato da sentenze della Consulta di attivare la procedura  di controllo. Il piano lupo è scaduto nel 2015. Ma vale sempre quanto previsto dalla Direttiva Habitat: in caso di danni economici gravi e di pericolo per la sicurezza pubblica ecc. scatta la deroga e, previa autorizzazione Ispra, le regioni possono attuare gli abbattimenti. Il piano inquadrava a livello nazionale la situazione ma, considerata la gravità della situazione in alcune regioni essa potrebbe essere affrontata già da subito. Vi sono tutti gli strumenti legali.
In passato, quando il Ministero ha risposto niet alle richieste di abbattimenti di Piemonte e Toscana, non aveva detto: “non potete chiedere l’autorizzazione”. Se l’avesse fatto sarebbe stato allora facile il ricorso. Ha dovuto, invece, accampare “motivazioni” farlocche che potevano essere comunque anch’esse contestate. Di fatto il gioco sporco consisteva nel dire: “Non possiamo abbattere alcun lupo in Piemonte perché non sappamo quanti lupi ci sono in Italia e c’è una opinione pubblica che teme per una specie in via di estinzione”. Le regioni usano il tema della mancata approvazione (per colpa loro che hanno fatto le voltagabbana!) del Piano lupo perché, per palese vigliaccheria, non osano fare il necessario passo della richiesta dell’attivazione del controllo. Hanno paura per le conseguenze delle reazioni isteriche animaliste. Vogliono parararsi le terga con il “Piano nazionale”. Comunque debbono sempre autorizzare l’ISPRA e il Ministero dell’ambiente ma il solo fatto che siano loro ad attivare la procedura e ad esporsi le fa recedere. Chiamasi opportunismo. Codardia.
L’ex ministro Galletti  (centrosinistra) aveva fatto scrivere il piano a Boitani (lupologo maximo) che, molto astutamente, contemplava – ma solo in teoria  gli abbattimenti (quil’analisi del piano). Si sarebbe dato un contentino alle organizzazioni professionali agricole che avrebbero potuto dire: “Ecco vi abbiamo tutelati”. Sarebbe stato solo sulla carta, ma a loro bastava così.
Oggi il Piano verrebbe ancora steso con lo stesso criterio. Appellarsi al Piano è menare il can per l’aia, far credere agli allevatori, alle popolazioni che il Piano possa risolvere i problemi. No. I problemi si affrontano a monte, con monitoraggi seri del lupo e dei danni da lupo perché solo su questa base possono essere avanzate richieste precise e motivate di autorizzazione dei prelievi. Se il ministro resiste e, senza il supporto di motivazioni tecniche, rigetta le richieste delle regioni, si va alla Corte Costituzionale e alla Corte europea.E Roma deve cedere.   Va aggiunto che qualora, in Italia, emergesse che le cifre della consistenza del lupo sono state per decenni tenute artificialmente basse, qualora emergesse la vera consistenza in Italia della specie e la vera consistenza dei danni, il fronte in Europa a favore della revisione dello status di super protezione del lupo (Convenzione di berna e Direttiva Habitat) avrebbe un argomento fortissimo dalla propria parte in un contesto europeo in movimento (in Germania e Olanda stanno rafforzandosi le posizioni “revisioniste”).
Gli animal-ambientalisti, imprenditori politici astuti e disinvolti dell’emotività e dell’ignoranza naturalistica, hanno già stoppato Boitani e Galletti (quiper le vicende tragicomiche del piano lupo, proprie di un paese in situazione drammatica ma non seria). E stopperebbero anche oggi un piano che contempla, sia pure in teoria, l’abbattimento legale dei lupi. Sul feticcio del lupo intoccabile hanno costruito campagne che hanno fruttato tessere e finanziamenti. La Regione Piemonte, presidente Chiamparino (centrosinistra) guidava il fronte delle regioni che, dopo aver approvato il piano Galletti-Boitani,  si rimangiavano la parola in modo imbarazzante sotto la pressione delle rumorose minoranze animaliste.  Ridere o piangere?  E pensare che il primo a chiedere l’abbattimento dei lupi era stato l’assessore piemontese all’agricoltura del PD, Taricco.  Il quale poi si era velocemente riorientato alla “convivenza”.
Nel 2010  la Lega, con Sacchetto, contestando la giravolta di Taricco, fece campagna contro la politica del centrosinistra, che aveva finanziato il “Progetto Lupo” (briciole rispetto a WolfAlps, 334 mila €).

Il neo assessore Sacchetto (Lega), vinte le elezioni,  non solo non fece ripartire il Progetto lupo ma attivò un Progetto pastore. Ma verso la fine della legislatura Sacchetto e l’assessore ai parchi e alla montagna di AN (Casoni) approvarono il primo progetto WolfAlps, un vero terno al lotto vinto per la lupisteria organizzata, firmato e presentato dal presidente del Parco Alpi Marittime (un falegname di Entraque messo lì dalla Lega). A Entraque, dove ha sede il Centro uomini e lupi (recinto con lupi, museo) anche il sindaco è stato acquisito alla causa del lupo che in paese porta un po’ di turismo. Insomma per qualche piatto di lenticchie,  per non scontrarsi con la burocrazia e qualche lobby,  il centrodestra fece il più grande regalo al partito del lupo in Italia.  Con WolfAlps ha hanno avuto impulso il Centro uomini e lupi e il Centro grandi carnivori (il lupo non ci basta!) di Entraque divenuto quartier generale di WolfAlps e autority che in Piemonte tende a gestire il lupo per delega istituzionale de facto (esautorando i competenti assessorati). Nel frattempo Taricco, che era andato a Roma (alla camera dei deputati), presentava interrogazioni sul problema lupo per chiedere interventi a favore degli allevatori e per sapere quanti lupi ci siano realmente in Italia. Ovviamente senza ottenere risposte.  Il suo collega di partito, Chiamparino, come già visto, scavalcando i suoi assessori, da presidente della regione si metteva  alla testa del partito pro lupo. Ora, dopo tutte queste giravolte chi può credere alla politica?  

Per un esponente della cultura urbanocentrica più arrogante e della sinistra bancaria come Chiamparino, evidentemente, i pastori, la  montagna, gli animali d’allevamento NON SONO in patrimonio del paese e NON VANNO tutelati

Chi protesta sa che otterrà qualcosa dalle banderuole della politica solo costringendo  i media a parlare del problema anche dalla parte degli allevatori, della montagna del territorio rurale. Sa che i politici si smuoveranno sul serio e non solo a parole solo facendo arrivare le proprie ragioni a un pubblico poco informato, sollecitato emozionalmente a senso unico dalle macchine propagandistiche di WolfAlps e delle istituzioni (dove la burocrazia, il deep state, è in toto lupista). Con l’obiettivo dello spostamento dell’opinione pubbica generale (dove pesa la componente urbana) da posizioni sia pure superficialmente lupiste a posizioni più aperte rispetto alle esigenze di tutela degli allevatori e della montagna. Un riequilibrio di questo tipo toglierebbe molta dell’acqua in cui nuotano gli animalisti e, di conseguenza, spunterebbe di molto la loro capacità di influenzare la regione.  In ogni caso, i voti degli allevatori della montagna, dei territori rurali, che pure sono pochi, in condizioni, come il Piemonte, dove c’è da decenni un equilibrio tra gli schieramenti, potrebbero avere anch’essi un loro peso influenzando gli assetti politici locali ma non solo.

Cosa penso della montagna (a 16 anni)


Ruralpini ha di recente raccolto le riflessioni di alcuni giovani in materia di montagna, del suo (e del loro) futuro. Anche un ragazzo di 16 anni, che frequenta un istituto tecnico agrario in provincia di Cuneo, Davide Garnero, ha voluto consegnarci il suo pensiero. Lo ha esposto originariamente attraverso un tema scolastico e la sua insegnante l’ha incoraggiato a pubblicarlo. Non ci illudiamo che le parole di Davide arrivino ai potenti (che hanno ben altri interessi e fingono di ascoltare certi “oracoli” adolescenziali per loro convenienza). Speriamo, però, che scuotano i tanti che hanno a cuore la montagna ma si sono lasciati vincere dalla rassegnazione e nello scetticismo.  Oggi circolano valori che sembravano fuori corso. Valori che hanno la forza di spingere un ragazzo a sognare un futuro in una borgata di montagna. Ai grandi il compito di assecondarli, ognuno per quello che può.

 

di Davide Garnero

(16.07.20) Ogni epoca ha avuto i suoi pro e i suoi contro: fino ad inizio ‘900 spesso si viveva in povertà, non c’erano comodità, la vita era durissima e le cure sanitarie insufficienti, insomma, non c’erano grandi prospettive per i giovani. Nei decenni successivi ci sono state le due guerre mondiali che hanno tolto la vita a tantissime persone innocenti spesso sotto ai vent’anni. Successivamente il Boom economico ha portato lavoro e benessere in alcune zone d’Italia, mentre in altre ha creato solo spopolamento (come nei paesi di montagna e al Sud) e disuguaglianze sociali presenti ancora oggi. 

Ai giorni nostri ci sono lussi e comodità impensabili fino a pochi decenni fa: si ha più tempo libero, la tecnologia e i macchinari rendono il lavoro e la vita quotidiana meno faticosi, ci tengono in contatto fra di noi nei periodi di lontananza, ecc. Nonostante questo, i lati negativi non mancano, alcuni sono presenti da secoli, come guerre fra alcuni Paesi, disuguaglianze sociali, epidemie, …, altri sono emersi da poco, come la distruzione dell’ambiente naturale e il nostro allontanamento da esso (da cui però dipendiamo), il degrado della società (l’individualismo, le comunità non esistono quasi più, la tecnologia ha ridotto le relazioni dirette con gli altri e la capacità di cavarsela solo con la propria manualità ed intelligenza, ecc.). Inoltre, per riuscire a guadagnarsi da vivere è necessario ormai adeguarsi ad un mondo frenetico, caotico, governato spesso da leggi assurde e ingiuste; per “tirare avanti” bisogna far concorrenza ai più forti (come le multinazionali), ed è anche per questo che molte piccole attività del territorio falliscono. Penso che tanti giovani siano attratti da questo mondo sempre più globalizzato, dove tutto è veloce, in cui molti vedono (o più che altro sognano) possibilità di guadagno enorme con scarsa fatica, mentre altri (tra cui anch’io) al contrario possono avere varie incertezze per il proprio futuro. Molti di noi (sia giovani che adulti) non se ne preoccupano minimamente perché pensano che le risorse della Terra siano infinite, ma io credo che tanti si chiedano: come vivremo nel mondo quando saremo più di dieci miliardi di esseri umani? Dovremo rinunciare a molte nostre abitudini? Quali saranno le conseguenze di un numero sempre maggiore di immigrati nel nostro paese (ovvero migliaia di persone con una cultura completamente diversa dalla nostra)? Si riuscirà a proteggere ciò che rimarrà dell’ambiente naturale da cui dipendiamo da sempre per sopravvivere? Da dove arriverà il cibo che mangeremo? Scoppierà la terza guerra mondiale?… E di conseguenza… riusciremo a vivere sereni e realizzati? A tutte queste incertezze secondo me si aggiunge il senso di disorientamento del mondo di oggi: molti valori non esistono più, perché non sempre gli adulti riescono a trasmetterceli dato che a volte mancano la capacità, l’interesse o la passione per rapportarsi con noi adolescenti, tanto da perdere la nostra fiducia nei loro confronti. Di conseguenza può succedere di non trovare il coraggio e il tempo di confidarsi con qualcuno, per paura di essere giudicati; ci si affida all’esempio di internet e dei social, che ci mostrano come dovremmo essere, facendoci sentire inadeguati e spingendoci ad uniformarci al branco per venire accettati dagli altri. Inoltre ci si sente ulteriormente confusi dal fatto che veniamo bombardati da notizie non sempre vere, dal fatto che le autorità e gli scienziati, nell’informarci sui fatti che accadono, contraddicono regolarmente quanto detto in precedenza, si fanno battaglia a vicenda, oppure non vanno d’accordo internamente (un partito sostiene una causa mentre il suo “rivale” sostiene il contrario), come stiamo vedendo oggi nelle decisioni da prendere nella lotta al coronavirus e sulle precauzioni da adottare. E così non capiamo più nulla di ciò che sta succedendo…e forse è proprio questo l’obiettivo della politica: controllarci facendo leva sulla nostra ignoranza e sulle nostre paure. Per riuscire ad entrare nel mondo degli adulti occorre superare delle sfide, bisogna essere competenti, adattabili, avere pazienza, la voglia di lavorare ovviamente non deve mancare, bisogna essere onesti per dare il buon esempio, e molte altre qualità che dovremmo acquisire dall’educazione data dalla famiglia, dall’oratorio e dalla scuola.



A sentire i discorsi degli adulti, soprattutto quelli degli anziani, è vero che oggi si vive meglio e ci sono più opportunità, ma al tempo stesso, sotto alcuni aspetti, il mondo è diventato più difficile di un tempo. Spesso per chi vive in paesi piccoli o in campagna il paragone tra le due epoche è questo: una volta, con venti vacche, qualche animale da cortile e una certa quantità di campi coltivabili, pur con grandi fatiche e sacrifici si riusciva a mantenere una famiglia numerosa, nelle borgate ci si conosceva tutti, ci si aiutava a vicenda, il cibo (soprattutto la carne) era più sano perché prodotto in modo naturale, privo di sostanze chimiche o ormoni aggiunti per accelerare la crescita degli animali, le estati non erano siccitose come ai giorni nostri, ecc. Oggi invece è tutto cambiato, ma non bisogna dimenticare che ora ci sono macchinari che alleggeriscono la fatica e che ci sono più opportunità. Insomma, sfide ce ne sono sempre state, ma sono cambiate nel corso del tempo. Penso che molti giovani preferiscano il mondo di oggi, dove per fare fortuna bisogna pensare in grande, mentre altri la pensino come me, che sostengo che sarebbe necessario unire i valori, la semplicità, le tradizioni e il contatto con la natura di una volta con le opportunità e i mezzi di comodità di oggi, rinunciando a quelli superflui del consumismo.

Pur considerando che ognuno di noi è diverso da tutti gli altri, tutti sogniamo che il futuro ci porti libertà di scelta, serenità, soddisfazioni, realizzazione personale, amici con cui trascorrere il tempo libero, amore. Poi, in base al carattere e al proprio modo di pensare, molti possono desiderare di essere come gli idoli dei social, ovvero ricchi e apprezzati da tutti o personaggi d’affari, oppure fare una piccola fortuna con la propria professione. Altri, più semplicemente sognano un lavoro che soddisfi le proprie aspirazioni e una famiglia con la quale vivere serenamente. C’è chi non dà particolare importanza al luogo in cui vorrebbe vivere, come chi vorrebbe un lavoro che necessita di continui viaggi, c’è chi si affida al destino, chi sarà disposto a seguire il posto di lavoro (come fanno ad esempio gli insegnanti), mentre molti altri, per fortuna, si sentono legati alla propria zona d’origine (le classiche “radici”). Sono presenti anche giovani che non amano particolarmente il luogo in cui hanno vissuto l’infanzia o lo stile di vita che è necessario adottare in quel posto, e che quindi sognano di abitare in un’altra zona; chi vorrebbe vivere su un’isola tropicale, in una metropoli o in mezzo alla natura. Penso che tutti siano d’accordo con me se affermo che sia importante impegnarsi per trovare il proprio posto nel mondo (se si ha la possibilità ovviamente), cioè quel luogo in cui ci sentiamo a nostro agio, che capiamo essere adatto alle nostre esigenze e aspettative. Ognuno vuole (o almeno dovrebbe) trovare un senso alla propria vita, qualcosa che gli permetta di avere un motivo in più per alzarsi la mattina e che lo spinga ad impegnarsi e a combattere per raggiungerlo o per prendersene cura. In genere il senso della vita di noi adolescenti penso sia ciò che abbiamo o che possiamo ottenere nel presente, come l’amicizia, il tempo libero, il divertimento, la propria passione, l’amore, la difesa di una giusta causa (come alcuni dei ragazzi che manifestano per la difesa dell’ambiente), oppure la religione, ecc. Ciò che invece può rappresentare il senso della vita di molti adulti, come il successo, i soldi, la realizzazione personale, il creare una famiglia, ecc., può essere solo un sogno per noi giovani. Ma non bisogna dimenticare che spesso alcuni di noi fanno delle proprie aspirazioni future il senso vero e proprio della vita presente, che appena potranno li spingerà a combattere per realizzarle. 


Io, personalmente, mi pongo molte delle domande sui problemi del futuro, sono un po’ preoccupato per le difficoltà di questo mondo sempre più governato dai soldi, dalla concorrenza contro i più forti, dal fatto che non si possa più vivere e lavorare tranquillamente nel proprio piccolo mondo perché bisogna essere tutti connessi, super aggiornati su cosa dobbiamo fare per non andare in un fallimento causato da nuove leggi o dalla concorrenza dato che è necessario pensare in grande per guadagnare con un’azienda propria ed essere uniformati al resto del mondo (come sarà monotono il mondo quando vivremo tutti come gli americani o i cinesi, in un pianeta omogeneo, ormai privo di elementi tipici di ogni singola zona, dall’architettura, alla musica, dalla cucina, alla lingua, senza più dialetti, ecc.). Inoltre penso spesso a come si vivrà in un mondo sempre più popolato, cementificato, inquinato, con un clima sempre più invivibile per noi e per la natura che ci circonda. Non mi sento molto ottimista, ma ho comunque speranze e sogni. Dopo il diploma di tecnico agrario, andrei a lavorare per un’azienda che magari la scuola mi consiglierebbe, non ha molta importanza quale lavoro dovrei svolgere, l’importante sarebbe riuscire a risparmiare nel corso di qualche anno una somma di denaro sufficiente a realizzare il mio sogno, cioè andare a vivere in una borgata sulle montagne della nostra provincia di Cuneo, che noi della pianura troppo spesso consideriamo solo come il nostro parco giochi della domenica. In montagna mi piacerebbe avviare una piccola azienda agricola, coltivando ciò che è possibile far crescere lì, come patate, ortaggi, piccoli frutti, magari la segale (come facevano una volta); tenere puliti i boschi vendendo legna da ardere; tagliare il fieno; allevare qualche animale per utilizzo personale, come conigli e galline, o per passione, come un piccolo numero di pecore o vacche. In pratica vorrei fare ciò che si faceva una volta, pur con le comodità essenziali e le competenze di oggi. Se mi restasse del tempo libero andrei a fare escursioni, a sciare, a ballare le danze occitane alle feste di paese. Inoltre vorrei imparare a suonare l’organetto diatonico (che nelle nostre vallate viene chiamato “Semitoun”). Tutto questo porterebbe molta fatica e non sono sicuro che con un lavoro del genere sarebbe possibile mantenere la famiglia che vorrei creare con la persona giusta, ma sono sicuro che se ci riuscissi ne varrebbe la pena, perché penso che l’importante non sia essere ricchi, ma semplicemente riuscire a “tirare avanti” ed essere realizzati. Vivremmo in un luogo bellissimo, magari un po’ isolati dal “mondo” (che però secondo me è sempre più invivibile e non sono l’unico a pensarlo), ma a contatto con la natura, vedendo lo scorrere delle stagioni, lontani dal caldo torrido estivo e dallo smog invernale ormai tipici della nostra pianura, conducendo una vita scomoda, ma molto più sana che quella in città, pur sapendo che non sarebbe tutto rose e fiori, ma anche difficoltà e preoccupazioni (che tra l’altro sono presenti anche in chi vive in città con ogni comfort), ovviamente non sarebbe una vita adatta tutti, ma penso che lo potrebbe anche essere per me. La montagna avrebbe un grande bisogno di famiglie che la abitassero tutto l’anno, continuando a prendersi cura del territorio. E’ sbagliato pensare che aree svantaggiate come le nostre valli possano vivere solo grazie al turismo, come sostengono i politici. “Le nostre montagne hanno un alto potenziale turistico” è la frase che si legge ogni tanto sui giornali… come può bastare tutto questo?? I comuni della val Maira hanno visto aumentare le proprie nascite grazie ai visitatori italiani e stranieri? Molti terreni sono rimasti incolti, proprio come pochi decenni fa, quando di turisti non se ne vedevano mai. Sono ancora poche le persone disposte a lanciarsi in attività agricole in montagna. Mi fa rabbia scoprire che in alcune zone montane di giorno i cani anti lupo vengano vietati per evitare che causino problemi a noi escursionisti. Il turismo è giusto che ci sia, ma dovrebbe adeguarsi alla pastorizia, all’agricoltura e alla manutenzione dei boschi (cioè i lavori che si svolgono da sempre sulle Alpi), non viceversa.

Io la montagna l’ho sempre frequentata come turista, ma l’ho sempre vista come possibile casa e luogo di lavoro, anche perché credo che la vita sui monti trasmetta molti valori, tra i quali la pazienza, il rispetto per una natura molto più forte di noi dalla quale dipendiamo, di conseguenza l’umiltà, il senso di sacrificio, la prudenza, la fatica per raggiungere un obiettivo, il senso di aiutarsi reciprocamente con chi ci sta vicino, ecc. 

Cercherò di lottare per realizzare il mio sogno e auguro a tutti di riuscirci con il proprio, perché noi giovani abbiamo ancora coraggio, speranza, determinazione e forse maggiori opportunità rispetto ai nostri antenati, e per questo dobbiamo tornare a prenderci cura della terra e delle tradizioni, perché non si può più andare avanti così come stiamo facendo ora. 

In Ossola tanti NO alla convivenza con i lupi

Gli allevatori: “o noi o i lupi”. La Regione Piemonte vicina agli allevatori (a parole), con WolfAlps nei fatti

Ampio resoconto degli interventi del convegno di Villadossola di venerdì 27 giugno

di Michele Corti

Riportiamo un ampio resoconto dei numerosi interventi al convegno sul tema della presenza del lupo tenutosi a Villadossola venerdì 27 giugno. Un materiale utile anche per le tante realtà in Italia alle prese con la proliferazione dei lupi. Utile per capire che non si tratta di calamità naturale ma da fenomeno, frutto di scelte politiche, che si può contrastare, contro cui ci si può organizzare e reagire. Il convegno è stato accompagnato da una protesta,  civilissima ma ferma nei contenuti (“o i lupi o noi”) degli allevatori radunati fuori della sala (dentro i posti erano contingentati per Covid). Da registrare che in Ossola le istituzioni locali, quelle rappresentative della popolazione (la burocrazia no, ovviamente) è schierata con gli allevatori e la popolazione dei piccoli comuni. A partire dal presidente della provincia (Lincio) e dalla presidente delle aree protette ossolane (Riboni) che si sono espressi in termini perentori contro la non gestione del lupo chiedendo interventi efficaci a tutela dei piccoli allevatori in balia del predatore. Dalla regione, invece, un atteggiamento cerchiobottista.

(26.06.20) L’incontro “istituzionale” di venerdì 26 giugno a Villadossola è stato impostato dalla regione Piemonte, come al solito, come “informativa” da parte di WolfAlps (che non ha fatto che ribadire, come naturale, la sua linea d’azione). Oltre a contestazioni di merito (inefficacia delle misure di difesa passiva, meccanismi per i parziali rimborsi, scarsa credibilità dei numeri sulla presenza di lupi), l’iniziativa è stata contestata anche per il metodo. Perché, si sono chiesti gli esponenti di istituzioni locali e gli allevatori, la Regione non discute direttamente con noi, ascoltando i nostri problemi e le nostre proposte? Perché tutto ciò che riguarda il lupo è monopolizzato, sul piano istituzionale e para-istituzionale (ma non c’è nessuna legge scritta che obblighi a farlo), da WolfAlps, che si prefigge, per suo statuto, di espandere la presenza del lupo,  di proteggerlo, di farlo “accettare” (subire) alle popolazioni?
WolfAlps, come hanno ribadito nella discussione alla Fabbrica di Villadossola i suoi stessi esponenti, non è un progetto agricolo per tutelare gli allevatori, ma un un progetto ambientale per tutelare il lupo. Che il lupo non abbia da tempo bisogno di tutela ma di essere gestito e contenuto (anche a vantaggio dei veri lupi, sempre che ce ne siano ancora). E allora perché se è un attore di parte WolfAlps monopolizza il discorso? La risposta è che si è giocato bene le carte, forte di appoggi a tutti i livelli, del deficit di rappresentanza della montagna e delle aree rurali (ma anche dell’agricoltura, compresa quella professionale), dell’inadeguatezza (a essere buoni) della “classe politica”.
 Gli allevatori non ci stanno, però, ad accettare questo status quo, questa condizione di  impar condicio, non solo loro anche i sindaci, il presidente della provincia (sindaco di Trasquera), la presidente delle aree protette ossolane.



Ossolani uniti e capaci di argomentare e fare proposte operative (oltre che di protestare civilmente)

Va subito detto che, insieme alla protesta – peraltro civilissima – al di fuori della sala del convegno  (dove l’accesso era limitato per Covid), quello che si può definire il fronte ossolano di opposizione alla politica di espansione e protezione assoluta del lupo, si è mostrato compatto – dai livelli istituzionali ai rappresentanti del comitato di base di difesa degli allevatori. Non solo, esso  di è dimostrato anche capace di articolare bene le proprie posizioni, sia argomentando, in negativo, contro le “soluzioni” facilone (che tanto non sono loro a subire) proposte dal lupismo istituzionalizzato (WolfAlps), sia, in positivo, avanzando concrete proposte, attuabili anche sulla base dell’attuale normativa. Una normativa, sia ben chiaro, sempre più scandalosamente, palesemente anacronistica e socialmente e territorialmente iniqua, che giustifica la super protezione del predatore a “eterno rischio di estinzione”, basata sul Trattato di Berna e sulla Direttiva Habitat , sulla base di dati falsi, volutamente sottostimati e/o non aggiornati. Una normativa che fa capire la distanza tra i principi sbandierati di equità e democrazia e le prassi istituzionali e legislative contorte, opache con le quali le lobby organizzate riescono a imporre le loro regole.
Gli allevatori del Comitato, un organismo nato in Ossola nel 2004 in seguito alle prime predazioni (allora legate a singoli esemplari in dispersione e non ai branchi, come oggi), le loro posizioni le hanno esposte in  un volantino distribuito all’ingresso della sala dell’incontro.



Ma vediamo cosa si è detto al convegno. Partiamo dalla massima autorità, Fabio Carosso, vice presidente della regione assessore all’Urbanistica, Programmazione territoriale e paesaggistica, Sviluppo della Montagna, Foreste, Parchi, Enti locali. E poi? Basterebbe questa “diluizione omeopatica” della montagna in tante altre materie, per capire quanto abbia a cuore la Regione Piemonte la montagna.  Non parliamo della montagna ossolana, vera “periferia dell’impero” vista da Torino.



E infatti Carosso che, a parole, si è detto vicino agli allevatori, ha anche detto che con il lupo si deve convivere (c’è scritto in costituzione Carosso?) e che la regione non può prendere nessuna iniziativa per limitare i lupi perché il Piano Lupo non c’è. Il Piano Lupo, per chi non lo sapesse, è scaduto nel 2015 e il nuovo è rimasto fermo per l’ostruzionismo animal-ambientalista che, ovviamente, si oppone alla presa d’atto che la situazione è cambiata, che i lupi sono tutt’altro che in estinzione (dilagano) e che è invece sono in forte sofferenza allevatori e pastori. Ovviamente a loro, agli animal-ambientalisti, sempre più arroganti, va bene così: vogliono che i lupi occupino e intasino ogni area occupabile e che allevatori e pastori si estinguano. Ma l’assenza del Piano Lupo, caro Carosso, cara Regione Piemonte, non impedisce – comodi gli alibi, neh, che le deroghe previste dalla Direttiva habitat in caso di “gravi danni economici” possano essere applicate già oggi e che al lupo si possa sparare.
Lo chiesero due predecessori di Carosso: Taricco, del Pd e Sacchetto della Lega (qui cosa dicevamo). Persino in modi bipartisan. Erano entrambi di Cuneo, legati al mondo agricolo, e sentivano sul collo la pressione degli allevatori. Poi ci fu l’era Chiamparino che, fregandosene dei suoi stessi assessori, si mise alla testa del fronte delle regioni che, con un poco elegante dietro-front, accolsero le pressioni animal-ambientaliste intese boicottare il Piano scritto da Boitani (massimo lupologo sulla piazza), approvato dall’allora ministro dell’ambiente Galletti, che si erano resi conto della necessità, anche per non esasperare gli allevatori, di concedere limitatissimi interventi di controllo del predatore. Chi fosse interessato alla vicenda che da cinque anni tiene fermo il Piano lupo può vedere qui.  Allora, sono passati dieci anni, non c’era alcun Piano lupo che prevedesse abbattimenti. Erano tempi in cui la stima ufficiale dei lupi era scandalosamente ferma da anni a 1000 capi lupini in tutta Italia. Ma la Regione Piemonte, sulla base della propria competenza in materia di controllo della fauna selvatica (ribadita da sentenze della consulta recenti) inoltrò la richiesta di autorizzazione agli abbattimenti.
Che poi l’Ispra, ai tempi, diede al Comitato tecnico, che diede al Ministro, che rispose alla Regione, una risposta politica evasiva e senza vere basi tecniche (risposta che la Regione Piemonte avrebbe potuto impugnare) non ha importanza. Ciò che conta è che la regione (non solo Piemonte, tutte) ha il diritto-dovere di chiedere, se lo ritiene motivato, un intervento di controllo del lupo. Il resto è alibi, ignavia, opportunismo politico, paura di quieta non movere, di avere contro la burocrazia (tutta lupista) e le rumorose minoranze  animaliste. Sarà in ogni caso l’Ispra a intervenire nel merito tecnico e il ministro, anche se si chiama Costa, non può non tenere conto della valutazione tecnica. Perché Carosso allora non la conta giusta? Per motivi politici.
Perché nel frattempo: 1) WolfAlps si è istituzionalizzato, consolidato, stabilizzato, incistato e assomiglia  sempre più a un ente pubblico in fieri,  dotato di ampi poter di fatto. Un ente di propaganda e tutela lupi, capace di influenzare e penetrare tutta la macchina burocratica pubblica. Specie in Piemonte dove il Parco delle Alpi marittime è il quartiere generale di WolfAlps e rappresenta una struttura organizzativa al suo servizio; 2) La politica piemontese è sempre più condizionata dall’animal-ambientalismo che ha ovviamente il suo punto di forza a Torino, ma essendo, per retaggio sabaudo, torinocentrica, anche forze come Lega e FdI che pure se fosse per Torino non toccherebbero palla, si guardano bene di “stuzzicare” la lobby, forte nelle redazioni e nelle Università cittadine e in tutti i centri che condizionano l’opinione pubblica.  Se c’è da combattere delle battaglie anche i partiti che proclamano di essere “con il popolo” e con “le provincie” preferiscono farlo dove ci sono di mezzo interessi forti, lobby, ritorni di vantaggi per le forze politiche, le cerchie personali. Perché rischiare di crearsi rogne per quattro caprai di montagna?
Così la regione dice di essere con gli allevatori ma sta con WolfAlps. Lo dimostra lo stesso incontro di Villadossola che, come gli altri organizzati in Piemonte, è gestito da WolfAlps al quale la Regione riconosce anche la funzione di informazione sul tema. Non è finita. Carosso ha anche elogiato WolfAlp per i suoi monitoraggi “altamente scientifici”. Uniche concessioni agli allevatori la promessa di rimborsi più facili. Peccato che il bando che rimborsa le predazioni (sino al 30 maggio scorso) e assegnava contributi per alleviare la pressione predatoria fosse condizionato ai soliti criteri dettati da WolfAlps (uso di reti e cani). Peccato che molti allevatori ai rimborsi ci rinunciano perché non vogliono i lupi, non vogliono convivere con loro solo perché così vogliono gli ambientalisti di città. Carosso ha comunque riconosciuto che in un’area come l’Ossola l’utilizzo dei mezzi di difesa passiva (cani, reti) è più difficile. 


La dott.ssa Marucco, mente di WolfAlps e pupilla di Boitani, ha ribadito che monitoraggi come quelli che fanno loro in Italia non li fa nessuno, che loro sono i più bravi ecc. Saranno fischiate le orecchie al prof. Apollonio che ha eseguito un monitoraggio in Toscana stimando una popolazione di oltre 1000 lupi, solo in Toscana . La Marucco ha però precisato che nel 2018/19 i soldi di WolfAlps I erano terminati e non si è fatto nulla, nessun monitoraggio. Nel 2020 si partirà con una nuova campagna ma, per ora, solo in Ossola dove la situazione ha carattere emergenziale. Di fatto gli ultimi monitoraggi sono del 2017/18. I 195 lupi in Piemonte sono sempre quelli di quell’anno. Con il metodo utilizzato, che prevede l’inzio dei campioni per l’esame del Dna in America, tutta la procedura implica un ritardo fisiologico di almeno due anni. Ma i lupi aumentano rapidamente. Quanti sono quelli veri? Almeno 2-3 volte quelli ufficiali. I numeri dei lupi trovati sulle strade del Piemonte sono lì a certificare che le “stime ufficiali” sono farlocche.



D’altra parte la stessa Marucco e il geom. Canavese, direttore del Parco Alpi marittime ed esponente di spicco di WolfAlps, nei loro interventi ammettono che il lupi sono diventati tanti (quanti non lo dicono), talmente tanti che l’unica area in Piemonte dove c’è ancora posto per far star comodi ulteriori branchi è proprio il VCO. Altrove devono stringersi. I lupi sono diventati talmente tanti (lo dicono loro) che per contarli si dovrà ricorrere anche ai cacciatori oltre che ad altre categorie. Di fatto è in atto il tentativo di cooptare i cacciatori (le organizzazioni) legandole al carro di WolfAlps. In Ossola i comprensori (quasi tutti) non ci stanno e hanno compreso che il monitoraggio è la chiave di tutta la partita lupi. Chiedono di farlo autonomamente, basandosi su esperti qualificati indipendenti da WolfAlps. La regione con chi sta? Ma con WoilfAlps, ovvio.
Quanto alla presenza dei lupi nel VCO, il funzionario delle aree protette Radames Bionda ha precisato che, oltre al branco di sei lupi che gravita nella valle Anzasca, è quasi certo (se lo dicono loro vuol dire che è stracerto) che ce n’è un altro che gravita tra la stessa valle Anzasca e la valle Strona. Diversi lupi frequantano poi le valli Antigorio, Divedro, Vigezzo.  Come indicherebbero le numerose foto trappole (280) disseminate da WolfAlps sul territorio. Possiamo essere certi che se non si sono già formati altri branchi sono in formazione. E le cose si metteranno male in tutta la provincia.
Dal fronte pro lupo, la veterinaria Arianna Menzano ha ribadito le note “ricette” per la difesa passiva, annunciando che WolfAlps impiegherà squadre di pronto intervento per attuare misure preventive, con l’obiettivo anche di aiutare gli allevatori a districarsi tra la burocrazia delle pratiche (ma non è meglio eliminarla?) e con esperti comportamentalisti in grado di assistere nell’impiego dei cani da guardiania (ma non è meglio impiegare, piuttosto che cani con pedigree ma inidonei, cani “giusti”, provenienti dai pastori, abituati da generazioni a lavorare nei greggi, poco inclini ad attaccare l’uomo ma efficaci con il lupo?).
Il colonnello Baldi dei cc forestali, con l’evidente finalità di “smontare” la protesta dei sindaci della valle Anzasca, ha dichiarato che i forestali, pur tenendo sotto osservazione la situazione dei lupi che si avvicinano alle case, non sono mai dovuti intervenire per garantire la sicurezza. Come dire: facciamoli avvicinare ancora di più e in maggior numero, poi si vedrà (ma, si sa, per loro non sono pericolosi). 



In polemica con il volantino degli allevatori, sopra riprodotto, l’esperta di comunicazione di WolfAlps ha contestato quanto in esso asserito circa la “manipolazione” propagandistica attuata da WolfAlps stesso a danno dei più giovani. Ha rigettato con sdegno l’insinuazione che l’operazione dei 5000 ragazzini Life Alpine Young Rangers rappresenti un lavaggio del cervello in senso lupista. Staremo a vedere. Di indottrinamento dei bambini ce n’è stato già parecchio (vedi le favole “riscritte” per dimostrare che il lupo è buono, gli interventi nelle scuole). Comunque questi alpine young ranger puzzano di “Figli della lupa” lontano un miglio.

Parla l’opposizione istituzionale e sociale alla politica lupista

Veniamo ora all’altro fronte, quello degli amministratori, degli eletti a livello locale. Mentre i burocrati, gli appartenenti ai corpi dello stato e della regione, sono schierati coma una falange pro lupo (sarebbe interessante capire come è stata ottenuta questa unanimità), chi è eletto, o espressione degli eletti, almeno in Ossola sta con gli allevatori. Con qualche eccezione stravagante come il sindaco di Ornavasso (nel basso fondovalle) che, non solo ha messo una taglia contro il responsabile dell’avvelenamento di un lupo trovato morto, ma proclama di essere contento se i lupi arrivano sino in paese. 
Tra gli amministratori ossolani – la maggior parte – impegnati a contestare le politiche ufficiali sul lupo (di fatto delegate a WolfAlps, ovvero alla lobby pro lupo) è in prima fila il presidente della provincia Arturo Lincio, sindaco di Trasquera (un paese di montagna dove l’allevamento caprino è molto sentito) (qui su ruralpini immagini su Trasquera)(qui un articolo sulle capre a Trasquera). Lincio è stato eletto dai sindaci (con il sistema dell’elezione di secondo grado) con l’appoggio dei piccoli comuni coalizzati e dimostra di essere fedele alla mission della loro rappresentanza (spesso sottotraccia anche in una provincia esclusivamente montana come il VCO). Lui, nonostante gli attacchi (da fastidio al sistema uno che difende i piccoli, che siano comuni o imprese), tira dritto. Chapeau.




Lincio
 chiede che sia ora che il lupo venga gestito, che si tenga conto dell’insieme degli ecosistemi e delle attività antropiche (in effetti il lupo è gestito con autoreferenzialità spinta da WolfAlps che, finché la politica lo lascia fare, va avanti così in tutta tranquillità).  Utilizzando le deroghe, quelle già previste dalle norme di protezione della specie, egli chiede un Protocollo di intervento che preveda misure, modulate e specifiche, sulla base degli  effettivi impatti creati dal predatore in termini di sicurezza dei centri abitati. Chiede anche che – in caso di attacco di greggi – venga consentito, da subito, l’ultizzo di spari di dissuasione da parte degli allevatori. Secondo il presidente della provincia deve essere previsto anche l’impiego di squadre di pronto intervento, che mettano in atto nei confronti del lupo delle misure dissuasive adeguate alle loro reazioni e alle situazioni.

Quello che chiede Lincio non sono altro che delle “regole d’ingaggio”, come quelle stabilite per l’orso in Trentino. Tutto quello che chiede il presidente della provincia è già previsto dal Pacobace (squadre di dissuasione e pronto intervento in grado di allontanare ed eventualmente catturare o abbattere il carnivoro, graduando l’intervento). Lincio ha poi stigmatizzato – l’attacco è rivolto all’ Asl principalmente – il fatto che, invece che dissuadere i lupi dall’avvicinarsi alle case e ai greggi, si sono dissuasi, almeno sino a oggi, gli allevatori dal segnalare le aggressioni (ora la strategia, concertata tra le agenzie pro lupo, pare cambiata).  Chiede quindi un cambio di marcia: basta con l’affidare a una parte in causa (i parchi e le Asl che sono partner di WolfAlps e quindi sotto la sua cappella) i monitoraggi, la gestione delle denunce degli allevatori.
Per Lincio le statistiche dei danni subiti dagli allevatori lasciano allibiti. Sembrerebbero, sulla base dei dati statistici “ufficiali” del 2019, praticamente nulli, mentre – al contrario – sono noti numerosi e sanguinosi episodi. Non si tiene poi minimamente conto delle predazioni sui selvatici che rappresentano un elemento cruciale per comprendere la distribuzione dei predatori e la loro potenziale pericolosità in relazione alla vicinanza ai centri avitati. I sindaci, lamenta Lincio, che pure hanno responsabilità rilevanti su tutta la materia di sicurezza sono stati tenuti completamente fuori dalle indagini sulla presenza dei lupi. Polizia provinciale e guardiaparco hanno applicato quanto previsto dalla Regione (sulla base delle indicazioni di WolfAlps)ma le cose devono cambiare e serve un approccio diverso. Intanto coinvolgendo prefettura e cc forestali in piani di controllo che potrebbero prevedere l’uso di radiocollari per segnalare la presenza dei predatori. Lincio ha poi ribadito che non ci può essere una gestione del lupo affidata alle sole visioni degli specialisti di parte conservazionista.  In considerazione del rilevante impatto del grande predatore sull’ambiente e le attività antropiche non possono essere esclusi i sindaci e le rappresentanze sociali delle categorie coinvolte. La costituzione, tante leggi fondamentali, convenzioni ecc. dicono che non debbono.



Tra gli interventi di peso “dalla parte dell’allevatore” anche quello dell’ing. Vittoria Riboni, presidente dell’ente di gestione delle aree protette dell’Ossola. La Riboni ha esordito dicendo che il tema della conservazione del lupo è un argomento che la colpisce profondamente in quanto allevatrice. Quando sono diventata presidente delle aree protette dell’Ossola, sono venuta a conoscenza dei dettagli del progetto Life oggetto di questo incontro. Ho sentito quindi mio dovere fare pressione affinché venisse posta la massima attenzione alle necessità degli agricoltori, unica categoria fragile in questa partita.
Su sollecitazione del presidente i funzionari del parco hanno effettivamente cercato di applicare le misure previste al fine della prevenzione dei danni agli allevatori. Ma, ha chiarito la Riboni: mi sono accorta che: primo, lo strumento di difesa viene fornito solo ad agricoltori che hanno subito la predazione o nelle vicinanze. Secondo, il progetto non prevede una adeguata varietà di metodi, come ad esempio i recinti fissi (che però, osserviamo noi, funzionano solo in circostanze particolari, mai sugli alpeggi ,a meno di non creare deleterie concentrazioni di animali a danno della loro salute, del loro benessere, della conservazione del pascolo). Dalla Regione sono stati quindi ottenuti dei fondi  supplementari, nell’ambito del progetto per ampliare gli interventi. In ogni caso la presidente ha tenuto a precisare che: L’ente non promuove la convivenza, ma si adopera con ogni mezzo ad esso in possesso per ridurre l’impatto del predatore.
Dopo aver posto l’attenzione sul ruolo insostituibile  svolto dall’agricoltura di montagna per la conservazione del paesaggio e, in generale, di un patrimonio storico e culturale risultato della millenaria colonizzazione della montagna, Vittoria Riboni ha sottolineato anche come questo paesaggio, plasmato dall’uomo, sia anche ricco di valenze naturalistiche, di biodiversità, di capacità di difesa del suolo. Un risultato conseguito anche perché la montagna ha potuto beneficiare per un lungo periodo dell’assenza del predatore. In particolare: la manutenzione capillare conserva il suolo, riduce le erosioni e i cedimenti di terreni e terrazzi. Questo patrimonio oggi è minacciato da un predatore che non avendo un competitore si sta diffondendo a macchia d’olio.
 A questo punto la presidente delle aree protette ha voluto indicare nel dettaglio quali sono le conseguenze dell’impatto della predazione da parte del lupo sulle strutture del piccolo allevamento ossolano.  Voglio spiegare ora che cos’è l’agricoltura delle nostre montagne e che cosa comporta una predazione. Nel nostro territorio il cuore degli allevamenti ovi-caprini è costituito da una miriade di piccoli greggi di poche decine di animali. Ciò li rende particolarmente vulnerabili. 10 pecore sbranate su 1000 ha un impatto. 10 pecore sbranate su 50 l’allevamento chiude. Esiste poi una miriade di allevatori amatoriali che meritano la massima attenzione e rispetto perché in capo a loro è il governo dei terreni più disagiati e scoscesi. se non vogliamo il bosco in casa ci sono loro. I sistemi proposti sono utili ma non infallibili. Mettere un recinto su terreni scoscesi è un lavoro improbo e il lupo può superarli. Ci sono poi tutti i danni collaterali ad una predazione: animali spaventati che soffrono il trauma, perdono il latte e subiscono aborti. Le recinzioni in alpeggio infine comportano: una riduzione della produzione perché l’animale non può mangiare nel momento ideale cioè di notte, una riduzione della gestione pascoliva, e fenomeni di erosione del cotico erboso nell’area all’interno dei recinti. Occorre quindi oggi ribaltare il problema e mettere l’agricoltura al centro del progetto e trovare nuove forme di gestione del predatore. La biodiversità del lupo e quella generata dall’agricoltura non sono compatibili ed occorre operare delle scelte. i parchi non vivono di territori incolti e abbandonati ma sulla montagna viva e sugli ambienti semi naturali.

Non è usuale che un presidente di una provincia e di un sistema di parchi assumano queste posizioni. L’Ossola, a questo riguardo, appare molto diversa dal Piemonte (rispetto al quale, non a caso) continua a nutrire aspirazioni autonomistiche. Parrebbe di essere in una “piccola provincia di Bolzano”. Solo che qui non ci sono un partito (Svp) e un forte sindacato agricolo (Sbb) schierati con gli allevatori contro la reintroduzione dei grandi predatori.  C’è però, una reattività diffusa e palpabile,  un coinvolgimento delle istituzioni locali che in Italia stenta quasi ovunque a emergere (salvo nella Lessinia veronese, dove i sindaci e la società civile sono compattamente dalla parte degli allevatori contro WolfAlps).

L’anomalia ossolana si spiega con fattori storici e geografici. Innanzitutto è un valle incuneata nella Svizzera, una valle che, quando era unita a Milano (sino alla metà del Settecento), aveva goduto una larghissima autonomia. La tardiva imposizione del centralismo Torinocentrico (e dell’irrigimentazione militaresca sabauda della società), il mantenimento, anche dopo l’annessione sabauda, di legami con la Lombardia (verso cui gravitava e gravita ancor oggi l’Ossola), spiegano perché, rispetto alle aree di Cuneo e Torino – da decenni afflitte pesantemente dal lupo – l’Ossola sia più reattiva.  La geografia, oltre alla relazione con la Svizzera e la Lombardia, aiuta l’Ossola anche da un altro punto di vista: le lunghe valli, parallele, di Cuneo e di Torino si aprono sulla pianura, la montagna per parlarsi deve passare dalla pianura. Una limitazione non da poco (logistica ma anche simbolica e psicologica). In Ossola le convalli convergono sul fondovalle del Toce nei pressi di Domo.  Le valli ossolane, oltre tutto, sono anche meno spopolate e vi sono ancora tanti piccoli allevatori.  WolfAlps, sottovalutando i dati socio-culturali, presumendo di poter passare come un rullo compressore sulle Alpi, indipentemente dalla realtà antropica, politica, sociale. Così trova resistenze inaspettate che con i suoi soliti metodi non riesce a piegare  facilmente.

La parola (in coda al convegno) agli allevatori

Oltre che dagli interventi “programmati” di Lincio e Riboni, il punto di vista degli allevatori è stato sostenuto nei brevi interventi concessi al “pubblico”.  Davide Tidoli , vice-sindaco  di Bannio Anzino, parlando anche a nome di Macugnaga e degli altri comuni della valle, ha ribadito che, in vent’ anni , da quando è tornato il lupo,  nessuna soluzione è stata messa in atto per far fronte ai danni economici e sociali e alla biodiversità. Ha quindi riferito che i sindaci della valle Anzasca, che si erano riuniti una settimana prima, hanno convenuto nel dichiarare che la convivenza con lupo in valle Anzasca non è possibile.

Lina Leu
, allevatrice di capre e di mucche della val Vigezzo (nata e cresciuta in valle Antrona), ha messo il dito sulla imbarazzante piaga degli  ibridi.  Ha sostenuto che le posizioni degli esperti in tema di lupo sono unilaterali e che c’è qualcosa che non funziona se tocca a lei sollevare certe questioni.

Marco Defilippi
, allevatore venuto dalla val Sesia a testimoniare la comunanza di problemi e di posizioni con i colleghi del VCO, ha sollevato il problema dei conflitti creati dai cani con i turisti  (oggetto di un recentissimo articolo qui su ruralpini che mette in evidenza come il regolamento di Alagna Valsesia ponga fortissimi limiti all’uso dei cani per la difesa). Defilippi ha poi evidenziato come i lupi saltino i recinti e, come gli altri, ha concluso che  la convivenza non è possibile.

Resta da riferire dell’intervento di Otten Gesine, la battagliera allevatrice di capre che – già nel 2004 – era stata tra i più convinti e attivi animatori del Comitato di difesa degli allevatori, un comitato che, negli ultimi anni, sotto la pressione degli eventi e del succedersi delle predazioni è andato ampliandosi ad altre/i combattive/i allevatrici/ori.  Gesine, che ha posto domande ai relatori anche dopo i loro interventi, ha osservato che WolfAlps va avanti per la sua strada, noncurante della crescente sofferenza deli allevatori, come se le solite “ricette” (cani e reti) andassero sempre bene, andassero bene ovunque.  Devo sentire le stesse cose da 18 anni ha sbottato l’allevatrice e attivista. Gesine, comunque, non si è limitata a contestare genericamente WolfAlps ma ha affrontato temi specifici. Ha ribadito come le stesse normative internazionali che  proteggono il lupo abbiano previsto, in caso di forti danni al bestiame domestico, la creazione di zone di esclusione del lupo. Come è stato fatto in Svezia per salvaguardare l’allevamento della renna. Come hanno  chiesto a più riprese (e siamo certi che non molleranno di fronte al muro di gomma di Bruxelles e delle lobby internazionali animal-ambientaliste) i paesi alpini di lingua tedesca. Entrando nel merito delle azioni previste da WolfAlps II (che ricalcano sostanzialmente quelle di WolfAlps I, potenziandole),  ha contestato nello specifico l’organizzazione delle squadre cinofile antiveleno. Se la convivenza fosse possibile, se si attuassero misure di difesa efficaci non ci sarebbe nessun caso di distribuzione di bocconi avvelenati ha detto Gesine. Servono, invece, come già si fa con gli orsi, delle squadre cinofile di dissuasione, composte da due conduttori e da almeno tre cani specializzati e addestrati nel respingere, dissuadere e allontanare i lupi nelle situazioni critiche. Così non si può continuare – ha poi sostenuto la capraia – precisando che: in Ossola, dove l’80% delle aziende zootecniche sono rappresentate da piccoli allevatori c’è una situazione insostenibile. Non si può più andare avanti così.


qui l’intervista a Otten  Gesine sul sito de la Stampa

Far chiudere gli allevamenti è uccidere la montagna

Una notizia che ha colpito e intristito la val Maira, ma non solo. Ha chiuso i battenti all’inizio del mese l’ultimo allevamento di trote, dopo cinquant’anni di attività.  Era un’attività che ben si integrava con il turismo che, almeno in estate, ha visto un interessante crescita negli ultimi anni, specie grazie alla predilezione dei turisti tedeschi e di chi cerca valli ricche di storia, di arte, di paesaggi non deturpati dal turismo di massa. La montagna, le alte valli hanno la materia prima essenziale per la troticultura: acqua pulita, a bassa temperatura. Logica vorrebbe attività come queste, che ben si prestano ad essere esercitate in montagna, ma che non possono avere grandi numeri e inserirsi nella grande distribuzione, venissero aiutate per il fatto che arricchiscono l’offerta gastronomica locale, quindi l’economia turistica, con prodotti a km 0.  La logica del fisco e della burocrazia di questo non vuole farsi carico. Gli adempimenti colpiscono anche in montagna senza pietà, senza guardare in faccia a nessuno. E prima o poi, sotto il carico della sempre più opprimente burocrazia, le aziende alzano bandiera bianca. Probabilmente è quello che si vuole: desertificare la montagna dal punto di vista economico, agricolo, sociale, umano.

di Andrea Aimar

(21.06.20) Lo scorso 1’giugno ha chiuso i battenti ad Acceglio, località Ponte Maira, alta Valle Maira l’ultimo allevamento di trote iridee e salmerini della valle.
Dopo lunghe e attenti valutazioni è stata questa la decisione di Giovanna Pasero, 54 anni, titolare dell’Azienda, sul futuro del suo allevamento ittico inaugurato dal suocero Giacomo Marchetti nel lontano 1970.Un’attività che ha dato moltissime soddisfazioni, spiega Giovanna, perché in questo lavoro ci abbiamo sempre messo la passione, forza primaria che ha consentito a questa attività di proseguire e svilupparsi per tutti questi decenni. Un prodotto di nicchia dovuto anche alla purissima acqua di sorgente del luogo, che conferiva alle trote un valore aggiunto, voluto e apprezzato da tantissimi clienti, oltre che a ristoranti della valle e non solo. Un prodotto salutare, genuino e a km0, direttamente dall’alta valle Maira, a 1400 metri di quota


Se ne va’ così un altro pezzo di storia di questo territorio, una realtà purtroppo triste, ma veritiera, dei nostri piccoli borghi Alpini.La figlia Giulia Marchetti, classe 2000, racconta:La burocrazia e la nuova entrata in vigore della fatturazione elettronica non hanno fatto altro che aggravare ulteriormente la situazione dell’economia di montagna, anziché migliorarla semplificandola. Il turismo in valle è molto vocato, ma limitato al periodo estivo. Fuori stagione ci sono giorni in cui non si vede nessuno. E le entrate concentrate a così pochi mesi all’anno non bastano più al mantenimento di certi settori. Ora mamma aiuterà me ed i miei fratelli nella nostra azienda di vacche Piemontesi, anche con l’appoggio prezioso di papà Sergio, ex dipendente Postale della valle.Interviene anche Giovanni Marchetti, promogenito, classe 1988Sono decenni che si discute dell’argomento della defiscalizzazione dell’economia montana, ma i risultati sono visti in prima persona solamente da coloro che in montagna ci vivono e ci lavorano tutto l’anno, il villeggiante che sale solo la domenica, molte cose non le può capire. Bisogna far in modo di agevolare le micro-medio imprese, soprattutto per noi giovani, che in questi stupendi territori abbiamo ancorato le nostre radici. II futuro è nelle mani delle nuove generazioni, a cui però non è data la giusta considerazione. Perché con le parole molti sono gli aiuti per la montagna, ma nella realtà di tutti i giorni ci vediamo venir incontro più difficoltà che semplificazioni. Ne può essere un chiaro esempio la reintroduzione del lupo, dove ogni mattina andiamo al pascolo senza sapere se il nostro gregge c’è ancora tutto, o qualche vitello, nella notte, è stato sbranato da qualche carnivoro selvatico.
L’arco alpino, in cui è racchiusa una storia e una tradizione ultra millenaria, si trova ora ad una nuova progressiva epoca, fatta per lo più di borghi abbandonati la maggior parte dell’anno, gestita da una politica Nazionale che molte volte non ha nessuna chiarezza di cos’è la vita di montagna. Alle aziende (agricole, artigianali, commerciali e ricettive), quale futuro?
Una cultura che si è sbiadita nel tempo ha eroso quei tasselli fondamentali di ancoraggio, facendo venir mancare per la quasi totalità della gente che sta in montagna, il significato ancestrale del mantenimento del territorio. Eredità trasmessa a quelle ormai poche persone, che in montagna hanno saputo, e voluto, fondare il proprio stile di vita. Come ha fatto Davide, classe 1992, fratello di Giovanni e Giulia.Per me la valle Maira è sentirmi a casa, lontano dalla montagna è come se perdessi parte di me. Non sono poche le difficoltà del vivere qui, ma con un po’ di impegno, un pizzico di fortuna, tanta voglia di lavorare e molta positività, si possono anche vedere i raggiungimenti di soddisfacenti obiettivi. Come il vivere per la propria passione, gli animali sono il mio impegno quotidiano, insieme a mio fratello e mia sorella abbiamo portato avanti l’azienda di famiglia, allevando vacche di Razza Piemontese. Alcuni anni fa abbiamo fatto la stalla nuova, e cercato di organizzarci migliorandoci nella meccanizzazione, come per la fienagione, e all’acquisto delle attrezzature per l’alpeggio, investendo denaro, tempo e sogni. Perché bisogna sempre puntare al meglio, e non sempre necessariamente al massimo.Vite, queste, che andrebbero ascoltate con più attenzione, in particolar modo dalle istituzioni, perché se non si rafforzano con solide basi queste realtà, i pilastri delle nuove generazioni, con quali semplici virtù potranno reggere questo immenso patrimonio, chiamato montagna?

È inutile portare in montagna i fallimenti della città

Al tempo del dopo contagio

di Anna Arneodo

Approfittando del clima del post contagio l’Uncem torna a proporre le sue ricette di montagna “da bere”. L’Uncem (Unione dei comuni e delle comunità montane) è in realtà un’agenzia di professionisti della politica e di tecnocrati, pronti a farsi promotori e mediatori di interessi rampanti. Articolazione della borghesia svendidora urbana, ha l’impudicizia di rappresentare la montagna. Lo si è visto nel caso delle biomasse e della promozione di speculazioni immobiliari sulle borgate abbandonate. Ora vuole proporre un’operazione più vasta. Prima si costringe a fa scappare la gente (via i servizi, via i negozi, strade a pezzi, lupi, cinghiali, tasse, burocrazia) e si lascia che il patrimonio edilizio diventi fatiscente (anche grazie all’IMU), poi si acquistano per nulla gli immobili e se ne promuove la ristrutturazione come seconde case o abitazioni di ricchi cittadini che in montagna vanno a fare smart working  ma che non contribuiscono a pulire un metro quadro di bosco o a sistemare un metro lineare di sentiero. Sarebbe più logico e più economico togliere un po’ di tasse e di bastoni tra le ruote ai montanari e dare loro incentivi a continuare a vivere in montagna. No, questo non va bene all’Uncem e alle sue teste d’uovo che vogliono (anche per finalità politico-ideologiche) “ripopolare” con “nuovi montanari” isole di montagna (in mezzo alla “natura tornata incontaminata”) azzerandole l’identità sociale e culturale. I bisogni dei “vecchi montanari”, però sono ben altri come ricorda Anna Arnodo

di Anna Arneodo

(16.06.20) L’UNCEM si sta rivelando – anche in questa nuova imprevista emergenza – l’ennesimo ente inutile preposto a occuparsi della montagna, che specula offensivamente sulla montagna.
Leggo sul comunicato del suo presidente Bussone (montanaro di città), datato
12/5/2020: Ecobonus: importantissimo anche per le seconde case nei borghi alpini; e ancora concedere contributi sulle spese di acquisto e ristrutturazione di immobili da destinare a prime abitazioni a favore di coloro che trasferiscono la propria residenza.
Noi montanari, che già viviamo quassù e presidiamo da sempre queste “terre alte” (come va di moda oggi chiamare la montagna) non meritiamo niente: abbiamo già la residenza, la casa, prati, campi, mucche e pecore, ricoveri per i “poveri vecchi”, pulmini per le deportazioni scolastiche a fondovalle…, baite cadenti e vecchie borgate in surplus da svendere ai mecenati che – bontà loro – verranno dalla città a investire in montagna, anche grazie alla funzione di agenzia immobiliare rivestita dall’UNCEM (v. il caso della borgata Batouira… di cui abbiamo parlato qui su ruralpini.it).


Questa è la considerazione in cui l’UNCEM tiene i montanari che già vivono in montagna!
Non riesce ad immaginare, il Pres. Bussone, che tenere in piedi una casa, una stalla, un’azienda, una piccola attività costa, costa tanto, costa ancor di più quassù, dove le ore di lavoro sono infinite e continui a lavorare solo “malato” di passione.
Noi montanari potremmo andarcene tutti (in fondo siamo da sempre figli di emigranti, abituati a partire) e lasciare il posto a chi – con gli incentivi statali perorati dall’UNCEM – verrà in montagna diventata luogo in cui vivere e lavorare grazie allo smart-working in condizioni più favorevoli rispetto alle aree urbane (v. comunicato UNCEM del 12/05/2020).
L’UNCEM prevedesse almeno per noi, “vecchi” montanari, uno stipendio come giardinieri!
Invece di darsi da fare per ecobonus a seconde case, premi per chi trasferisce da fuori la residenza, investimenti per creare parcheggi a pagamento (v. comunicato UNCEM del 28/05/2020) l’UNCEM in maniera molto più concreta, dovrebbe adoperarsi per chi in questo momento fatica per mantenere un presidio sulla montagna:
Pensiamo alle strade (per le quali la Provincia in questo ultimo anno sostiene di non avere più soldi, nemmeno per la manutenzione ordinaria, pensiamo alla strada del Vallone di Elva in Val Maira, interrotta da anni, con aziende agricole giovani stabili a monte a 1500 m. di altezza);
Pensiamo al problema dei registratori di cassa obbligatori dal 31/12/2020 per i piccoli negozi e le aziende agricole;Pensiamo all’assurdo di tanta burocrazia per i piccoli coltivatori, che obbliga – per esempio – ad avere un mezzo apposito autorizzato al trasporto animali per trasportare un agnello al macello;Pensiamo ai servizi veterinari ASL che stanno chiudendo ovunque nei paesi di fondovalle;
Pensiamo ai piccoli negozi, agli uffici postali, alle scuole che hanno già chiuso o stanno chiudendo ovunque…Pensiamo ai lupi che hanno ricolonizzato le nostre valli e uccidono, assieme a pecore e mucche, anche la passione di chi ancora resiste ad ogni costo: ormai in montagna ci sono più lupi che bambini, come ha scritto qualcuno.
Questi sono i bisogni della montagna vera, della montagna che scommette ogni giorno per vivere:
NON la montagna degli ecobonus per la seconda casa, NON la montagna di parcheggi a pagamento,
NON la montagna dello smart-working da un villaggio turistico, restaurato con fondi pubblici, dotato di tutti i servizi più moderni, perfetto ma finto, senz’anima, perso in deserto di abbandono tra rovi e cespugli, boschi che avanzano, prati e campi che scompaiono, senza più montanari veri.
Ripensiamo le terre alte: ma ripensiamo davvero la montagna con gli occhi e il cuore, la storia, la cultura, la passione dei montanari.
È inutile riportare in montagna i fallimenti della città.

Ancora su IMU e fabbricati rurali

Si avvicina la scadenza della gabella che colpisce immobili (ex fabbricati rurali) che, nelle condizioni attuali, non possono fornire alcun reddito. Imponendo aliquote da seconde case, i comuni (e lo stato che ha stabilito le norme per l’imposizione) impediscono la conservazione e il recupero di un patrimonio che ha in molti casi un valore culturale ma che potrebbe, cambiando le circostanze, tornare di utilità ai proprietari e alla collettività per iniziative di sviluppo agricolo e turistico. Imponendo il pagamento dell’IMU sulle baite e le costruzioni di cui era disseminata la montagna si costringono i proprietarli a scoperchiarle. Torniamo, questa volta a brevissima distanza , sull’argomento per alcuni chiarimenti e, soprattutto, per incitare tutti gli interessati a fare pressione, singolarmente e collettivamente, sui comuni perché applichino l’aliquota minima (come loro facoltà). In attesa di una riconsiderazione da parte dello stato della materia questa è l’unica iniziativa possibile.


di Michele Corti

(10.06.20 L’ Imu come sappiamo è una gabella il cui gettito è destinato al Comune. Lo stato ha previsto questa imposizione che i comuni non possono non applicare. Invece di spremere ulteriormente con altre tasse statali il cittadino lo stato centrale ha preferito ridurre i trasferimenti ai comuni del gettito raccolto con la fiscalità generale e far riscuotere ai comuni la gabella sulle case.   I comuni, però, hanno la possibilità di ridurre al minimo consentito dalla legge statale l’aliquota, ovvero applicare quella del 4,6 per mille. Lo fanno in pochi (perché anche i comuni, come lo stato, sono spreconi con i soldi degli amministrati). Però, limitandoci alla montagna lombarda, vi sono comuni come Grosio  (scarica il PDF con la delibera) e di Edolo (Bs) (scarica il PDF con la delibera) che hanno fatto questa scelta. Sono, purtroppo, molto più numerosi i comuni che tassano i fabbricati rurali come le seconde case, applicando l’ aliquota massima del 10,6 che puo’ arrivare al 12,6 con accorpamento Tasi. Per molti comuni l’entrata dall’Imu sui fabbricati rurali non è certo indispensabile. Utile è invece il mantenimento delle aree rurali con i prati sfalciati, i boschi puliti, non solo per la valorizzazione turistica del territorio ma anche per la prevenzione degli incendi. Al comune converrebbe rinunciare a parte dell’introito piuttosto che contribuire con una tassa all’abbandono e al crollo dei fabbricati che una volta allo stato di ruderi non procurerebbero più alcun gettito. Purtroppo, però, molto amministratori non guardano oltre … la scadenza elettorale.I comuni hanno poi la facoltà di rimborsare ai proprietari degli immobili quanto riscosso a titolo di contributi per la manutenzione delle coperture, prevenzione del degrado, conservare il patrimonio storico/architettonico e il paesaggio (i ruderi deturpano il paesaggio).I proprietari dei fabbricati rurali che non godono delle esenzioni e che. di solito devono rispondere per più fabbricati (numerosi in tutti i paesi di montagna per via delle successioni ereditarie e della disseminazione, funzionale all’attività agricola tradizionale, delle piccole costruzioni), che hanno la sfortuna di risiedere in comuni turistici che applicano l’aliquota massima (ma cosa ci guadagna il proprietario di un vecchio fabbricato rurale?) devono fare, secondo noi, l’unica cosa oggi possibile e utile: scrivere al comune o recarsi di persona dagli amministratori (meglio stampando copie delle delibere dei comuni che abbiamo sopra indicato in modo che non abbiano scuse di sorta)  e spiegare loro quale danno stanno contribuendo a infliggere al patrimonio rurale, al paesaggio. Invitandoli, se hanno a cuore questi valori, a deliberare l’applicazione dell’aliquota minima.

Un problema che si trascina da diversi anni
Ruralpini ha seguito il problema sin dall’inizio, quando è stato imposto l’accatastamento al catasto fabbricati urbani (sic) degli ex fabbricati rurali. Seguiro no le intimidazioni dell’Agenzia delle entrate contro i rententi, che si rendevano ben conto di quale stangata gli sarebbe piombata addosso.  Ora non rinfocoliamo la polemica per il gusto sterile di farlo ma perché , dopo alcuni anni, stiamo assistendo alle pesanti conseguenza di queste politiche fiscali cieche sulle conseguenze sociali e territoriali.
Un problema che si trascina dolorosamente da diversi anniUn problema che si trascina dolorosamente da diversi anni

Vessati dall’Imu i proprietari delle baite baite (che nei comuni dove applicano l’aliquota piu’ alta, pagano in media 100/ 200 euro, che nei comuni turistici arriva fino a -500 € per baita) per non essere assoggettati all’ IMU si puo’ fare la richiesta di ruralità, sono molti i casi di esenzioneMolti fabbricati possono essere accatastati come rurali, strumentali all’attività agricola nel caso posseggano i requisiti di ruralità, ai sensi dell’art. 9 del decreto legge 30 dicembre 1993, n. 557, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 1994, n. 133, e successive modificazioni. Non serve
essere imprenditori agricoli per quelli non abitativi. Art. 9 – comma 3 – D.l. 557/93. Ai fini del riconoscimento della ruralità degli immobili, che rileva ai soli fini fiscali, i fabbricati o porzioni di fabbricati devono soddisfare congiuntamente le caratteristiche di cui all’art. 9, comma 3, D. L. 557/93
così come convertito e successivamente modificato ed integrato: c) il terreno cui il fabbricato è asservito deve avere superficie non inferiore a 10.000 metri quadrati ed essere censito al catasto terreni con attribuzione di reddito agrario. Qualora sul terreno siano praticate colture specializzate in serra o la
funghicoltura o altra coltura intensiva, ovvero il terreno è ubicato in comune considerato montano ai sensi dell’articolo 1, comma 3, della legge 31 gennaio 1994, n. 97, il suddetto limite viene ridotto a 3.000 metri quadrati. Pertanto si ritiene che anche chi non è IAP (Imprenditore agricolo professionale) se la superficie dei terreni (che sembra possano essere anche in affitto) è conforme al DL 557/93, può; chiedere la ruralità dell’immobile rural agricolo con le conseguenti esenzioni/riduzioni Imu:

Per i fabbricati rural agricoli  in sede di accatastamento all’urbano va chiesto al tecnico, se ci sono le caratteristiche di cui all’art. 9, comma 3, D. L. 557/93 così come convertito e successivamente modificato ed integrato, di eichiedere la sussisteza del requisito di ruralità per i fabbricati rurali strumentali all’esercizio dell’attività agricola  (art.2, comma 6, decreto del M.E.F. 26/7/2012), anche se non siete IAP (qualora l’ immobile sia stato accatastato senza richiedere la ruralità, la sussistenza dei requisiti di ruralità puo’ essere richiesta successivamente all’ Ag. delle Entrate/Territorio,  presentando i moduli di richiesta all’Ag. delle Entrate.

Per le unità immobiliari rurali a destinazione non abitativa, strumentali all’esercizio dell’attività agricola (art. 9, commi 3-bis e 3-ter, del DL n. 557del 1993) A differenza di quanto previsto per gli immobili ad uso abitativo, le costruzioni strumentali all’esercizio dell’attività agricola le disposizioni di legge non prevedono esplicitamente alcun requisito soggettivo in capo al possessore o all’utilizzatore della costruzione stessa (ad esempio, il possesso della qualifica di imprenditore agricolo, l’iscrizione al registro delle imprese o la prevalenza del volume d’affari derivante da attività agricola nella formazione del reddito complessivo).
In linea generale, le attività ordinariamente esercitate nelle costruzioni devono essere effettivamente riconducibili all’attività agricola, cioè deve esistere la compatibilità delle caratteristiche tipologiche e funzionali del fabbricato con l’effettiva produzione del fondo al quale è asservito.
Le costruzioni strumentali all’attività di allevamento e ricovero degli animali
non è necessaria l’esistenza di terreni nell’ambito aziendale. l’art. 42-bis del DL n. 159 del 2007 ha eliminato, nel comma 3-bis dell’art. 9, il riferimento all’art. 32 del TUIR e ha introdotto, come criterio per il riconoscimento del carattere di ruralità alle costruzioni strumentali, il riferimento al solo art. 2135 del codice civile.

Altrimenti per sfuggire alla tassazione l’immobile  deve presentare dissesti strutturali, pericolose crepe nelle murature, solai che crollano. Per la stragrande maggioranza dei vecchi fabbricati rurali, che non erano adibiti ad abitazione, non basta che non ci siano impianti (allacciamenti acqua, gas e luce) perché la loro presenza è requisito legato alle abitazioni. Molti optano per la trasformazione del fabbricato in un rudere (senza copertura) Ma è una soluzione? Si uccide il malato perché c’è una malattia. Perché è un grave errore, perché le condizioni possono cambiare e il fabbricato che aveva perso valore e che “serviva” solo a pagare tasse potrebbe recuperarlo. Fantascienza? No. Le dimostrazioni non mancano.


Nella foto sopra vediamo dei vecchi fienili della borgata Campofei di Castelmagno in val Grana (Cuneo).  Indipendentemente da ogni altra considerazione sull’intervento, la borgata è stata recuperata e trasformata – mediante un restauro conservativo che ne ha mantenute le caratteristiche architettoniche in un agriturismo di lusso.



Purtroppo sono spesso società straniere o comunque investitori da fuori che credono in questi recuperi. Considerato, però, che molto fabbricati minacciati di trasformazione in ruderi si trovano spesso in località di valore paesaggistico, storico, ambientale (basti pensare alla miriade di muunt che si dispiegano lungo la via del Lario, con i suoi panorami (veramente) mozzafiato sul lago). Ma quante sono le valli legate a qualche aspetto che una “sana” valorizzazione potrebbe riportare in vita comiugando rinascita agricola e un turismo non invasivo, consumistico, impattante, congestionante? E’ un vero peccato lasciare andare alla malora un enorme patrimonio che rappresenta un aspetto peculiare della realtà delle montagne e delle capmpagne italiane (altrove, anche in Europa, non vi è questa capillarità, varietà di strutture, tutte armonicamente integrate con il paesaggio). Salvando i fabbricati rurali si getterebbero le premesse per un turismo diffuso capace di porsi come attrattiva mondiale. Concludiamo con qualche numero che formisce l’idea dell’immensità di questo patrimonio storico . Novant’anni fa  vennero censite le case rurali in Italia.  Esistevano allora  3,6 milioni di case rurali, case d’abitazione non fienili, baite ecc. Il CNR intraprese allora un grande progetto di studio di queste dimore che si protrasse nel dopoguerra sino agli anni ’80. Il risultato fu una serie di monografie  “Ricerche sulle dimore rurali in Italia”, 30 volumi pubblicati dall’editore Olschki di Firenze. Un patrimonio di una ricchezza senza paragoni al mondo. Conservarlo dovrebbe essere un dovere per tutti.

Edilizia rurale: lo stato la vuole distruggere

Distruggere il patrimonio di edilizia rurale è un modo per cancellare una cultura, la memoria di un paesaggio umanizzato, per rendere impossibili “ritorni” e nuove piccole attività agricole e turistiche. Lo stato con l’Imu sui fabbricati non vuole solo fare cassa, vuole distruggere un pezzo importantissimo della cultura rurale (per non pagare una tassa pesante si scoperchiano gli edifici). Alla faccia delle convenzioni e delle leggi che tutelano il paesaggio, i valori materiali e immateriali della cultura rurale, alla faccia del registro nazionale dei paesaggi rurali. Tutte parole.  E’ ora di tornare a ribellarsi. In questo articolo, oltre a esortare ad agire sui comuni (per quanto in loro facoltà) spieghiamo anche come ottenere le esenzioni. In attesa che la vergognosa tassazione dei fabbricati rurali (come seconde case o fabbricati urbani produttivi) sia cancellata.

di Santo Spavetti

(07.06.20) Continua e accelera la scomparsa del patrimonio architettonico rurale per mancata manutenzione per l’ abbandono delle attivita’ agricole montane e l’ assoggettamento ad accatastamento e per Imu. Anche se, per l’Imu sono però molte le possibilità di esenzione, che bisogna conoscere. I ogni caso i fabbricati rurali/agricoli non si devono usare come bancomat dei comuni. E’ ridicolo e assurdo che i fabbricati rurali paghino l’ Imu come le seconde case,  come gli immobili urbani, con i quali non sono palesemente rapportabili.
Molti immobili sono abbandonati e inutilizzabili per altri scopi, per cui l’ imposizione di tasse patrimoniali Imu e Tasi  insensata in assenza di potenzialità reddituale. Ciò fa si che i cittadini abbandonino gli immobili e non eseguano piu alcuna manutenzione conservativa agli stessi, abbandonando anche la coltivazione dei fondi agricoli, lasciando crollare i fabbricati rurali agricoli per non pagare più queste tasse. Queste piccole realtà agricole sono importanti anche, specie in montagna, per la manutenzione idrogeologica del territorio e la conservazione del paesaggio. 
La mancata tutela del patrimonio immobiliare rurale va in direzione opposta alla legge 24/12/2003 n° 378: Disposizioni per la tutela e la valorizzazione dell’ architettura rurale (G.u. n 13 del 17/01/2004) che, all’ art. 1. recita: La presente legge ha lo scopo di valorizzare le tipologie di architettura rurale, quali insediamenti agricoli, edifici o fabbricati rurali, presenti sul territorio nazionale, realizzati tra il XIII e il XIX sec. che costituiscono testimonianza dell’ economia rurale tradizionale.  Cancellando per sempre, con una fiscalità insensta, manufatti di pregio ambientale, storico e architettonico si perde per sempre quello che le leggi dovrebbero tutelare.
Sarebbe doveroso esentare dalla patrimoniale i cittadini almeno per i fabbricati legate a forme di piccola produzione agricola, non inquadrata come attività principale professionale (quindi senza codici Ateco e altre formalità). I contadini di montagna vendono i loro prodotti allo stesso prezzo sia che si trovino in località dove l’aliquota Imu è elevata che in altre, dove è tenuta al minimo. Si crea così una pesante ingiustizia e non si comprende perché, per evitarla,  i fabbricati rurali non abbiano avuta assegnata una propria categoria catastale, equa e una base imponibile omogenea. Si consideri anche che molti cittadini/contribuenti hanno ereditato immobili da nonni e genitori coltivatori diretti, immobili utilizzabili solo nell’ambito dell’attività agricola, privi di qualunque potenzialità residenziale e turistica e privi di reddito sia all’attualità che in prospettiva, spesso, oltretutto, non vendibili o affittabili, in quanto non hanno un valore di mercato, perché in zone periferiche montane in cui non sono attuabili altri usi rispetto a quello agricolo. I proprietari di tali immobili, spesso giovani in cerca di occupazione, senza lavoro/incapienti, dovrebbero pagare migliaia di euro di Imu,dove dovrebbero trovare i fondi ? Lo vorrei proprio sapere.  Si tratta di una tassa patrimoniale… sui poveri.
 
Per fortuna alcuni comuni si limitano a chiedere di svolgere lavori socialmente utili. Ma le attuali norme stabiliscono l’esenzione solo per immobili con almeno 3.000 mq di terreno, se in comune montano, 10.000 mq negli altri, case previo domanda di ruralità all’ Agenzia delle entrate. Ma un cittadino che vuole mantenere le tradizioni locali e famigliari e il territorio, conservando gli antichi immobili rurali, deve essere lasciato in pace non gabellato. Sono i comuni che devono risparmiare, ma spesso e volentieri questi comuni gabellatori non fanno economia in aiole fiorite, addobbi natalizi, pavimentazione di strade e parcheggi in porfido, ecc. Cose velleitarie, non necessarie. E’ ora di finirla con questo pressapochismo impositivo iniquo che causa l’abbandono e la riduzione a ruderi pericolanti, con danno ambientale e al patrimonio storico. Lo stato è comunque il primo responsabile di questo disastro paesaggistico. Le stalle rurali non si possono classificare C/6 – come le autorimesse – e pagare Imu uguale. I fienili rurali non si possono classificare C/2 – come i magazzini urbani –  e pagare Imu uguale.
Per salvaguardare i fabbricati tipici e il paesaggio si invitano i comuni a deliberare l’equiparazione di tutti i fabbricati rurali alpini agricoli a quelli strumentali e a detassare tutti i rurali ancora agricoli (ancorché solo di fatto), in modo da evitare che fabbricati storici centenari in pietra/legno, siano abbandonati. Andrebbe inoltre favorito il riuso, incentivando piccoli allevamenti e altre attività agricole. 
I comuni, in attesa che lo stato modifichi le norme, possono però ridurre l’aliquota base di quelli tassabili con Imu, dello 0,3, portandola allo 0,46, come fatto dai comuni di Grosio (So) (scarica il PDF con la delibera) e di Edolo (Bs) (scarica il PDF con la delibera). Tale imposta minima, prevista dallo stato, è opportuno restituirla ai proprietari per opere di manutenzione e conservazione degli immobili r a salvaguardia del paesaggio (che con i ruderi non migliora di certo).
Andate quindi nei vostri comuni e chiedete di abbassare al minimo l’Imu sui fabbricati rurali. Per rimediare, in tempi rapidi, alla situazione attuale basterebbe in ogni caso che si aggiungesse, per tutti i comuni, una classe aggiuntiva a quelle esistenti C/2 R e C/6 R, con tariffa d’estimo equa. 
Molti fabbricati possono essere accatastati come rurali,  strumentali all’attività agricola, nel caso posseggano i requisiti di ruralità, ai sensi dell’art. 9 del decreto legge 30 dicembre 1993, n. 557, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 1994, n. 133, e successive modificazioni. Non serve essere imprenditori agricoli per quelli non abitativi.
Ai fini del riconoscimento della ruralità degli immobili, ai soli fini fiscali, i fabbricati o porzioni di fabbricati devono soddisfare congiuntamente le caratteristiche di cui all’art. 9, comma 3, d. l. 557/93 così come convertito e successivamente modificato ed integrato. In particolare il terreno cui il fabbricato è asservito deve avere superficie non inferiore a 10.000 mq ed essere censito al catasto terreni con attribuzione di reddito agrario. Qualora sul terreno siano praticate colture specializzate in serra o la funghicoltura o altra coltura intensiva, ovvero il terreno è ubicato in comune considerato montano ai sensi dell’articolo 1, comma 3, della legge 31 gennaio 1994, n. 97, il suddetto limite viene ridotto a 3.000 metri quadrati; pertanto si ritiene che anche chi non è Iap se la superficie dei terreni  (anche in affitto) è conforme al dl 557/93, può chiedere la ruralità dell’ immobile rural-agricolo con le conseguenti esenzioni/riduzioni Imu. 
Il fabbricato qui sopra è esente perché di altezza inferiore a 1,8 m e di superficie inferiore a 9 mq. Anche un casotto per gli attrezzi agricoli in campagna finisce comunque nelle mire del fisco rapace

Per i fabbricati rural-agricoli pertanto, in sede di accatastamento all’ urbano, chiedete al vostro tecnico, se ci sono le caratteristiche di cui all’art. 9, comma 3, d. l. 557/93 così come convertito e successivamente modificato ed integrato, di richiedere la sussistenza del requisito di ruralità per i fabbricati rurali strumentali all’ esercizio dell’ attivita’ agricola (art.2, comma 6, decreto del M.e.f. 26/7/2012), anche se non siete imprenditori agricoli professionali (Iap). Qualora l’ immobile sia stato accatastato senza richiedere la ruralità, la sussistenza dei requisiti di ruralità all’ agenzia delle entrate/territorio, può essere richiesta successivamente presentando i moduli di richiesta all’agenzia delle entrate.  Il requisito soggettivo in capo al possessore o all’utilizzatore della costruzione stessa (ad esempio, il possesso della qualifica di imprenditore agricolo, l’iscrizione al registro delle imprese o la prevalenza del volume d’affari derivante da attività agricola nella formazione del reddito complessivo) vale solo per i fabbricati ad uso abitativo (per ulteriori chiarimenti scarica il Pdf con utili appunti sulla normativa).

Lessinia: montagna da lupi?



Dal 2014, in Lessinia, il problema dei lupi e del loro impatto sulle attività umane è diventato oggetto di ampio e acceso dibattito fra montanari e cittadini. Questo articolo di Giuliano Menegazzi e Ugo Sauro fa descrive la prima fase seguita alla reintroduzione (coperta da una ridicola love story) del predatore nel parco dei Lessini. Oggi le considerazioni sarebbero più amare  e preoccupate ma resta il fatto che la reintroduzione del lupo sulle Alpi, voluta e perseguita a tutti costi per precisi interessi (il resto è fumo negli occhi gettato da una propaganda da far invidia a Goebbels), rappresenta una sfida. La montagna, di fronte allo shock del lupo, o impara a reagire, a prendere coscienza anche di altre imposizioni (come l’adozione di sistemi agricoli intensivi copiati dalla pianura e di una cultura consumista e individualista), a lottare a 360° per la sua cultura, il suo ambiente, il suo paesaggio, la sua biodiversità, o soccomberà al progetto neoliberale mascherato da ambientalismo (ma in perfetto stile nazista) di spopolamento forzato.
 

di Giuliano Menegazzi e Ugo Sauro

Giuliano Menegazzi, di Erbezzo, nato nel 1975 è un tecnico agricolo, appartiene a una famiglia di allevatori, è stato consigliere comunale sino al 2019, ha coordinato la richiesta (approvata) di iscrizione della Lessinia nel registro dei paesaggi storici rurali. Segue l’associazione per la tutela a ela valorizzazione della pecora brogna.Ugo Sauro, nato nel 1943 originario della Lessina veronese è stato professore di Geografia Fisica presso il corso di studio di Scienze della Natura dell’Università degli Studi di Padova. La sua attività si è orientata alla geomorfologia e all’analisi del paesaggio. Oltre a numerose pubblicazioni scientifiche ha pubblicato diverse opere monografiche, in particolare sulla Lessinia riguardanti anche gli aspetti antropici del territorio.  È direttore del «Quaderno Culturale – La Lessinia ieri oggi domani».

(11.05.20) Nel 2012 con la ricomparsa in Lessinia del superpredatore per eccellenza, il lupo (Canis lupus), ha avuto inizio una nuova stimolante avventura che è ancora in corso e che lascia molti con il “fiato sospeso”. Il monitoraggio di questi carnivori ha dimostrato che la prima coppia, formata da un maschio di origine slovena denominato Slavc e da una femmina italiana, proveniente dalla Alpi Occidentali, denominata Giulietta, si era già stanziata nel 2012. Nel 2013 la coppia ha avuto due piccoli. Nel 2014 sono nati altri sette cuccioli, facendo assumere a questa popolazione animale la dimensione di un branco di 11 individui (Castagna, Parricelli, 2014), da cui si sono staccati i primi due nati, ormai adulti. Nel medesimo anno si è verificato un notevole incremento delle predazioni, con oltre 64 fra capi di erbivori domestici (per lo più vitelli, manze e asini) e cani predati vivi sull’altopiano (considerando anche la parte trentina degli alti Lessini). A questo numero vanno aggiunte alcune predazioni non segnalate o non riconosciute ufficialmente. Il 20 settembre 2014 il wwf ha promosso, in collaborazione con il Comune ospitante di Bosco Chiesanuova, un simposio dal titolo: Il lupo è tornato in Lessinia, c’è chi se ne rallegra perché arricchisce la fauna del Parco, ma gli allevatori di bestiame e gli albergatori sono in allarme, parliamone insieme, il quale ha coinvolto esperti di fauna, politici, protezionisti, montanari, e cittadini, e che ha suscitato un acceso dibattito. I giornali locali e nazionali hanno pubblicato molti articoli relativi agli avvistamenti, alle predazioni e alla polemica in corso sul lupo, che hanno trovato ampio spazio anche su internet.

Non sono molte le notizie sulla passata presenza del lupo sui nostri monti. Attilio Benetti, memoria storica della Lessinia, è l’unico che ne ha parlato estesamente in varie pubblicazioni, ove evidenzia il senso di paura che i lupi esercitavano nei nostri vecchi e racconta alcuni episodi in cui i lupi sbranarono delle persone, soprattutto giovani donne, e numerosi altri in cui attaccarono degli uomini e in qualche caso li ferirono. Alcuni di questi fatti sono confermati da stele in pietra, erette sui luoghi della predazione, come quella della “pora Mada” (la povera Maddalena) nei pressi di contrada Valle di Camposilvano. Questi eventi stimolarono una caccia al lupo che portò alla sua estinzione nel corso del XIX secolo.

Un monumento al lupo

Nel giro di soli due anni il lupo ha saputo risvegliare i montanari della Lessinia dal loro torpore. Infatti, da qualche decennio gli abitanti della montagna stanno attraversando una crisi culturale e identitaria, espressione di una disarmonia tra l’uomo e la natura che si è andata approfondendo e che ha dei riflessi anche all’interno delle comunità locali. Le motivazioni di questa crisi sono molteplici, ma si possono ricondurre fondamentalmente alle due cause principali: – declino delle comunità contradali e con queste della cultura montanara tradizionale,– esproprio delle risorse delle montagna da parte dei poteri e meccanismi della globalizzazione. Sulla prima causa ha scritto, tra gli altri, don Alberto Benedetti (1987), il quale sottolineava come nel passato la forza dei montanari risiedesse proprio nell’armonia che regolava le relazioni delle comunità di più famiglie che abitavano nelle singole contrade e anche in gruppi di contrade vicine. Relativamente alla seconda causa, Eugenio Turri già nel 2002 si è così espresso: Il fatto decisivo tuttavia è che ormai anche la Lessinia si trova sempre più agganciata ai meccanismi propri della megalopoli: un organismo che usa, riusa, rinnova e abbandona lo spazio, lo degrada e lo mortifica incessantemente. Sembra finita l’epoca della montagna mitizzata, mondo autonomo, culturalmente diversificato… Così la megalopoli distrugge miti, integra spazi, divorandoli o rifiutandoli… (Turri, 2002).

Le conseguenze dell’involuzione delle comunità locali sono state da un lato lo spaesamento e disamoramento dei montanari nei confronti delle loro terre, con le quali la relazione non è più così vitale com’era in passato, e dall’altro le ricadute ambientali di uno sviluppo di tipo industriale stimolato dai processi della globalizzazione. In particolare, quello che era un paesaggio solare e armonioso si è andato deteriorando in seguito all’impatto di attività poco sostenibili per ambienti come il nostro, tra cui allevamenti intensivi di bovini e suini di grandi dimensioni. Per i primi si è poi scelto in molti casi e su sollecitazione di esperti del settore, di privilegiare l’allevamento di razze ad alta produzione di latte, le quali richiedono l’“importazione” di grandi quantità di sostanza organica sotto forma di mangimi e foraggi. Ne è conseguito un considerevole aumento della produzione di letame e liquami e quindi l’iperconcimazione e la nitrificazione dei suoli utilizzati dagli allevamenti più intensivi. I prati da sfalcio e i pascoli estivi che ospitavano una moltitudine di specie di piante erbacee e di fiori multicolori sono stati, per la maggior parte, colonizzati da poche specie adatte ai suoli ipertrofici, come il tarassaco e le ortiche. Mentre la biodiversità delle aree aperte si andava riducendo, il bosco ha continuato ad espandersi trasformando quello che era un paesaggio dalle ampie panoramiche, in uno scenario che tende a chiudersi sempre più. Inoltre, la trama delle opere dell’uomo, che documenta la lunga storia della colonizzazione esprimendo la messa in pratica di una cultura profondamente rispettosa dell’ambiente, si è andata progressivamente “sbiadendo”, in parte mascherata dal bosco, in parte degradata dal tempo. La comparsa del lupo ha fatto rivivere in giovani e meno giovani la relazione atavica con questo animale, risvegliando l’attenzione per il patrimonio ambientale e culturale tramandato dagli antenati. Di fronte all’interrogativo se sia preferibile lasciare al lupo la montagna oppure rivendicarla per gli uomini che vi abitano da secoli, se non da millenni, i montanari hanno reagito con forza. In passato, infatti, il lupo era percepito come il principale antagonista naturale dell’uomo, tanto che gli abitanti delle zone rurali sono sempre stati uniti nel combatterlo. Se il processo di presa di coscienza del possibile ruolo dei montanari nei confronti del territorio e delle sue risorse, che questo incontro-scontro sta suscitando, si tradurrà in scelte maggiormente consapevoli e responsabili di sviluppo, dovremo poi innalzare un monumento al lupo come co-attore e stimolatore dell’avventura lessinica dei tempi della globalizzazione.

Il lupo visto dai cittadini e dai montanari

Il dibattito sul lupo oggi in corso risente dei diversi modi di percepire la natura, in particolare quella montana, che hanno coloro che vivono negli ambienti prevalentemente artificiali delle zone urbanizzate, rispetto a quelli che invece vivono negli ambienti seminaturali marginali. I “cittadini” in genere non hanno un’esperienza diretta delle dinamiche di un ambiente seminaturale, come hanno invece i montanari, e spesso percepiscono come fatto positivo tutto quanto tende a riportare tali ambienti verso una natura primaria. Così, l’espansione del bosco viene ritenuta una riconquista da parte della natura di quanto le apparteneva di diritto e, analogamente, la ricomparsa degli orsi e dei lupi come un auspicabile “ritorno alla foresta” di specie animali significative; i montanari sono spesso visti come degli intrusi che hanno violentato ambienti naturali di grande pregio. A uno di noi autori, che svolge attività di divulgazione sui propri monti (US), è capitato spesso di sentirsi chiedere
perché non si procede a piantare i faggi nell’area degli alti pascoli, ripristinando così la foresta primaria, senza però che gli interlocutori si rendessero minimamente conto di tutto ciò che un intervento del genere comporterebbe. Analogamente, i lupi e gli orsi sono ritenuti dei protagonisti di diritto, meritevoli della massima protezione, ancor più della gente che abita la montagna. In definitiva, molti cittadini vorrebbero poter espropriare la montagna ai montanari. In occasione del convegno promosso dal WWF, Associazione benemerita per aver stimolato il dibattito, cui entrambi gli autori hanno partecipato, uno dei due (Ugo Sauro) di origine montanara, ma che ha vissuto gran parte della sua vita in città, si è posto il problema
della presenza del lupo ed è intervenuto presentando le sue conclusioni che si trovano nell’allegato 1. In seguito, l’altro autore (Giuliano Menegazzi) segnalava al precedente, sia una sua lettera inviata al giornale L’Arena (all. 2), sia un documento reperibile in rete firmato da 34 studiosi francesi, sempre relativo al lupo (riportato nella sua traduzione italiana nell’allegato 3). Interessante è notare come tutti questi documenti, pur partendo da punti di vista diversi, siano sostanzialmente concordanti nelle conclusioni che potremmo così riassumere: 1) l’uomo che vive in montagna è il testimone di tradizioni millenarie e il tutore di un ambiente e di un paesaggio rurale che è frutto di una lunga storia e va quindi salvaguardato più di quanto debba essere protetto il lupo; 2) la gestione del recente “problema lupo” è stata sino a oggi inadeguata e in prospettiva va ripensata profondamente, in quanto finisce con il danneggiare gli abitanti delle aree marginali, mettendo a rischio la sopravvivenza di attività tradizionali come la pastorizia e l’allevamento, che hanno una valenza sia culturale, sia ambientale, anche per gli stessi cittadini; 3) il fatto che nel corso dello sviluppo ormai millenario
delle comunità alpine, nessuna di queste abbia scelto volontariamente di convivere con i lupi, dimostra quanto velleitaria, irrispettosa e antidemocratica sia l’imposizione legislativa dei politici e dei cosiddetti “animalisti” che, come risulta anche dall’esame del Progetto Life Wolf Alps e dalle misure protezionistiche messe in atto, sembra pianificata per costringere le comunità della montagna a convivere con i grandi predatori, e ciò senza che i diretti interessati siano stati preventivamente coinvolti nella “progettazione” del loro futuro.

Allevamento e predazioni in Lessinia

La prima notizia sull’arrivo del Lupo in Lessinia, è stata diffusa nel febbraio del 2012 sul quotidiano L’Arena di Verona. Gli allevatori hanno dapprima reagito con diffidenza ritenendo il fatto poco credibile. Non si sono quindi preoccupati più di tanto sulle possibili conseguenze che tale predatore avrebbe potuto arrecare agli animali al pascolo. Tuttavia, già nel primo anno di presenza si sono registrate alcune predazioni su animali domestici, anche se i numeri esigui degli attacchi non hanno creato allarmismo, ma solo confermato la presenza del lupo. Col passare del tempo, alcuni allevatori hanno iniziato a manifestare timori sulle conseguenze di questa ricomparsa, ma l’atmosfera di entusiasmo alimentata dagli esperti contribuiva a farli tacere. I lupi della Lessinia, esempio di una montagna in salute, titolava, nel giugno 2013, l’articolo del giornale L’Arena in occasione della 48a Assemblea dell’Unione nazionale cacciatori – zona Alpi, a Bosco Chiesanuova. Nonostante al convegno fossero presenti anche alcuni esperti nazionali del nuovo predatore, nessun allarme fu sollevato sulle eventuali nricadute negative sull’allevamento o su possibili interventi preventivi.
Gli allevatori non dovettero aspettare molto per capire cosa significava per gli animali portati all’alpeggio la presenza di questo grande predatore. Solo nell’estate 2013 dovettero presentare 24 richieste di sopraluogo per presunte predazioni da lupo a carico di animali al pascolo (12 nella Lessinia Veronese, e 12 in quella Trentina) (Castagna, Paricelli, 2014); inoltre alcune vacche risultarono disperse. A fine 2013, stanchi dell’immobilità degli enti locali e regionali, diversi allevatori e proprietari di malghe della Lessinia iniziarono ad attivarsi, per cercare soluzioni al problema che altri dimostravano di volere ignorare. Una lettera firmata da 300 allevatori e proprietari fu quindi spedita a 31 istituzioni, nessuna delle quali ha risposto. Nel documento si levava un grido di allarme per la “Lessinia che va scomparendo”. In seguito a una riunione tenutasi a Campofontana, un gruppo di allevatori e proprietari, oltre che uno degli autori (Giuliano Menegazzi), coordinati dall’allevatore Modesto Gugole, richiedevano che la Comunità Montana e il Parco convocassero con urgenza una riunione in cui si dibattesse il problema dei Lupi; purtroppo, anche tale richiesta non fu accolta.
Di fronte all’immobilità delle istituzioni, in virtù anche di altre criticità del nostro territorio mai affrontate, allevatori e proprietari si costituirono in associazione col nome: “Associazione Tutela della Lessinia”, ponendosi, tra gli altri, i seguenti obbiettivi: a) proporre e promuovere progetti che abbiano come fine la tutela del territorio e delle attività presenti nel territorio della Lessinia; b) divulgare la conoscenza delle peculiarità del territorio montano e delle attività presenti; c) sviluppare, tramite il confronto ed esperienze mirate, il senso critico e di conoscenza delle problematicità del territorio montano; d) promuovere il dialogo tra soci; e) promuovere e organizzare, anche in collaborazione con gli enti pubblici e/o privati, iniziative (convegni, escursioni, manifestazioni sportive, nonché iniziative di solidarietà sosocialmente rilevanti, ecc.); f ) difendere tramite manifestazioni, iniziative, convegni, progetti e proposte l’ambito della Lessinia da decisioni pubbliche/private che possano creare danno al territorio e/o alle attività presenti in Lessinia. Gli allevatori hanno capito che devono tornare a essere i principali protagonisti dello sviluppo del loro territorio. Da parte loro, i proprietari delle malghe sono di fronte alla sfida di individuare nuove modalità di gestione delle proprietà. Anche altri abitanti della Lessinia si sono espressi con favore sulla nascita e finalità dell’Associazione. Si sono quindi organizzati incontri in tutti i capoluoghi dei comuni della Lessinia montana per favorire il dibattito tra la gente. È stata spedita una seconda lettera al Presidente e alla Giunta della Comunità Montana della Lessinia con la richiesta di venire convocati a incontri istituzionali aventi per tema il Lupo; richiesta che non è stata mai esaudita.

Si sono organizzati alcuni incontri con i responsabili del Progetto Life Wolf Alps per capire cosa si stava progettando per salvaguardare gli animali e gli allevamenti della Lessinia In occasione del già citato simposio promosso dal wwf, i due giovani agricoltori Laura Giacopuzzi e Daniele Massella, rappresentanti dell’Associazione Tutela della Lessinia, sono intervenuti sulle criticità del progetto.
Su proposta di uno degli autori (GM), l’Associazione internazionale Amamont ha poi organizzato, l’8 novembre 2014, un incontro ad Erbezzo, con ospiti giunti da varie regioni italiane e dalla Svizzera in cui relazioni di docenti di varie università hanno stimolato un dibattito sui problemi della montagna.
Si è preso coscienza del fatto che i montanari non devono più limitarsi a guardare passivamente all’abbandono della montagna, ma, con grande orgoglio per la propria eredità culturale, tornare a essere parte attiva del loro sviluppo futuro.
Nel passato anche in Lessinia sono stati fatti molti errori, non si sono mai trovate soluzioni all’abbandono delle contrade e al consumo del suolo. Sono state sviluppate tipologie di allevamento non sostenibili per i nostri territori, mentre gli allevatori più tradizionalisti nelle metodologie di lavoro sono stati nel tempo relegati a semplici comparse. Si è riconosciuto quanto sia problematico gestire il territorio e far reddito in montagna allevando razze di vacche da latte iper-produttive, come la Frisona Italiana, non adatte al pascolamento su terreni difficoltosi. Si è anche ribadito come all’allevatore di montagna debba essere riconosciuto un servizio a favore della tutela ambientale. Complice la crisi economica e sociale attuale, si sta assistendo a un ritorno al lavoro agricolo e di conseguenza a scelte consapevoli di abitare in aree rurali marginali; scelte che, se favorite e ben guidate, potranno salvaguardare e valorizzare la montagna. Per farlo serve una maggiore autonomia gestionale e soprattutto una maggiore auto-consapevolezza da parte degli abitanti, perché, come è stato detto durante il convegno, “la qualità della vita in montagna è unica ed invidiabile”. Ribadiamo, quindi, che la Lessinia non è una montagna da lupi, e cioè che non è proponibile il progetto di fare convivere i grandi predatori con gli abitanti di un territorio intensamente antropizzato e con un così ricco patrimonio paesaggistico e culturale. Altre aree di grande estensione, abbandonate dall’uomo e conquistate dalla foresta potranno essere certamente gestite come parchi faunistici, in cui i grandi predatori potranno trovare ambienti favorevoli.

Per una rinascita della montagna

Quei cittadini che frequentano e si documentano sulla montagna, interloquendo con gli abitanti, finiscono con il rendersi conto di come questi ambienti e paesaggi semi-naturali abbiano una valenza culturale inestimabile anche da un punto di vista educativo-didattico, certamente diversa e difficilmente comparabile con quella degli ambienti naturali primari, ma, nell’insieme, in grado di trasmettere molto di più alle nuove generazioni (Sauro, 2010Sauro et al., 2013). Infatti, queste possono essere introdotte, attraverso esperienze dirette, alla storia del rapporto uomo-ambiente e alla scoperta di innumerevoli avventure umane del passato, fornendo ai giovani le basi culturali per progettare un futuro che, senza replicare il passato, sia espressione del ristabilimento di una relazione armoniosa tra l’uomo e la natura. In questo senso, la Lessinia può diventare uno straordinario laboratorio culturale e colturale, di cui è opportuno tornino a essere principali protagonisti gli stessi montanari, coadiuvati, tuttavia, da istituzioni e cittadini in grado di stimolare la maturazione e l’attuazione di progetti e sperimentazioni. In altre parole, i montanari non devono essere abbandonati a se stessi ma aiutati a gestire le risorse della montagna con modalità tradizionali ma anche innovative, favorendo l’integrazione di queste con forme di turismo culturale diversificate. Questo tipo di collaborazione si impone in quanto la montagna è diventata più che mai risorsa per la città, dove i cittadini trovano spazi per attività ricreativo-culturali negli ampi territori rurali. Allo stesso tempo bisogna prendere nuova coscienza dell’importanza di salvaguardare le attività sostenibili di allevamento, sia per garantire la cura del territorio e del paesaggio, sia per tramandare lo stile di quel vivere in “contrà” ricordato nel convegno di Erbezzo da Mons. Bruno Fasani, come momento educativo in grado di vincere l’apatia dei giovani d’oggi, derivante dalla cultura digitale. Tutto questo potrebbe essere favorito anche dall’istituzione di un Centro Culturale, affiancato al Parco, e in grado di stimolare iniziative di ricerca, di divulgazione, di sperimentazione a differenti livelli: di università, centri di ricerca, della popolazione, per categorie di lavoratori (come: operatori turistici, allevatori, agricoltori…), scolastici, per sportivi, per turisti… a vantaggio sia degli abitanti, sia dei cittadini. Potrà sembrare un progetto utopistico, ma tutto dipende dal coraggio e dallo spirito d’iniziativa dei molti che amano la montagna, a partire da chi ci vive.

Bibliografia

(1) Sauro U., 2010 – Lessinia: montagna teatro e montagna laboratorio. Cierre Ed., Sommacampagna (Vr), 276 pp.

(2) Sauro U., Migliavacca M., Pavan V., Saggioro F., & Azzetti D. (a cura di), 2013 – Tracce di antichi pastori negli alti Lessini. Alla scoperta di segni di avventure umane nel paesaggio. Bussinelli Editore, Verona, 368 pp.[su questa pregevole opera il cui valore va al di là dell’interesse locale. per portare contributi alla cultura alpina in generale,  si può scaricare il PDF della comunicazione di Ugo Sauro: Le ricerche sui pastori negli Alti Lessini: bilancio e prospettive in Atti della Tavola Rotonda / BOSCO CHIESANUOVA (VR) – 26, 27 OTTOBRE 2013)