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Lacrime (di coccodrillo) sulla montagna

 

Pubblichiamo un’altra amara lettera di denuncia dell’ipocrisia dominante da parte di una donna di montagna. Sul solco di quelle di Anna Arneodo (val Grana, Cuneo) e delle valdostane Elfrida Roullet e Enrica Cretaz. Lo spunto questa volta non è rappresentato dalla crisi degli allevamenti, dalla proliferazione dei lupi, dai prezzi infimi dei prodotti agricoli, da una burocrazia e da un sistema regolativo sempre più soffocanti, ma dal disastro ambientale che, in occasione dell’ultima ondata di maltempo dei primi di novembre, ha colpito la montagna veneta e trentina.

In una trama dolente (ma tutt’altro che piagnucolosa) che accomuna le Alpi, la denuncia delle “lacrime di coccodrillo” versate dalle istituzioni, dai media, in occasione dell’ultimo “disastro naturale” (!?) arriva dalla montagna lombarda, fortunatamente poco colpita dai recenti eventi. Anna Carissoni, consapevole che le cause della “morte della montagna” sono comuni a tutte le Alpi e che, in coincidenza con situazioni meteo avverse ovunque possono verificarsi i disastri di questi giorni, trae spunto dalle parole amare di un suo amico che risiede in un paesino trentino per sottolineare come la “morte” è causata dalla desertificazione umana, che è tutto tranne che un “fenomeno naturale”.

Tale “morte” è diretta conseguenza di scelte politiche dell’élite europea a favore del liberismo e della globalizzazione, scelte che l’ambientalismo di comodo si preoccupa di mascherare con la foglia di fico delle politiche di rewilding, di diffusione dei grandi predatori, di parchizzazione. Tutte mirate a mascherare lo sfruttamento senza scrupoli delle risorse della montagna e a favorire l’abbandono delle attività tradizionali.  “Ci uccidete senza sporcarvi le mani” diceva Anna Arneodo. E la Carissoni rincara la dose. Le donne di montagna  non fanno sconti all’ipocrisia dominante. Inutile contarla su: né i lupi né gli sciatori, né i burocrati dei parchi, né gli immobiliaristi (ma nemmeno l’agroindustria trapiantata nelle valli che drena le risorse che dovrebbero andare ai contadini) curano la montagna. La politica, che – senza eccezioni – tutela gli interessi forti e pesca voti nelle aree urbane, si astenga quantomeno dalla demagogia “pro montibus”.

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di Anna Carissoni

(10.11.18) Non so a voi, ma a me tutti questi pianti a disastri avvenuti cominciano a sembrare lacrime di coccodrillo.

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Ovvio che c’è solo da piangere perché si rimane senza parole di fronte a tanta distruzione, alle foreste atterrate, alle strade inghiottite, ai tralicci ripiegati su se stessi, agli argini che si sbriciolano, ai versanti delle montagne che vengono giù. Ma prima di dire che “le montagne venete e trentine sono morte il 29 ottobre”, come qualcuno ha detto e ripetuto, bisognerebbe dire che quelle montagne, come tante altre del nostro Paese, avevano cominciato a morire molto tempo prima ed erano già morte.

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Le montagne erano già morte quando ha chiuso l’ultimo ambulatorio medico, l’ultimo dispensario farmaceutico, l’ultimo ufficio postale, l’ultimo panificio, l’ultimo negozio di barbiere manda a dire il mio amico Andrea Nicolussi Golo dalla sua baita di Luserna, paese di neanche 300 abitanti, a 1300 m. di quota, che non ha mai voluto abbandonare .Le montagne erano già morte quando i loro bambini di sei anni hanno incominciato a salire sugli autobus per andare a scuola venti chilometri più a valle e poi quaranta, con la chiusura dell’ultima scuola, la nostra più grande tragedia. Le montagne erano già morte quando l’ultimo prete ha lasciato la canonica, lo so in città il prete conta nulla, ma venite voi a dire ai nostri vecchi che devono morire senza confessione, venite a dirglielo guardandoli negli occhi che io non ne ho né la forza né il coraggio. Le montagne sono morte allora, quando sono morti i paesi.

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Poi, rivolto soprattutto ai cittadini, Andrea aggiunge:

 Il 29 ottobre si è solo un po’ rovinato il vostro luna park, per qualche tempo non potrete farvi quelle belle passeggiate tonificanti all’ombra di boschi secolari, senza chiedervi nulla della fatica di chi li ha coltivati, sì, proprio coltivati, non potrete fare quelle belle gite con le ciaspole nell’incanto dell’inverno, stendervi al sole seminudi a tremila metri di quota…. Ma non preoccupatevi, lo show andrà avanti e se non per l’otto dicembre, per Natale potrete tornare a divertirvi, tutto sarà rimesso a lucido, solo i paesi non torneranno più, i paesi continueranno a morire e noi con loro.

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Ecco, mi viene da pensare che, fatte le debite proporzioni, alle prossime alluvioni ed al prossimo tornado qualcosa di simile a quanto successo in Veneto, in Trentino e in Friuli potrebbe toccare anche a noi. Anche le nostre montagne stanno morendo, e anche qui si crede di farle resuscitare spendendo energie e risorse in feste e manifestazioni d’ogni tipo e in strutture finalizzate quasi esclusivamente ad attirare un numero sempre maggiore di turisti cittadini…. E intanto pascoli, boschi, vallette e versanti vanno in malora anche qui perché i montanari, che li hanno curati e ‘tenuti a bada’ per secoli, devono scendere a valle in cerca del lavoro e dei servizi decenti che dai nostri paesi se ne sono andati e continuano ad andarsene. Ecco, credo che quando i disastri arriveranno anche qui, all’elenco dolente delle cose che fanno morire i paesi di montagna stilato da Andrea avremo anche noi qualcosa da aggiungere: l’ultimo punto-nascite, per esempio, gli ultimi sportelli bancari,  gli ultimi negozi di prossimità…..

Prospettiva Villaggio 

Una proposta per lo sviluppo della montagna ticinese

di Tarcisio Cima

(07.05.18) Una volta si diceva che i politici si ricordano delle valli e della montagna solo in occasione delle campagne elettorali. Oggigiorno vien da dire che nemmeno più durante i periodi elettorali i politici si ricordano delle valli e della montagna. Il dibattito è costantemente monopolizzato dai temi e dai punti di vista delle aree urbane. Il concetto, falso e bugiardo, di Città-Ticino viene inculcato agli allievi di ogni ordine di scuola, dall’asilo all’USI [Università della Svizzera italiana], ed è ormai entrato a far parte del linguaggio comune. Ora l’autorevole Istituto delle ricerche economiche (IRE) vorrebbe spingere ancora più in là l’ossessione urbano-centrica predicando l’urgenza di costruire, entro il 2025, un Ticino Urbano. Fa bene il Ticino a preoccuparsi della sua componente urbana, confrontata con i tipici problemi derivanti da uno sviluppo quantitativo troppo spinto e disordinato. Fa male il Ticino a trascurare il suo vasto territorio rurale e montano. Qui ci sono potenzialità la cui liberazione, in un Ticino finalmente unito e coeso, può contribuire a risolvere anche i problemi delle aree urbane. Non solo ci sono potenzialità, bensì dinamiche positive in atto da tempo, di cui un Ticino concentrato sul proprio ombelico urbano fa fatica ad accorgersi. Potenzialità e dinamiche positive ruotano attorno al villaggio. Il villaggio inteso quale forma specifica dell’insediamento umano nel territorio. Da alcuni decenni i villaggi rurali e montani del Ticino hanno avviato una «seconda vita», molto diversa da quella tradizionale, ma non meno meritevole di essere vissuta, per il proprio bene e per il bene dell’intera comunità cantonale. Una nuova vita che chiede solo un po’ di attenzione e di riconoscimento per potersi sviluppare e crescere armoniosamente. In questo consiste la Prospettiva Villaggio.

Il villaggio nel mondo 

A livello planetario il villaggio quale  struttura  primordiale  dell’insediamento umano nel territorio è in profonda  crisi.  Le  statistiche  dell’ ONU ci dicono che da alcuni anni la popolazione  che vive in città ha ormai superato in numero la popolazione  che  vive  nelle  campagne. Le previsioni sono unanimi nel considerare che l’esodo rurale e la con- centrazione  in  agglomerati  urbani sempre  più  grandi  continueranno anche nei prossimi decenni. Divergono solo nell’indicare l’intensità e la velocità del movimento. L’umanità   sta  tuttora  vivendo  un esodo di proporzioni gigantesche – in confronto l’esodo biblico, l’esodo per antonomasia, ci appare come una tranquilla  scampagnata  domenicale – che coinvolge costantemente milioni  di persone  in  cammino verso la città, sospinte dalla speranza di trovarvi un futuro migliore (o almeno  accettabile)  per  sé  e per  i propri figli. Una speranza che spesso, almeno per sé, viene poi dolorosamente tradita. Bisogna ammettere che negli ultimi decenni si sono intensificati, a tutti i livelli e in quasi tutte le parti del mondo, gli sforzi per gestire meglio e rendere più vivibili le città e le metropoli. Le migliori menti del pianeta – architetti, geografi, ingegneri, economisti, pianificatori, sociologi, psicologi, filosofi, scienziati di ogni campo e politici – sono lodevolmente impegnati nella ricerca di soluzioni per i problemi ai quali sono confrontate le aree urbane. E i risultati positivi di questi sforzi in termini di migliore vivibilità di quelle aree cominciano a farsi vedere, credo anche nei paesi in via di sviluppo. Calamità e guerre permettendo. L’abbandono delle zone rurali è invece sempre stato vissuto, ad ogni latitudine, con grande fatalismo e rassegnazione, come qualcosa che non si può contrastare o, perfino, che non si deve contrastare perché solo nella città ci sarebbe salvezza. Questo non solo a livello dell’azione concreta e degli investimenti di risorse, ma già a livello del pensiero, della riflessione e della ricerca di soluzioni. Nei paesi in via di sviluppo ad occuparsi seriamente delle aree rurali sembra essere rimasto ormai solo un drap- pello di eroi e di santi, generosi e idealisti, tanto ammirevoli quanto impotenti nel contrastare il movimento di abbandono e di fuga incessante verso la città. Anche in India e in Cina, giganteschi labora- tori del mondo che sarà, tutto sembra essere orientato sulle aree urbane e sulla continua espansione delle megalopoli. Così, a livello planetario, mentre ci trastulliamo con l’immagine – ormai abusata e quindi vuota di senso – del «villaggio globale», il villaggio vero e concreto, il villaggio «in carne ed ossa» si svuota, deperisce e muore. Eppure a me sembra così evidente che la soluzione degli immani problemi che affliggono l’umanità intera, ma anche le aree metropolitane – dai disastri ambientali alla penuria energetica, dall’emergenza alimentare alla scarsità di acqua potabile, dalle crisi sanitarie al degrado sociale e culturale – non possa prescindere da un minimo di riequilibrio nella distribuzione della popolazione sul territorio, che a sua volta può essere raggiunto solo attraverso la promozione, la valorizzazione e lo sviluppo della vastissima realtà non urbana, attraverso un ampio movimento a ritroso, di pensiero e di azione, dalla metropoli verso la grande, la media e la piccola città, il borgo, giù fino al villaggio più sperduto.


Il villaggio in Ticino 

Alle nostre latitudini, in Ticino, il processo di urbanizzazione è già da tempo molto avanzato. Si calcola che almeno l’80 % della popolazione cantonale risiede in un contesto urbano. Anche se faccio fatica a considerare urbane, come si fa invece nelle statistiche ufficiali, zone come la Bassa Vallemaggia, le Terre di Pedemonte, la Valle di Muggio, la Capriasca e ora pure… la Valcolla. Trovo anzi che questa tendenza a gonfiare statisticamente la realtà urbana rappresenti una delle tante forme che as- sume la prevaricazione culturale della città nei confronti della realtà rurale e montana. Comunque sia, se non proprio l’80%, almeno 2/3 della popolazione ticinese risiede nelle zone urbane. Ciononostante, diversamente da quanto è successo e sta succedendo in molte parti del mondo – anche nella progredita Europa – le nostre zone rurali e montane non sono state abbandonate, complessivamente le nostre valli non sono in declino irreversibile, nessuno dei nostri villaggi, nemmeno fra quelli più discosti, è moribondo. L’agricoltura, anche se ridotta all’osso per numero di occupati, è ancora ben presente ed ha accentuato il suo ruolo nella cura del territorio e del paesaggio. Credo che in Ticino non ci rendiamo ben conto della fortuna che rappresenta il fatto di aver preservato la vitalità socioeconomica delle valli e della montagna. Ciò che costituisce invece motivo di meraviglia e di ammirazione per ogni visitatore esterno attento e perspicace.

La «seconda vita» dei nostri villaggi è già cominciata da tempo, anche se pochi se ne sono accorti 

Certo la realtà socioeconomica delle nostre valli è profondamente mutata rispetto a quella che era anche solo 50-60 anni fa. I nostri villaggi, soprattutto quelli più periferici, non sono più quelli di una volta. Probabilmente non lo saranno mai più. Una proporzione rilevante della popolazione che risiede nelle valli già da tempo lavora nelle agglomerazioni urbane. Nei villaggi più discosti anche la funzione della residenza primaria si è ridotta fino a diventare molto esigua. Ma nel frattempo le nostre valli, i nostri villaggi, non si sono lasciati andare, hanno saputo adeguarsi alla nuova realtà, hanno trovato nuove funzioni, nuovi ruoli, non meno importanti per la comunità cantonale di quelli che detenevano in precedenza. Pur fra tante difficoltà, sono ancora ben vivi e animati. Pian piano, senza clamori e senza proclami hanno avviato quella che mi piace definire una «seconda vita» e che forse dovrei chiamare, per farmi ascoltare dal Ticino che conta (e che se la tira), «a second life». Sta tutto qui laProspettiva Villaggio: dare forza e far crescere armoniosamente questa «seconda vita» già da tempo avviata nei nostri villaggi. Niente di particolarmente innovativo, bensì la prosecuzione, l’intensificazione e il miglioramento di quanto è stato fatto con tanta buona volontà e passione negli ultimi 30-40 anni. Un processo virtuoso che purtroppo da una decina di anni sta segnando il passo: grossomodo da quando un’inconsistente Nuova Politica Regionale ha preso il posto della vecchia cara LIM [ Legge federale sull’aiuto agli investimenti nelle regioni montane, in vigore sino al 2007] che si è voluto anzitempo rottamare.


Una prospettiva molto concreta 

Dal punto di vista concreto e operativo la Prospettiva Villaggio si vuole concentrare sulla rivalutazione sistematica del patrimonio costruito dei nostri villaggi. Ogni volta che mi capita di visitarne uno qualsiasi rimango impressionato dalla quantità, la varietà e il pregio del patrimonio architettonico esistente dentro e fuori il perimetro delle zone edificabili. Nel corso degli ultimi trent’anni si è investito molto, nel pubblico e nel privato, per la salvaguardia, il risanamento e il riuso di questo patrimonio, di quello religioso come di quello civile, dagli oggetti monumentali fino a quelli più umili e comuni. Diversi nuclei tradizionali sono stati risanati e rivalutati in modo esemplare. Anche nei villaggi più discosti, dove la presenza della popolazione residente permanente si è ridotta ai minimi termini, la qualità degli insediamenti (edifici, infrastrutture, spazi pubblici, viabilità) è sostanzialmente migliore rispetto a quella degli anni ’70 del secolo scorso.

Si può fare di più, con poco 

Una parte ragguardevole del patrimonio costruito tradizionale è tuttavia sottoutilizzato, inutilizzato o abbandonato e quindi a termine è minacciato di deperimento e di rovina. E questo un capitale rilevantissimo composto, ad occhio e croce, di alcune decine di migliaia di edifici, senza considerare i rustici situati fuori dalle zone edificabili. La Prospettiva Villaggio si fissa proprio su questo: il recupero, il restauro, il risanamento, la ristrutturazione di questo patrimonio che giace inutilizzato o abbandonato, mediante interventi finalizzati al riuso nelle più diverse direzioni: abitazione primaria, residenza secondaria, alloggio turistico, altre attività economiche e di servizio, pubbliche e private, ma anche per la conservazione di testimonianze storiche ed etnografiche. Il tutto mettendo al centro dell’attenzione e dell’azione la struttura-villaggio con le sue sapienti e complesse articolazioni concrete sul territorio, compresi i percorsi pedonali e i sentieri che le mettono in relazione tra di loro. Struttura-villaggio, da rivalutare e da far rivivere, non però nell’ottica nostalgica di chi vorrebbe far tornare «i bei tempi andati», spesso idealizzati, mediante improbabili operazioni di ripopolamento, bensì adeguandola costantemente alle esigenze e alle aspettative dell’oggi. Resisto alla tentazione di adottare la formula ad effetto di «Villaggio-Ticino». Sarebbe un’evidente forzatura speculare a quella insita nel concetto di «Città-Ticino». Anche perché la realtà dei villaggi ticinesi è estremamente diversificata. Si va dal villaggio montano più discosto, abitato in permanenza da pochissime persone a quello popoloso, cresciuto ai margini della città. Senza dimenticare le «ville» della Val Malvaglia e le «terre» della Val Bavona, non più abitate in permanenza ma non per questo meno vitali e preziose. Questa grande diversificazione, che certo non riguarda solo la dimensione demografica, fa anche la sua grande ricchezza. Direi quindi piuttosto di un «Ticino dei villaggi» al quale vanno riconosciute pari dignità e pari opportunità rispetto al «Ticino dei borghi e delle città».

L’obiettivo di fondo della Prospettiva Villaggio è molto semplice, quasi banale, eppure ambizioso: riuscire ad avere in tutto il Ticino villaggi ben conservati e adeguatamente ammodernati nelle strutture edilizie, meglio attrezzati nelle infrastrutture, più ricchi di testimonianze del passato, più curati, ordinati e puliti, inseriti in un territorio anch’esso salvaguardato nei suoi pregi. In due parole, avere villaggi più belli e accoglienti. Villaggi più belli e accoglienti vuol dire automaticamente villaggi più interessanti e attrattivi: per mantenervi o stabilirvi la residenza primaria, per mantenervi o avviarvi una qualsiasi attività di produzione o di servizio, per passarvi dei periodi di vacanza come residente secondario, come ospite di una struttura di accoglienza o come turista-escursionista di giornata. O anche solo per gustare un caffè sulla terrazza dell’osteria riaperta in quello che era, e che ancora è, un incantevole mulino. A Castro per esempio.


Una prospettiva corale e partecipativa 

Affinché possa essere attuata e avere un successo durevole, la Prospettiva Villaggio non può essere calata dall’alto, ma d’altra parte non può essere lasciata solo all’iniziativa spontanea che muove dal basso. Deve essere il risultato di uno sforzo corale e organizzato di tutti gli attori sociali, economici e istituzionali presenti sul territorio.
A partire dai singoli privati cittadini che vivono e agiscono nel territorio montano in qualità di residenti, primari o secondari, oppure come conduttori delle più svariate attività economiche di produzione o di servizio. Tutti questi sono chiamati ad assumere comportamenti maggiormente compatibili e coerenti con la salvaguardia del patrimonio naturale, ambientale e architettonico. Attraverso scelte che possono essere molto impegnative, come ad esempio quella di riattare un edificio esistente invece che costruirne uno nuovo occupando ulteriore terreno vergine. Ma anche attraverso comportamenti che sono alla portata di ciascuno, che possono perfino sembrare banali ma che invece sono decisivi per rendere più belli e accoglienti, quindi attrattivi, i luoghi in cui si vive, come curare l’aspetto esteriore degli edifici, tenere pulite e in ordine le loro adiacenze, mettere dei fiori alle finestre e sui balconi, coltivare gli orti. Non meno importante è il ruolo che sono chiamate a giocare le Associazioni che gestiscono attività e interventi di interesse pubblico nei più svariati campi (sociale, culturale, ricreativo, sportivo, ecc.) e che anche storicamente sono state un pilastro essenziale dello sviluppo regionale. Qui mi riferisco in particolare alle associazioni che si occupano della conservazione del patrimonio architettonico più pregiato, promuovendo le iniziative, raccogliendo i fondi necessari, gestendo i progetti fino al loro compimento. E impressionante vedere quanto è stato fatto negli ultimi 30-40 anni grazie alla loro presenza, sul patrimonio architettonico religioso come su quello civile, rispetto agli oggetti monumentali, ma anche per la conservazione delle umili quanto preziose testimonianze della civiltà contadina

Cantone e Confederazione: non solo belle parole 

Quello che ci si può aspettare da Cantone e Confederazione per l’attuazione della Prospettiva Villaggio è molto semplice. N o n l’istituzione di gruppi di lavoro e di commissioni di esperti, non l’avvio di studi che durano 15 anni prima che si batta un chiodo. Men che meno sono richiesti nuovi strumenti pianificatori, né PUC, né PEIP, né PEPP né PIN, né PUK. I Piani Regolatori comunali esistenti vanno bene e, se del caso, possono sempre essere aggiornati. Non sono necessarie nuove misure edilizie e nuove limitazioni del diritto di proprietà. Quelle che ci sono, ad esempio per la protezione dei nuclei, sono in genere adeguate, e anch’esse se necessario possono essere modificate. Altre misure edilizie dovrebbero piuttosto essere eliminate o almeno sfoltite, come ad esempio quelle, di natura vessatoria, imposte dalla Confederazione per la trasformazione dei rustici. Certo che la nuova Legge federale sulle residenze secondarie, appena approvata dalle camere federali in applicazione della scellerata iniziativa Weber [finalizzata a porre un tetto del 20% alle residenze secondarie](*), pone un enorme macigno sulla strada dellaProspettiva Villaggio. In molti casi infatti la destinazione di un edificio a residenza secondaria rimane l’unica alternativa all’abbandono e alla rovina. Confederazione e Cantone sono chiamati semplicemente ad appoggiare 1’operazione Prospettiva villaggio con adeguati finanziamenti. In primo luogo è indispensabile che dal Cantone continuino ad arrivare ai Comuni, nell’ambito del sistema di perequazione intercomunale delle risorse, i finanziamenti sufficienti affinché questi ultimi siano in grado di far fronte ai propri compiti di base e in una certa misura anche a quelli promozionali di cui si diceva. Poi, da Cantone e Confederazione sono attesi i contributi finanziari con i quali sovvenzionare generosamente, nel quadro di un vasto, articolato e ambizioso programma di interventi, gli investimenti volti alla rivalutazione del patrimonio costruito in tutte le sue sfaccettature e articolazioni, eseguiti da chi vive ed opera sul territorio, cioè i comuni e i patriziati, le associazioni, le singole società e persone private.

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Il Comune protagonista anche nella gestione

Assieme ai finanziamenti è necessario un minimo di apparato amministrativo per gestirli adeguatamente e assegnarli ai beneficiari finali. Rispetto a questo compito il Cantone dovrebbe assumere un ruolo di coordinamento e di supervisione. La gestione operativa dell’aiuto agli investimenti nell’ambito della Prospettiva Villaggiodovrebbe essere lasciata il più possibile nelle mani dei Comuni. Anche da un punto di vista più generale credo che il livello istituzionale più adeguato per svolgere compiti di promovimento (economico, turistico, culturale, ecc.) sia quello del Comune. Gli Enti regionali per lo sviluppo (ERS) e le Organizzazioni turistiche regionali (OTR) sono troppo estese sul territorio e godono di scarsa legittimazione democratica. Il Comune ha invece tutti i requisiti, se può contare su risorse finanziarie adeguate, per condurre un’azione di promovimento seria ed efficace. Nelle singole valli, a partire dalla valle di Blenio, un organismo, agile e leggero, di cooperazione tra i Comuni può essere di grande utilità.

A mo’ di conclusione 

Non mi faccio molte illusioni che la Prospettiva Villaggio venga presa sul serio dal Ticino che conta a livello politico e istituzionale. Li vedo quasi tutti in altre faccende affaccendati. Per carità, faccende importantissime e vitali per il futuro del Cantone, ma quasi tutte incentrate sui problemi, i bisogni e le prospettive del Ticino urbano. Mi voglio però illudere che queste mie riflessioni e proposte possano contribuire a diffondere, non solo tra i politici ma anche e soprattutto fra la gente comune, un p o ‘ più di attenzione stavo per dire affetto per le zone rurali e montane del Cantone e la consapevolezza del tesoro di inestimabile valore che costudiscono i nostri villaggi.

(*) Ovviamente il senso dell’iniziativa legislativa non va valutato con il metro della situazione italiana dove è stato lecito realizzare residenze secomdarie anche nella misura dell’80-90%

Le fotografìe sono dell’autore e rappresentano tutte il villaggio di Dangio. L’articolo è stato pubblicato sulla Voce di Blenio dell’aprile 2015 

I lupi sono tornati, e adesso sbranano anche gli esseri umani, ma guai a dirlo

di Robi Ronza

Lo scorso 21 settembre, mentre camminava da sola lungo una spiaggia deserta a Maroneia, nel nord della Grecia, una turista inglese è stata aggredita e sbranata da un branco di lupi. Il poco che restava di lei è stato ritrovato qualche giorno dopo. E’ accaduto insomma ciò che ormai stava purtroppo diventando probabile: ossia che in Europa il lupo, dilagando indisturbato, cominciasse ad attaccare non più solo le pecore (in Francia l’anno scorso ne ha uccise circa 6 mila) e altri animali domestici, ma anche l’uomo. In vacanza a Maroneia, la donna, Celia Hollingworth, dipendente dell’università di Bristol da poco in pensione, si era fatta portare da un taxi fino a un’ area archeologica non custodita situata a una certa distanza dal centro abitato, e da lì stava facendo ritorno a piedi al suo albergo quando il branco di lupi l’ha raggiunta e aggredita.

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Tanto forte è la “lobby” che in sede di Unione Europea vuole il ritorno incontrollato dei grandi carnivori sulle montagne e nelle campagne del nostro continente che fuori della Gran Bretagna e della Grecia la tragica notizia non ha però avuto eco alcuna. E anche in Grecia ci sono voluti diversi giorni perché le autorità locali ammettessero che la poveretta era stata vittima di lupi. La Bbc ha seguito la vicenda fino a quando ufficialmente la causa della sua morte è stata così accertata, e poi non ne ha parlato più. La vicenda è di una tragicità evidente, ma sarebbe un errore classificarla come un evento isolato e assolutamente straordinario. Fatti del genere diventeranno sempre meno isolati e sempre meno straordinari se non ci si oppone a chi progetta, con l’illegittimo sostegno dell’Unione Europea, di far uscire i grandi carnivori dalle aree di riserva ristrette e controllate in cui sussistevano, e lasciare che si diffondano in Europa ovunque possono. In Italia finora il lupo ha sbranato solo pecore e cani, ma in un caso in Toscana si è già andati vicino a una tragedia come quella accaduta in Grecia. In Trentino diverse persone sono poi state aggredite da orsi.

La prossimità tra l’uomo e i grandi carnivori non è possibile. Non solo ciò è stato chiaro sin dall’inizio della storia, come tutte le più antiche letterature confermano, ma la vittoria nello scontro con i grandi carnivori fu cruciale ai fini della sopravvivenza dell’uomo preistorico, ossia del nostro più antico antenato. E’ con quella prima vittoria che la civiltà umana inizia. In fin dei conti tutto il resto è venuto per conseguenza. C’è perciò qualcosa di oscuramente tragico nel progetto di lasciare di nuovo il passo ai grandi carnivori: un dissennato desiderio sulle cui radici culturali ci siamo già più volte soffermati (diversi interventi sul tema si possono raggiungere inserendo le parole <grandi carnivori> nel motore di ricerca interno di questo stesso sito).

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E’ ovvio che oggi il rapporto di forza è così a favore dell’uomo che comunque non può ribaltarsi in breve tempo. Proviamo però ad immaginarci che cosa, in un ambiente caratterizzato da una consistente presenza di lupi e di orsi, potrebbe accadere nel caso di un terremoto come quello che colpì nello scorso 2016 alcune aree appenniniche del centro Italia. Una circostanza cioè in cui in località isolate sconvolte da un sisma delle persone magari in stato di shock, e spesso anche ferite, restino a lungo senza riparo indifese e disorientate.

Non c’è però bisogno di pensare solo a casi estremi di questo genere per spiegare l’impossibilità della vicinanza tra uomo e grandi carnivori in un continente fittamente abitato come il nostro. Ciò che è possibile nell’Africa sub-sahariana o nel Wyoming — lo Stato degli Usa, sede del parco nazionale di Yellowstone, che ha 2 abitanti per chilometro quadro — non è immaginabile nel nostro Paese dove gli abitanti per chilometro quadro sono 201. E nemmeno nell’intera Unione Europea dove, malgrado la scarsa popolazione di diversi Paesi del nord e dell’est, nell’insieme gli abitanti per chilometro quadro sono oltre 116.

Più forte dei fatti e del buon senso è però finora l’effetto sulle grandi masse urbane dell’immagine che dei grandi carnivori dà la cultura di massa: come di simpatici bonaccioni antropomorfi nei programmi per i più piccoli, e poi di spettacolari cacciatori di bufali e gazzelle destinati per natura al sacrificio nei programmi televisivi naturalistici. A causa dell’informazione a senso unico che circola anche in questo campo, non è facile far sapere a queste masse urbane, che hanno diretta esperienza solo degli animali da compagnia, quanto oggi a rischio di estinzione non siano più i lupi e gli orsi bensì i pastori, gli allevatori e i contadini di montagna. Siccome non conviene a nessuno che l’Europa si riduca a una costellazione di aree metropolitane sopraffollate circondata da un mare di montagne e di campagne abbandonate e inabitabili, sarebbe ora di cominciare a sentire le loro ragioni; anche se sono pochi.

15 novembre 2017

Appello delle pastore. La burocrazia ci uccide

Siamo donne, siamo pastore, contadine, montanare

Siamo portatrici di una cultura e di una civiltà che lungo i millenni hanno fatto del mondo la terra dell’uomo.

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ERAVAMO GENTE LIBERA
Eravamo gente libera. Una libertà che si pagava con i sacrifici di ogni giorno: il freddo, la pioggia, la neve e il gelo, la fatica senza orari, né Pasqua né Natale …Ma poi c’era il sole, il vento sulla pelle, i belati degli agnelli, la primavera che fa crescere la vita nuova.
Ora però questa civiltà globalizzata ci toglie la libertà e ci fa morire. Da quando ogni pecora ha un marchio auricolare con un numero, siamo tutti imprigionati in un castello burocratico che ci soffoca: numero di stalla, partita IVA, codice fiscale, numero REA, codice ATECO, OTE, CAA, ARAP, ARPEA, AGEA, Refresh, PEC, modello 4, modello 7…
Sedute all’ombra di un faggio al pascolo non possiamo stare dietro a tutta questa burocrazia e dobbiamo correre continuamente negli uffici delle associazioni di categoria …Intanto a chi le lasciamo le bestie?
Firmi domande che non capisci, e paghi, paghi, paghi … Sempre con la paura di sbagliare o di dimenticare una carta, perché è più grave sbagliare un pezzo di carta che trascurare i figli e i capretti o  gli agnelli….
Curi la famiglia, la casa, il gregge, cresci capretti e agnelli, trascuri te stessa per loro e poi? Le annate che gli agnelli non si vendono facilmente devi chiedere a un commerciante la carità di prenderteli, ed è umiliante…
Una pecora a fine carriera vale 20 €. A contare le ore di lavoro, in certe stagioni non guadagniamo 50 centesimi all’ora; e non ci sono per noi né cassa integrazione, né disoccupazione né reddito di cittadinanza.
L’AGONIA DELLE PICCOLE AZIENDE
Un mestiere da poveri che deve sottostare ad una burocrazia da ricchi. Anche per le nostre associazioni di categoria noi contiamo niente e così le nostre piccole aziende non ce la fanno più ad andare avanti.
Sulla carta, però, siamo uguali! Uguali alle grosse aziende di pianura, che salgono in alpeggio con migliaia di capi ma lo fanno  solo sulla carta, con tutti i documenti burocratici in regola in modo da assicurarsi i contributi che invece sarebbero destinati alla montagna e a chi ci vive e ci lavora!

E ultimamente anche il lupo: bandiera “ecologista” di una società in decadenza, minaccia che ha trasformato la nostra vita di ogni giorno in una continua guerra di trincea: devi essere sempre di guardia, non sai mai quando arriverà e quanti animali ti ucciderà nonostante i sistemi di difesa messi in atto (cani, reti, dissuasori …).. Per poi magari sentirci dire “Ma tanto le bestie morte ve le pagano!”

Ma siamo noi, piccoli pastori e contadini che teniamo vivo un paese, una valle, un pezzo di montagna o di collina, siamo noi che facciamo fronte all’abbandono e all’inselvatichimento, noi che curiamo la biodiversità: dove mangiano le pecore si mantiene la cotica erbosa, crescono mille erbe diverse che i rovi e le cattive erbe dell’abbandono soffocherebbero, si evitano i disastri di frane e alluvioni che poi pesano anche sull’economia della pianura e della città. Siamo noi i veri operatori ecologici della società. A costo zero, anzi paghiamo per esserlo. Ma con questo sistema non possiamo continuare. É tutta una civiltà che muore assieme alle pastore e ai pastori, ai contadini, ai montanari.

E allora

CHIEDIAMO

a tutti i rappresentanti politici( che volenti o no rappresentano anche noi pastori, contadini e montanari), agli amministratori, a tutti coloro che amano la montagna di darsi da fare, intervenire, provvedere in tempi brevi, perché di politica e di burocrazia la montagna e la sua gente stanno morendo.

Sotto le firme raccolte prima del trasferimento della petizione su Firmiamo.it

Nome Cognome Firmato il           alle                   n
Giancarlo Fraticelli 19/04/17 10.02 116
Eliodoro D’Orazio 19/04/17 09.27 115
Maurizio Cerato 19/04/17 09.01 114
Alfredo Falletti 19/04/17 08.41 113
Carlo Bruzzone 19/04/17 07.32 112
Claudio Furloni 19/04/17 07.21 111
michele giura 19/04/17 07.03 110
Adelio Fazzini 19/04/17 06.11 109
Enrico Giorgi 19/04/17 06.10 108
Stefano Chellini 19/04/17 05.49 107
Antonio Augello 19/04/17 04.01 106
Domenico Modesto 19/04/17 03.57 105
Francesco Salamone 19/04/17 03.54 104
Stefano Repetto 19/04/17 02.56 103
Marco Giorgi 19/04/17 01.33 102
Sergio Rossi 19/04/17 01.31 101
Sebastiano Lombardo 19/04/17 01.04 100
Giampaolo Samaria 19/04/17 01.02 99
Sebastiano Sannitu 19/04/17 00.40 98
Antonino Foraci 19/04/17 00.19 97
Roberto Pedrocchi 18/04/17 13.02 96
Luisella De Bernardi 18/04/17 11.45 95
Salvatore Ighina 18/04/17 09.38 94
Cristina Ferrarini 18/04/17 06.50 93
Gabriella Leggio 18/04/17 04.50 92
Dino Matteodo 18/04/17 01.56 91
Samuel Audéoud 17/04/17 21.19 90
Berger Harold 17/04/17 13.45 89
Salvo Orlane 17/04/17 12.19 88
Tite Odre 17/04/17 06.48 87
Daniela Rigotti 17/04/17 01.31 86
Aste Redtroen 16/04/17 12.51 85
Nori Botta 16/04/17 12.36 84
Francesca Montalto 16/04/17 01.27 83
Massimo Garaventa 15/04/17 19.38 82
Rocco Giorgio 15/04/17 16.20 81
Sibilla Morgantini 15/04/17 15.52 80
Patrizia Pompilio 15/04/17 15.32 79
Cristina Troietto 15/04/17 15.30 78
Attilio Mottarella 15/04/17 09.40 77
Dario Confalonieri 15/04/17 05.57 76
Sara Orecchio 15/04/17 04.45 75
Elena tessari 15/04/17 04.28 74
André Baret 15/04/17 03.44 73
Andreia Nicoleta Petrescu 15/04/17 03.28 72
Lorraine Flynn 15/04/17 02.25 71
Maria Pia 15/04/17 01.57 70
Nicola Tripodi 15/04/17 01.36 69
Filippo Rindone 15/04/17 00.56 68
Gloria Castelli 14/04/17 17.40 67
Pina Sgro’ 14/04/17 15.42 66
Marina Mafrici 14/04/17 15.35 65
Jean Fantini 14/04/17 15.17 64
Silvana Fasoli 14/04/17 14.49 63
Marta Sasso 14/04/17 14.45 62
Carmela aloise 14/04/17 14.43 61
Anne Line Redtroen 14/04/17 14.07 60
Francesco Sacca’ 14/04/17 13.39 59
Gessica Peretti 14/04/17 13.23 58
Alessio Nisticò 14/04/17 12.21 57
Paola Tirozzio 14/04/17 12.03 56
Greta Facciotti 14/04/17 11.36 55
Agata Soldo 14/04/17 11.33 54
Manuela Angelino Giorzet 14/04/17 10.56 53
Ferdinando Scolari 14/04/17 10.48 52
Francesca Locci 14/04/17 10.08 51
Maristella Forcella 14/04/17 10.06 50
Mario Petrini 14/04/17 09.30 49
Anna Kauber 14/04/17 09.23 48
Serena Badalassi 14/04/17 09.10 47
Marco Leonardi 14/04/17 08.00 46
Luca Battaglini 14/04/17 07.10 45
Maria grazia Pocaterra 14/04/17 06.41 44
Elisabetta Pugliaro 14/04/17 05.23 43
Nora Kravis 14/04/17 04.54 42
Virginia Gazzolo 14/04/17 03.17 41
Clara Chiappinelli 14/04/17 03.11 40
Camillo Brunet 14/04/17 02.17 39
Anna Arneodo 14/04/17 01.59 38
Alessia Farina 14/04/17 01.17 37
Livia Olivelli 14/04/17 00.24 36
Arianna Macchi 13/04/17 23.52 35
Katia Gastaldi 13/04/17 23.51 34
Caterina bernardi 13/04/17 23.37 33
Paola Bartoli 13/04/17 23.30 32
Marina Gastaldi 13/04/17 20.33 31
Nadia Friziero 13/04/17 18.39 30
Clelia Collé 13/04/17 17.01 29
Amanda Della Moretta 13/04/17 16.42 28
Samantha Repetto 13/04/17 15.15 27
Silvana Peyrache 13/04/17 15.08 26
Michela Cardillo Ottaviano 13/04/17 14.49 25
Gloria Degioanni 13/04/17 14.46 24
Massimo Monteverde 13/04/17 14.36 23
Lucy Lancerotto 13/04/17 14.33 22
Silvana Peyrache 13/04/17 14.25 21
Alberto Fatticcioni 13/04/17 14.20 20
Cristina Pedroncelli 13/04/17 14.11 19
Lidia Sussetto 13/04/17 14.07 18
Marina Lombardi 13/04/17 13.52 17
Cesare Legnani 13/04/17 13.35 16
Chiara Cannizzo 13/04/17 13.16 15
Daniela Bonnet 13/04/17 13.11 14
Cristina Boggiatto 13/04/17 13.05 13
Licia Rotondi 13/04/17 13.04 12
Gloria Pisotti 13/04/17 13.00 11
Marzia Verona 13/04/17 12.50 10
Sergio Chiarini 13/04/17 12.47 9
Andrea Astori 13/04/17 12.30 8
Elena Rodigari 13/04/17 10.45 7
Lauretta Gullì 13/04/17 10.42 6
Dino Mazzini 13/04/17 10.25 5
Giulia Simonetto 13/04/17 10.10 4
laura multari 13/04/17 09.48 3
Francesco Volpini 13/04/17 07.22 2
Gianna Grugliotti 13/04/17 04.48 1

Asimmetrie alpine e determinismo ambientale

di Mariano Allocco

Vivere le Alpi sul versante italiano e su quello estero presenta differenze sostanziali.

Da noi, specialmente in Piemonte, è evidente l’emergere di un conflitto tra Piè e Monte, altrove questo non succede e le vicissitudini TAV in val Susa e la “questione lupo” sono due esempi sui quali riflettere.

Cosa sta capitando qui?

Dalla pianura si pone al centro delle politiche montane l’ambiente, mentre dal monte si chiede che la centralità sia riportata sull’uomo che questo ambiente vive, questione non da poco.

Perché questa differenza di paradigma in Italia? Quale è la differenza tra i due versanti?

Se tracciassimo una sezione perpendicolare alle Alpi, vedremmo che il pendio in pochi chilometri in Italia precipita in pianura, in Francia, in Svizzera e altrove invece non c’è separazione netta tra grande pianura e montagna, le città sono lontane, le Alpi se la prendono comoda e la pianura non c’è.

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La spiegazione va cercata proprio lì, nell’asimmetria dei versanti alpini, nella diversa distribuzione delle curve di livello.

Il confine tra Pianura Padana e Alpi è netto e in Piemonte lungo di esso corre una città diffusa che fa da confine tra due mondi che stanno allontanandosi sempre più.

Mentre sulle Alpi si sta affermando un deserto verde, in basso c’è una pianura sempre più antropizzata, con un tasso di inquinamento tra i peggiori in Europa, con aree metropolitane che sono motore di sviluppo industriale e una agricoltura intensiva sempre meno sostenibile.

Una società postmoderna, in crisi strutturale, vede nelle Alpi sempre più verdi un alibi, senza sapere che con ogni probabilità l’anello debole sta in basso.

Sul versante estero invece il declino è graduale, le città sono lontane e non c’è quella frattura geografica, ambientale, storica e sociale che troviamo qui.

Il conflitto che sta emergendo in modo evidente è per buona parte riconducibile a questi fattori, questione da sociologi, economisti, antropologi, a cui do una lettura da montanaro.

Aggiungiamo poi che lo spartiacque alpino che separa gli Stati dal Trattato di Utrecht (1713) non ha mai separato le genti montanare, che vivono allo stesso modo l’immanenza del territorio, la stagionalità, i problemi logistici e tutto quanto riguarda la vita.

Un approccio maturato e vissuto nei secoli che porta le popolazioni alpine a difendere quanto di sacro e di indispensabile è necessario per vivere quassù: libertà e democrazia.

Il rapporto tra questi due mondi andrebbe ricondotto in un contesto che il prof. Fabrizio Barca chiama “conflitto ragionevole”, per arrivare assieme ad un nuovo ed indispensabile “patto di sindacato” tra Monte e Piano.

Ho vissuto i due mondi, li conosco, ho visto la povertà che ha portato alla desertificazione alpina, ma era una povertà da sempre dignitosa, che aveva una via di fuga.

Nella pianura, nelle aree metropolitane la povertà è in un “cul de sac” di disperazione, lì c’è la miseria, miseria che sulle Alpi non c’è mai stata, per questo dico che l’anello debole è in basso.

Cosa si aspetta a unire idee e energie per pensare assieme un avvenire possibile?

Mariano Allocco

22 Febbraio 2017

J’accuse di una pastora: ci uccidono senza sporcarsi le mani

Vai all’articolo originale

http://www.ruralpini.it/Una_pastora_ai_signori_del_lupo.html


(28.02.17) Ci uccidete per imporre la vostra civiltà di plastica. Ci uccidete con ipocrisia, camuffando il genocidio con il pretesto di quella natura che state distruggendo e del lupo elevato a bandiera

di Anna Arneodo

Sta nevicando: neve di febbraio, pesante, neve che già sente la fine dell’inverno. Pochi chilometri più a valle è già pioggia; qui è passato stanotte tardi lo spazzaneve, ma ora si sale solo con le catene.

Le stalle sono piene di agnelli: belli, grassi, sono già agnelloni oltre i 30 kg, ma quest’anno nessuno riesce a vendere … la crisi, l’importazione …? Intanto nelle stalle pecore e agnelli mangiano… Fuori del giro dei pastori nessuno si accorge di niente. L’altro ieri ho parlato con un pastore: un gregge di una cinquantina di bestie adulte, la passione che lo teneva vivo per continuare:

« Come vanno le bestie? »

« Ne ho caricate 82, le ho tolte tutte, basta! Non vendi più un agnello, d’estate l’alpeggio, d’inverno il fieno, il lupo, la burocrazia che ti mangiano. Ho chiuso tutto! »

Un’altra sconfitta! Pian piano questa società ci sconfiggerà tutti, chiuderà la montagna, ne farà un grande parco da sorvolare con gli elicotteri, per posarsi sulle punte- eliturismo!- e guardare dall’alto il presepio delle borgate abbandonate. Questo sarà fra poco la nostra montagna!

E intanto: il lupo! Povero lupo, il simbolo ecologico, il simbolo della coscienza sporca di tanta gente, salviamo il lupo! “ La Stampa” di mercoledì 1 febbraio ne ha una pagina piena: non una parola sui pastori, su chi vive e mantiene viva la montagna. Chi scrive, chi protesta, chi difende il lupo e le teorie ecologiste sta in città, ha lo stipendio assicurato, tanto tempo libero per farsi sentire, magari è anche vegano per sentirsi la coscienza pulita.

Noi pastori, allevatori, gente di montagna siamo quassù a presidiare il territorio, a mettere in pratica quotidianamente l’ecologia( ecologia- da “oikos”= casa), noi difendiamo ogni giorno la nostra casa, il nostro paese, il nostro ambiente.

Sopra: Anna fa il fieno con i figli per le sue pecore. Per solidarizzare con Anna scriverle a bram.2010@libero.it

Ma di noi nessuno si ricorda, diamo perfino fastidio, siamo pietra di inciampo. Noi, gente della montagna, che da secoli su questa terre scomode abbiamo saputo creare una cultura, una sapienza di vita per sopravvivere in un ambiente ostile, noi con la nostra storia, la nostra lingua, noi non contiamo niente: l’economia e la politica hanno deciso così.

Vivi ormai quassù ogni giorno con una malinconia, una inquietudine dentro che ti spegne ogni entusiasmo, ogni voglia di combattere.

Ci state massacrando. È un nuovo genocidio della montagna, fatto senza sporcarsi le mani.

Ultima bandiera il lupo.

CUCINA DELLE ALPI

Pronto il programma del ciclo “gastroculturale” CUCINA DELLE ALPI.Conversazioni a cena con cinque artigiani del cibo  Dal 4 marzo al 29 aprile 2017 alla Bibliosteria di Cà Berizzi Corna Imagna.  Cinque serate che esprimono il paesaggio del cibo di cinque realtà alpine, espressione della variegata cultura umana alpina e della sua natura

fersina

di Michele Corti

(03.02.17) La rassegna è Organizzata da Cà Berizzi (la BibliOsteria) di Corna Imagna con il Cnetro studi valle Imagna e il Festival del pastoralismo. L’iniziativa ha coinvolto cinque realtà culturali alpine da Cuneo a Udine: la valle Stura di Demonte  (Cn), l’alta Valsesia (Vc), la valle del Fersina (Tn), la Valsugana-Lagorai (Tn) , Gemonese (Ud).

Presso ciascuna di queste realtà sono attive delle associazioni culturali o degli ecomusei che da tempo promuovono la cultura locale e la cultura rurale alpina, anche nei suoi aspetti agroalimentari e gastronomici. Grazie a loro e alle persone che le animano (alcune delle quali conosceremo a Corna Imagna e che vi farò conoscere in antipico) è stato possibile organizzare la manifestazione. Le citiamo nello stesso ordine (da Ovest ad Est):Ecomuseo della pastorizia di Pontebernardo, Pietraporzio (Cn),Associazione “Gruppo walser Carcoforo”, Carcoforo (Vc),Associazione culturale “Schratl”, Palù del Fersina / Palai en Bersntol (Tn),  Libera associazione malghesi e pastori del Lagorai,  Telve (Tn), Ecomuseo delle acque del Gemonese, Gemona (Ud) .

Una rete di relazioni culturali

Dietro le sigle sopra riportate vi sono persone, facce note, amici che conosciamo da tempo (con i quali ci si sente anche spesso), e con i quali abbiamo partecipato ad iniziative (in qualche caso non solo una) sul loro territorio. Reti già esistenti che possono essere valorizzate, come in questo caso, per promuovere conoscenza reciproca e  il grande patrimonio della cultura del cibo ruralpina. Per molti sarà anche un’occasione per conoscere quelle lingue “minoritarie”, un tempo vere “lingue tagliate” (in gran parte sradicate dal monolinguismo imposto in Italia dal fascismo ma non solo da esso). Esse fanno delle Alpi un mosaico culturale e lingustico dove non è quasi mai lo spartiacque a fare da limes. Un mosaico fatto non di “blocchi compatti” ma spesso di isole e arcipelaghi linguistici variegati (basti pensare al romancio ma anche alle antiche parlate germaniche disseminate tra Trentino e Veneto). Un panorama quanto mai ricco.

Lingue e gastronomia: la ricchezza della cultura alpina

Quattro su cinque delle realtà invitate a Corna Imagna sono rappresentanti di “minoranze linguistiche”: Provenzale alpino (Occitano), Walser (lingua alemannica), “Mocheno”/Bernstoler (antica parlata baiuvara), Friulano. La particolare coloritura linguistico-culturale di queste terre si riflette anche nella cucina dando luogo ad interessanti considerazioni e a inedite esperienze.

Esperienze agricole, di azione locale, di resistenza montanara e umana

Vorremmo come organizzatori che a queste serate intervengano non solo gli appassionati di cucina e di cultura alpina, ma anche chi sul nostro territorio (la montagna orobica e lombarda più in generale) è impegnato in esperienze di rigenerazione locale, comunitaria, agricola. Tutte queste esperienze parlano della, a volte faticosa, rinascita di produzioni agroalimentari: vuoi di una razza ovina o caprina, di una varietà di mais,


SABATO 4 MARZO 2017 – Lagorai – Valsugana (Trentino)            


La cucina di Luigi Montibeller, un inno alla biodiversità di Valsugana e Lagorai, terra ricca di pascoli e pastori: latte, formaggi, panna, burro di malga, patate, verdure e ce- reali, mele e miele, erbe aromatiche, asparagi selvatici, porcini e mirtilli rossi del sotto- bosco. Un viaggio spirituale dentro il cibo di un paesaggio di montagna: zuppa d’orzo con latte crudo e porcini del Lagorai, polenta di mais Spin. Vini: Rebo e Chardonnay.
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SABATO 18 MARZO 2017 – Alta Valsesia (Piemonte)  
Saranno serviti piatti basati sulla produzione alimentare valsesiana del Quattro-Cinque- cento, quando in valle vi era una corrispondenza assoluta tra produzione alimentare e alimentazione. Le tre portate ( toma e salagnun, mocette e lardo con miacce, Wallisschuppa e Wiwellata ) sono costituite da piatti unici, non assimilabili a quanto attualmente definiamo antipasti, primi e secondi piatti.Vini rossi dei colli novaresi con uve Nebbiolo.

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SABATO 1 APRILE 2017 – Territorio del Gemonese (Friuli)            
 Il territorio del Gemonese, all’imbocco della valle del Tagliamento, è un luogo di pas- saggio, dove i commerci, le migrazioni, gli spostamenti stagionali hanno portato con sé culture e colture, piatti e sapori di provenienze diverse. Qui opera l’Ecomuseo delle Acque, impegnato a interpretare il patrimonio agroalimentare locale, i cui prodotti simbolo sono il Pan di sorc e il Formaggio di latteria turnaria , presìdi Slow Food.

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 SABATO 24 APRILE 2017 – Valle del Fersina/Bersntol (Trentino)              
La Valle del Fersina-Bersntol, nel Trentino Orientale, è attraversata dal torrente Fersina ed è caratterizzata dalla presenza della minoranza linguistica Mòchena/Bersntoler (in tre paesi si parla l’idioma germanofono). La cultura legata al passato teutonico si è portata appresso una serie di usi e costumi anche nel campo gastronomico. I Kuckeler , i Kròpfen , de Stèlzer sono solo alcuni dei piatti legati alla tradizione che si rinnova in continuazione.

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 SABATO 29 APRILE 2017 – Valle Stura di Demonte (Piemonte)        
 L’Ecomuseo della Pastorizia e il Consorzio l’ Escaroun ci introducono nella Valle Stura di Demonte, terra della pecora sambucana. Protagonista della serata è l’ agnello sambucano, presidio Slow Food. Oltre alla delicata e gustosa carne, viene offerto il formaggio la toumo , con salumi e paté. Un esperto dell’Ecomuseo ci illustrerà il patrimonio storico-cul- turale ed economico della Valle Stura, con al centro gli allevamenti ovini sambucani.

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Gli incontri sono articolati in due momenti; alle ore 18,00: convegno con presentazione degli ospiti, delle produzioni e delle attività dei rispettivi territori; alle ore 20.00: cena a base dei prodotti agroalimentari dei vari contesti; i singoli piatti vengono presentati e illustrati ai commensali dal cuoco regionale.

Le prenotazioni sono aperteLa cena 30 €, vini compresi – chi partecipa a tutte le 5 serate ha diritto ad una cena gratuita (Euro 120,00 anzichè 150,00) – Chi partecipa ad almeno 4 serate a un libro del Centro Studi in omaggio

info 366 546 2000  info@caberizzi.it

Cà Berizzi, Via Regorda 7, 24030 Corna Imagna (Bg

Un progetto per fare incontrare i territori rurali italiani

gIn nome di cibo come cultura ed espressione di comunità territoriali

Sono già due gli incontri realizzati a Cà Berizzi, a Corna Imagna nell’ambito di un itinerario attraverso le  culture contadine e pastorali e le loro espressioni culinarie. Un itinerario che ha già toccato la val Vibrata (Teramo) e la valle del Belice (Trapani) e che questa settimana toccherà la montagna genovese. Questo primo ciclo, inserito nel Festival del pastoralismo di Bergamo 2016, rappresenta solo un inizio. Il progetto, avviato dal Centro studi valle Imagna e dal Festival del pastoralismo prevede una prossima rassegna di “Cucina delle Alpi” e poi ancora nuovi cicli spaziando da Nord a Sud dove esistono realtà di continuità e rinascita delle tradizioni agroalimentari e gastronomiche ancorate alla ruralità, alla storia del luogo, orgogliose di farne una risorsa per un nuovo sviluppo.

Il progetto procede attraverso l’invito a Cà Berizzi di una “delegazione” di un territorio specifico (un comune, alcuni comuni, una valle) contattato tramite un’associazione culturale, una pro loco, un ecomuseo. Della “delegazione” oltre a personaggi coinvolti nella valorizzazione del patrimonio, in studi sulla memoria locale, sulla cultura contadina e pastorale (ma al tempo stesso in progetti di sviluppo rurale), fa parte uno chef (ma può essere anche una “cuoca rurale” esperta delle preparazioni locali). Al di là del far gustare dei piatti chi viene a Cà Berizzi per questi eventi fa toccare con mano come nascono questi piatti, da che paterie prime (magari portandole anche da casa) e, soprattutto, da quale contesto “socioagricolo”, di scambi, di consuetudini.

Così è stato per i primi due incontri che, per i partecipanti, hanno rappresentato ben più di una “cena a tema”. Al primo incontro, del 29 ottobre,  ha partecipato Francesco Galiffa , prolifico scrittore in ambito storico-antropologico autore di libri di storia locale ma anche di cultura gastronomica che prendono spunto dall’esperienza locale per affrontare un tema a più ampio raggio. Così con il libro sulla capra, che comprende un ricettario unico nel suo genere oltre a una parte generale ricca di informazioni (Dentro la pentola la capra gongola. Associazione Culturale Ferdinando Ranalli, Grafiche Picene, Maltignano 2012). Successivamente ha scritto  “Sui vini cotti dell’Abruzzo Teramano”, in La ragion gastronomica, a cura di Costantino Cipolla e Gabriele Di Francesco (Franco Angeli, Milano 2013) e , di recente Nel regno dei legumi,  Marte editrice, Colonnella, 2016). Galiffa era accompagnato dal giornalista Rai Antino Amore che nella parte introduttiva della serata ha proiettato e commendato alcuni video realizzati dalla Rai regionale per Expo e dallo chef Lorenzo Ferretti del ristorante Palazzo ducale della Montagnola di Corropoli. Ferretti e Galiffa hanno commentato con grande disponibilità i piatti (agnello cacio e ovo e, il piatto  forte della cucina della val Vibrata: la capra alla neretese con i peperoni ma anche la zuppa di legumi con i fichi, frutto di una riscoperta di un antica ma radicata ricetta). Bello il dialogo con i partecipanti. I vini della cantina Montori  (in particolare il Montepulciano d’Abruzzo Fonte cupa) hanno contribuito per una parte non secondaria al successo della serata.

Dalla valle del Belice con una sconfinata passione per le pecore, il pascolo, i formaggio fatto bene

Il secondo incontro, del 4 novembre,  ha avuto per protagonisti i coniugi Cangemi dlel’omonomimo caseificio di Partanna (Trapani). Allevano 900 pecore belicine (della valle del Belice) e trasformano il latte (solo il loro) in due prodotti eccezionali: la vastedda e un pecorino siciliano superlativo. Calogero Cangemi ha prodotto la vastedda (un raro formaggio ovino a pasta filata) al momento, davanti agli occhi stupiti dei commensali, utilizzando una cagliata portata da casa in aereo.  Sia Calogero che la moglie Giovanna hanno trasmesso ai presenti il senso di una passione enorme per le pecore, per il loro lavoro. Fare il formaggio è un modo di esprimere sé stessi se si è nei maestri artigiani, specie se donne come Giovanna che  vive per il formaggio. Calogero tiene a sottolinerare le peculiarità di un pecorino poco salato, che dopo cinque mesi è ancora pastoso e già ricchissimo di note organolettiche. Fatto con latte di pecore alimentate al pascolo, con latte crudo, con caglio di agnello in pasta.  Un vero capolavoro figlio del territorio ma anche della personalità innovativa dei Cangemi che hanno iniziato a trasformare il latte molti anni fa quando la consegna ai caseifici garantiva un reddito più sicuro e meno responsabilità.

C’è ancora un evento da non perdere….

Per chi è interessato a queste esperienze vi è ancora un ultimo appuntamento di questo primo ciclo. Per venerdì 11 novembre. La serata di venerdì a Cà Berizzi sarà non è interessante solo per il menù ma anche densa di stimoli culturali per chi ha passione per la ruralità. Ospiti Massimo Angelini, editore, scrittore, ruralista, antesignano del recupero delle antiche varietà di piante coltivate (emblema la “quarantina” , la patata bianca dei contadini della montagna genovese). Un personaggio noto negli ambienti della nuova e vecchia agricoltura contadina, esponente della rete semi rurali e promotore e coordinatore della campagna per unalegge per il riconoscimento dell’agricoltura contadina. Angelini, cui va anche il merito di aver mantenuto in vita la tradizione degli almanacchi contadini con il Bugiardino è intellettuale del tutto anomalo,  prima di tutto perché non cerca la “visibilità” che tanto ossessiona intellettuali e sedicenti tali. E’ stato un antesignano del ritorno ad un ruralismo senza complessi di nferiorità (questo sito nasce dalla conoscenza delle idee di Angelini). Oltre alle “qualifiche” che abbiamo citato Massimo è molto altro e lo si scoprirà conoscendolo di persona. L’altra ospite d’onore (in cucina prima di tutto) è la signora (ottantenne) Rita Garibaldi, già cuoca dell’Antica Trattoria Garibaldi di Caminata in Valgraveglia, depositaria di molti segreti della cucina dell’entroterra montano ligure.  Una terra segnata dall’invecchiamento e dall’abbandono di un’agricoltura che non si prestava a convertirsi in agroindustria e che ha la sola prospettiva di morire o di affermarsi come nuova agricoltura contadina, un’agricoltura non “neo”, snob, chic, slow, ma saldamente ancorata ai valori contadini di sempre secondo la lezione austera di Angelini, apparentemente persino un po’ rigida se non se ne conosce anche il risvolto pacificato, religioso, sereno. Da queste persone possiamo aspettarci parole e cibi veri. Sicuramente diversi dalla “cucina regionale ad uso turistico”.

Venerdì 11 novembre terzo incontro interregionale di cucina pastorale e contadina  La montagna genovese e la sua cucina: patata quarantina e molto altro Bibliosteria di Cà Berizzi via Regorda 7, Corna Imagna (Bg) – caberizzi.it

    • Torta Baciocca e Prebugiun di Ne
    • Minestrone alla Genovase con i taglierini fatti a mano
    • Cima ripiena alla Genovese fatta al forno
    • Focaccia dolce di ricotta, pinoli e uvetta

Vini: Bianchetta Ligure – Musaico Dolcetto – Barbera

(ore 19: riflessioni con Massimo Angelini su alcuni miti fioriti intorno alla cucina tradizionale – ore 20: cena)

Euro 25,00 – prenotare al 3665462000 – info@caberizzi.it

Al Festival del pastoralismo di Bergamo 2016 tiene banco la capra

La mostra approfondisce lo “strano caso” della capra, animale oggetto di cicliche ondate di spregio e di considerazione in relazione alle vicende delle società e culture umane. Aperta da dal 5 al 27 novembre, cerca di trovare una spiegazione legata al ruolo della capra nei diversi contesti rurali e agronomici, ai simbolismi di cui è stata caricata, ai conflitti sociali e agli orientamenti ideologici che ne hanno sancito lo status. vengono esplorati aspetti poco conosciuti della storia sociale dell’allevamento caprino utili a comprendere il revival di questo intrigante animale a partire dal ’68.

Aperta il venerdì – sabato – domenica  dalle 10.00 alle 12.30 e dalle 14.00 alle 18:00
Presso la Sala comunale dell’ex Ateneo in Piazza Duomo (ingresso secondario Piazza padre Reginaldo Giuliani) A BERGAMO ALTA

info: cell. 3282162812 festivalpastoralismo@gmail.com  festivalpastoralismo.org/

(08.11.16) Il Festival, giunto alla terza edizione, quest’anno è dedicato alla capra. Era giunto il momento di trattare questo animale, il suo allevamento, i suoi prodotti in modo retrospettivo, alla luce di una storia del ruolo occupato dalla capra nelle società e nelle culture dell’uomo. Esercizio di erudizione? Assolutamente no, perché il fenomeno del ribaltamento – nel corso di pochi decenni – da un pregiudizio negativo ad uno positivo nei confronti dell’animale, del suo allevamento, dei suoi allevatori, dei suoi prodotti, rappresenta un fenomeno interessantissimo. 


La storia sociale della capra rappresenta un esempio trasparente delle implicazioni culturali, sociali e politiche della produzione agroalimentare

Un fenomeno che ci aiuta a capire come le relazioni tra uomo e i suoi animali, i sistemi agricoli, la produzione, trasformazione, consumo di cibo siano inzuppate di  implicazioni culturali, sociali e politiche. Non prenderne atto e continuare a pensare l’agricoltura in termini tecnici ed economici non aiuta ad affrontare problemi enormi che si chiamano insostenibilità ambientale dei sistemi agroalimentari, sudditanza alimentare. Pensare l’agricoltura in modo tecnocratico aiuta solo i poteri forti che da quando esiste la modernità coprono il loro interesse con l’argomentazione “scientifica”. Per capire cosa centri la capra con tutto questo bisogna considerare che il conflitto sociale sull’uso delle risorse agroalimentari, agrosilvopastorali è vecchio quanto la stratificazione sociale e la formazione delle città. 


Pochi esponenti della classe dominante hanno affermato con lucida  ferocia tecnocratica il loro interesse di classe  come gli illuministi. Cesare Beccaria è ricordato per le sue argomentazioni “buoniste” sulla pena capitale ma  pochi ne conoscono il lato ben poco buonista ben espresso quando fu chiamato a proporre “riforme” (con questo nome si è da allora cercato di far digerire provvedimenti antipopolari e antidemocratici) sui boschi. Il Beccaria, che non era solo uno “scrittore” ma era parte dell’apparato governativo dello stato di Milano asburgico. Nel 1783 propose di obbligare i comuni a vendere i boschi ai proprietari delle miniere e degli impianti di lavorazione del ferro (che utilizzavano molto legname) e di limitare drasticamente l’allevamento caprino.  La  politica “anticapre”  mirava a togliere ai montanari un mezzo  prezioso di sussistenza in modo da costringerli a diventare forza lavoro industriale o ad allevare bovini da latte entrando nell’economia commerciale. Durante il napoleonico Regno d’Italia le vedute tecnocratiche trovarono piena applicazione tanto che nel 1806 con un “bando delle capre” e nel 1811 con un regolamento generale dei boschi si cercò di sradicare completamente l’allevamento caprino. Con il ritorno degli austriaci la politica anticapre venne solo parzialmente mitigata attraverso la concessione di deroghe ai comuni montani più poveri ma limitando pesantemente il numero di capre mantenute per famiglia e “concedendolo” solo a quelle “miserabili”.


Di qui la sanzione di quell’associazione tra capra e miseria che si è tradotta nel motto: “la vacca dei poveri” (il titolo della mostra) e che ha condizionato  a lungo l’immagine dell’allevamento caprino e dei suoi prodotti. L’Ispettore generale dei boschi, Giuseppe Gauteri, un tecnocrate che restò al suo posto dopo il cambio di regime del 1815, nel suo trattato anticapre “Dei vantaggi e svantaggi delle capre in confronto alle pecore” legittimò anche sul piano del gusto la sua avversione per la capra sostenendo che il formaggio è per “palati rozzi” e per “miserabili” che intendono risparmiare sul sale.  Nel secolo scorso fu un altro regime ispirato dal giacobinismo (sia pure “di destra”) a combattere la capre.


Nel 1927 il fascismo che aveva già rese più severe le leggi forestali   lanciò la sua battaglia anticapre istituendo una tassa pesantemente progressiva. Chi aveva sino a 3 capre pagava 10 £ a capo che salivano a 15 (da 3 a 10 capi) e  20 (oltre 10).  A far applicare le norme anticapre vi era la Milizia Nazionale Forestale (sopra il Duce con i forestali). A conferma delle relazioni tra cultura, politica e allevamento caprino va aggiunto che la ripresa di interesse e favore per la capra degli ultimi decenni è un chiaro portato del movimento del Sessantotto.

Una storia sociale ma anche culturale e simbolica

Nel caso della capra, più che di altri animali l’influsso di fattori sociali, ideologici politici si è sovrapposto ad elementi di natura simbolica.  Divinizzata in alcune antiche religioni che nel loro pantheon avevano divinità con testa, corna e zampe di capra o che assegnavano alle capre il ruolo di cavalcature o di animali da traino di cocchi delle divinità la capra ha subito con l’affermazione della civiltà agraria e della stratificazione sociale un progressivo cambiamento di statuto simbolico che non è riconducibile solo all’influsso del giudeo-cristianesimo (con il “capro espiatorio” e la rappresentazione di satana con attributi caprini). Il dio Pan e i satiri sono già un elemento di una “decadenza” e di una marginalizzazione del “dio cornuto” personificazione della fertilità, del governo del caos, del potere cosmico e sovrano (come indicato dalla sovrapposizione tra corna e corona regale) sostituito dagli dei celesti.

La “divinizzazione” e la “demonizzazione” della capra nella sfera religiosa riflettono il passaggio da società neolitiche in cui a fatica i gruppi umani strappavano spazio alla foresta (in questo aiutati dalla capra) a società in cui lo spazio incolto si riduce e dalla gestione comune dei campi e dei pascoli si passa alla privatizzazione, alla recinzione, alla disuguaglianza di possesso della terra. In un regime di “comunismo di villaggio” i campi erano aperti al pascolo collettivo dopo le raccolte e il governo degli animali era oggetto di autoregolazione. In una gestione comunitativa tutti possedevano animali e terra e il danno alla proprietà privata non esisteva.

Una lezione contro i pregiudizi e l’assolutizzazione del presente, dell’esistente

Anche se tutta la storia umana è stata caratterizzata da continui cambiamenti (a differenza dell’immagine di un passato preindustriale quasi immobile) oggi il ritmo del cambiamento è rapidissimo. Di conseguenza nella vita di una persona è possibile assiste a sconcertanti rivolgimenti. Oggi i più anziani ricordano con riconoscenza nei confronti della capra di essere stati svezzati con il suo latte. I meno anziani “pensano” la capra in termini negativi, quale emblema di una miseria da esorcizzare. I giovani, immemori di tutto ciò, pensano che la capra sia una “nuova moda”. La mostra rappresenta un’occasione per giovani e anziani per riconnettere passato recente, passato remoto ad un presente che appare spesso ambivalente, incerto. Dal punto di vista apparentemente molto particolare della “storia sociale della capra” la mostra cerca di gettare luce su temi di interesse più ampio. Con l’obiettivo di aiutarci a comprendere il ruolo negativo del pregiudizio sociale e culturale e di guardare all’oggi e al domani senza essere abbagliati dall’esaltazione acritica della modernità e dei suoi miti.